-Padre Giuseppe e Richelieu
-Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia
-Padre Giuseppe, il Cardinale mancato
-Padre Giuseppe, l'uomo religioso
La successione di Mantova
Nel 1627 le attenzioni delle principali potenze europee, che allora erano coinvolte nella guerra che si stava combattendo sui territori tedeschi, si rivolsero verso la penisola italiana. In quell'anno il duca di Mantova, Vincenzo II Gonzaga morì senza eredi, estinguendo così il ramo principale della famiglia. Le leggi di successione prevedevano che il diretto discendente del defunto duca fosse l'ormai conosciuto Carlo Gonzaga, duca di Nevers, che apparteneva ad un ramo collaterale della dinastia. Carlo aveva forti interessi alla Corte di Parigi e la sua ascesa al trono di Mantova avrebbe inserito il ducato nella sfera d'influenza francese. Questa eventualità scatenò reazioni da parte di chi da un secolo controllava la politica peninsulare, la Spagna, la quale vedeva negativamente l'intromissione di un esponente al servizio di Luigi XIII nei suoi interessi. Un altro regnante che era interessato alla questione mantovana era Carlo Emanuele I di Savoia. Egli non vedeva di buon occhio una successione, chiunque ne avesse benficiato, siccome le sue mire espansionistiche già da tempo si erano mosse verso il ducato di Monferrato. Questo territorio, stretto tra la Savoia, il ducato di Milano, e la Repubblica di Genova, apparteneva dal 1575, per concessione imperiale al ducato di Mantova, ma i due territori non avevano continuità e risultava difficile, per chiunque sedesse sul trono di Mantova, gestire i due possedimenti. La morte di Vincenzo II era, per Carlo Emanuele, una possibilità per mettere le mani sul Monferrato, ma un legittimo discendente a Mantova lo avrebbe, nel migliore dei casi trascinato in una guerra. Carlo Emanuele cercò quindi di ostacolare la legittima successione unendo i propri propositi a quelli spagnoli: si accordò affinché alla Savoia andassero i territori del Monferrato, nel caso in cui il pretendente di un altro ramo della famiglia Gonzaga, Ferrante II Gonzaga, duca di Guastalla, appoggiato dagli spagnoli, fosse riuscito ad arrivare sul trono mantovano. A venire in aiuto agli interessi di Madrid fu l'Imperatore, il quale, essendo Mantova feudo imperiale, si arrogò il diritto di decidere chi avrebbe dovuto guidare il ducato e non concesse la necessaria investitura a Nevers. Fu a questo punto che il Nevers chiese l'aiuto della Francia, che, però, si era da poco impegnata nell'assedio a La Rochelle e le sarebbe risultato difficile intervenire oltralpe senza procurare problemi al proprio interno. O'Connell nel capitolo XI del suo libro, descrive molto bene i passaggi della diplomazia che precedettero gli scontri. Non è il caso di ripercorrerli qui, anche perché gli sforzi di Richelieu per ritardare qualsiasi intervento spagnolo nella valle del Po furono pressocché inutili, ma si può cominciare dall'interesse di Carlo Emanuele per Casale, la capitale del ducato di Monferrato, e alla sua cittadella. Casale era, insieme alla Valtellina, una tappa importante di quella via che, da Genova alle Alpi, permetteva agli spagnoli le comunicazioni con l'Impero e il nord Europa. Uno dei principali alleati del re savoiardo era Gonzalo de Córdoba, governatore spagnolo di Milano, il quale aveva buone ragioni per appoggiare il suo vicino nella conquista del piccolo ducato: sei anni prima Gonzalo aveva comandato le truppe che avevano preso parte alla conquista del Palatinato, scacciando Mansfeld col suo esercito, costringendolo in Alsazia; il Nevers, che all'epoca era governatore della Champagne, gli consentì di riparare nei suoi territori e, dopo aver marciato sul Belgio, piombare alle spalle di Gonzalo e sconfiggendolo, liberando dall'assedio la città di Bergen-op-Zoom. Il governatore spagnolo vedeva Nevers come un pericolo nell'Italia settentrionale, oltre che un segno evidente del declino del potere spagnolo nella penisola, ma per mesi Madrid non rispose. Quando, morto Vincenzo II, il Nevers fu sul punto di insediarsi senza i titoli legali, ottenibili solo dall'imperatore, di cui Mantova era feudo, si rivolse a Carlo Emanuele, che non esitò ad accettare. All'inizio del 1628, intorno a marzo, iniziarono le operazioni congiunte dei savoiardi e dei milanesi e Casale venne messa sotto assedio. Richelieu stesso, bloccato a La Rochelle, si ritrovò a dover difendere la posizione di Nevers: scrisse ad Olivares, primo ministro del re spagnolo Filippo IV, accusandolo di non aver mantenuto gli impegni presi per l'assedio a La Rochelle e, considerando i movimenti di Gonzalo de Córdoba in Italia la parte di un piano antifrancese degli Asburgo, rammentò al primo ministro spagnolo che la pace di Monzon e il trattato di alleanza tra Francia e Spagna, rendevano obbligatoria la negoziazione della questione mantovana e, in attesa dei negoziati, a fermare le operazioni militari. Oltre a questo Richelieu ricordò, tramite l'ambasciatore francese a Madrid, che Spinola, quando visitò il campo di Luigi XIII durante l'assedio a La Rochelle, aveva dato il pieno appoggio spagnolo contro i protestanti. L'unica cosa che ottenne fu che la Spagna aumentò il suo esercito in Italia. A fronte di questa risposta, il Cardinale non trovò altra soluzione che appoggiare i diritti di Nevers alla sua successione, ma finché fosse durato l'assedio de La Rochelle i francesi erano bloccati. I due assedi, quelli a La Rochelle e quello di Casale divennero protagonisti di una "corsa al termine": se i francesi fossero riusciti a prendere la Rochelle prima che gli spagnoli facessero altrettanto con Casale, avrebbero potuto intervenire in Italia, in caso contrario la Spagna avrebbe assestato un duro colpo alle pretese di Nevers a Mantova.
Le difficoltà aumentavano per Gonzalo, che riceveva, per le falle del sistema amministrativo spagnolo, le briciole dei finanziamenti che arrivavano da Madrid per reclutare forze fresche, e la città non dava segni di cedimento. Le difficoltà e la, nonostante tutto, poca collaborazione ed entusiasmo madrileno per questa guerra, convinsero, nel frattempo, Carlo Emanuele a sondare le posizioni francesi. Richelieu, tutto preso dall'assedio, accondiscese alle richieste savoiarde: egli avrebbe abbandonato la Spagna se la Francia gli avesse promesso che avrebbe potuto mantenere parte delle conquiste fatte. Egli rimase, però, almeno formalmente un alleato spagnolo.
La situazione per Richelieu non era rosea, dovendo organizzare probabilmente una campagna invernale per liberare Casale (liberazione che diventava sempre più necessaria per i francesi) se non si fosse voluto che gli interessi spagnoli dominassero completamente il nord della penisola. Un altro problema che assillava il Cardinale e il suo entourage era Luigi. Bisognava convincere il re, uomo pio, che la guerra contro la Spagna era necessaria non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello religioso, altrimenti non avrebbe acconsentito, aizzato probabilmente dalla madre filospagnola, a mettersi contro alla più grande potenza cattolica d'Europa. Al Consiglio del 13 gennaio 1629, Richelieu espose il problema mantovano come cardine per la sicurezza francese e, soprattutto, per la sua grandezza e la sua autorità. Un altro fattore spingeva Richelieu a concentrare le fatiche francesi all'estero: aveva bisogno di qualcosa che unificasse il regno concentrando gli sforzi all'esterno, la chiamata alla guerra avrebbe attirato sotto le bandiere del re persino i nobili protestanti che non avrebbero esitato a battersi contro la Spagna.
Gli eserciti francesi, una volta caduta La Rochelle, si diressero verso est, mentre Richelieu, senza fare parola di questo, scriveva ad Olivares che immaginava fosse contento della caduta della città protestante. La marcia dell'esercito francese continuava e il re si mosse da Parigi il 16 gennaio 1629 in un viaggio trionfale che, attraverso la Champagne, la Borgogna e il Delfinato, fino a Grenoble, portò l'offensiva a ridosso dei territori italiani. Père Joseph era al seguito del re durante questo viaggio.
Il piano francese era complicato quanto rischioso: l'esercito avrebbe dovuto dirigere tre attacchi simultanei, il primo imbarcandosi alla foce del Rodano si sarebbe diretto verso le coste liguri per poi marciare verso Casale, il secondo avrebbe tenuto impegnate le truppe piemontesi, il terzo, guidato dal re stesso e da Richelieu, avrebbe varcato le Alpi dal Delfinato e marciato direttamente su Casale. Contemporaneamente le truppe di Mantova e Venezia, alleata per l'occasione contro gli odiati Asburgo, avrebbero dovuto convergere su Casale attraverso il Milanese. L'unico ramo dell'esercito che concluse qualcosa fu quello guidato da re, che, però, trovò difficoltà all'altezza del passo del Monginevro.
Nessuno sapeva ancora da quale parte stesse effettivamente Carlo Emanuele. Egli faceva di tutto per rimanere neutrale almeno formalmente, ma non aveva ancora rotto l'alleanza con la Spagna. Richelieu era convinto che si sarebbe avvicinato alla Francia, anche in virtù delle ambasciate negoziali che gli erano arrivate da Torino, quando era a La Rochelle. Una volta che l'esercito francese fu entrato in territorio savoiardo, venne inviato al cospetto di Luigi XIII Vittorio Amedeo, il figlio di Carlo Emanuele, a proporre uno scambio tra una città piemontese e una francese per facilitare la collaborazione. Richelieu, stanco delle richieste del Savoia, ritenendo impraticabile la strada del negoziato su quelle basi ritenne fosse sciocco continuare a fidarsi di lui e programmò l'attacco a Susa. I piemontesi non opposero eccessiva resistenza e, dato che la Savoia era ormai alla mercé della Francia, Carlo Emanuele, che non poteva fare altro che cercare di volgere la situazione a proprio vantaggio, propose a Luigi di aiutarlo a prendere Genova, poi di appoggiarlo per un attacco nel Milanese, infine, propose allo stesso Richelieu di prendere Genova per lui. Come si sarà capito i francesi rifiutarono tutte le offerte e Carlo Emanuele non riuscì ad ottenere altro che la firma a Susa di un trattato che dava l'accesso delle truppe francesi nel territorio savoiardo fino al Monferrato in quella e in qualsiasi occasione futura e che gli imponeva di approvvigionare Casale adoperandosi perché il governatore di Milano levasse l'assedio. In cambio egli avrebbe ricevuto quindicimila corone d'affitto in cambio di ogni rinuncia sul Monferrato. Questo trattato mise in difficoltà sia la Spagna che la Francia, dovendo avere a che fare con un terzo elemento che, pur essendo alla mercé delle due potenze europee, faceva i propri interessi senza alcuno scrupolo. Richelieu nel frattempo, tornava in Francia con l'esercito. Il Cardinale si mosse per schiacciare una rivolta di Ugonotti in Linguadoca e nella valle del Rodano, una delle ultime sacche di resistenza dei protestanti francesi. Insieme all'esercito viaggiavano un gregge di missionari diretti dal cappuccino. In breve tempo moltissimi centri abitati della zona vennero riconquistati al cattolicesimo e anche la nobiltà ritornò sotto l'ala della Chiesa, ma spesso ad un certo prezzo: molti nobili, i più influenti, promettevano di convertirsi e di portare con sé la piccola nobiltà locale, chiedendo però una gratifica pecuniaria. Anche i nobili cattolici si impegnarono in ugual modo, inviando i propri missionari o pagando quelli di père Joseph, il quale, dal canto suo, consacrava chiese, fondava conventi e, nel giro di tre mesi, ne rese operanti venti in altrettante città della zona. Vennero anche applicate delle pressioni amministrative per limitare il culto ugonotto e le sovvenzioni reali per l'istruzione e il mantenimento del clero protestante vennero sospese; vennero nominati commissari regi adibiti al ripristino di tutti i beni della Chiesa e fu vietata la presenza di pastori stranieri in Francia. Queste manovre, seguite alla sconfitta di La Rochelle, fecero sì che il culto protestante diminuì sensibilmente, e cessò l'esistenza di quello Stato dentro lo Stato, che da tempo era uno dei fattori di destabilizzazione dell'ordine interno. Uno degli obiettivi del Cardinale e del suo.
Alla fine di agosto del 1629, Richelieu era di ritorno a Parigi pronto a trattare le questioni diplomatiche riguardanti Mantova. Carlo Gonzaga, a dispetto dei benefici che gli vennero accordati da Susa, si lamentava frequentemente per essere stato costretto a pagare annualmente Carlo Emanuele. Altre notizie, ancora più preoccupanti, giungevano da due delle principali capitali del tempo, Vienna e Madrid. La Spagna aveva preso molto male la fine dell'assedio a Casale, ritenuta un forte colpo alla capacità di controllare la penisola italiana. Filippo IV di Spagna, si lamentava spesso del fatto che ovunque la sua attenzione si volgesse, trovava sempre i francesi ad ostacolarlo. Il 29 aprile, al Consiglio di Stato in seduta straordinaria per discutere sulla situazione nella pianura padana, lo Spinola sostenne che era impossibile accettare le condizioni francesi così come si presentavano, ma consigliò che Filippo chiedesse, in cambio della sua rinuncia agli interessi sul Mantovano, il ritiro dei francesi da Susa. Olivares, invece, argomentò che i diritti che la Spagna accampava sulla città padana si basavano sulla difesa della Fede: essendo la Spagna il braccio destro della Chiesa, tutto ciò che potesse nuocere a Madrid nuoceva a Roma. Il Consiglio di Stato decise per una dimostrazione di forza nel Milanese, finanziata attraverso la requisizione di oro portato in Spagna da galeoni privati. Subito dopo lo Spinola venne investito del comando in Italia e Gonzalo, il governatore di Milano, venne processato per il suo fallimento, ma dopo l'insuccesso che anche Spinola otterrà, gli venne concessa la clemenza e fu mandato nelle Fiandre. A questo punto l'Imperatore prese l'iniziativa, infastidito dal rifiuto di Nevers di sottomettersi alla giurisdizione del commissario imperiale. Decise così di inviare un esercito in Italia che mise sotto assedio Mantova.
Spinola cominciò a preparare l'assedio a Casale quando gli imperiali stavano ancora assediando Mantova. Il 29 dicembre dello stesso anno Richelieu partì per l'Italia, deciso a difendere quelle che oramai erano le posizioni francesi nella penisola, oltre che al controllo su Mantova. La politica di Carlo Emanuele era da sempre ambigua, ma quella francese, agli occhi del duca piemontese era ancora più ambigua: da una parte gli venivano fatte concessioni, dall'altra i francesi lo attaccavano. Decise così di seguire ancora una volta la via spagnola. In casa francese, Richelieu si trovò estremamente in difficoltà, questa volta, perché la campagna era decisamente osteggiata dalla regina madre, soprattutto per i soliti rancori verso il Cardinale, ma anche per la sua conosciuta simpatia per la Spagna. Il re in tutta questa situazione, oscillava tra le opinioni della madre e quelle del suo primo ministro, e la primavera del 1630 verrà sprecata non riuscendo Luigi a decidersi se continuare la guerra oppure finirla lì. La scena si ripeté per tre volte: guidare gli eserciti gli faceva bene al morale e alla salute, ma prima o dopo le lettere della madre lo riportavano al solito nervosismo e chiedeva a Richelieu di tornare indietro a Lione, dove erano alloggiate Maria e Anna, le due regine. Il Cardinale spiegava i motivi che rendevano necessaria la continuazione della guerra, il Consiglio approvava le richieste del porporato e Luigi si sentiva rinfrancato.
Carlo Emanuele, pretese ora che il trattato di Susa venisse rispettato: voleva che le sue pretese sul Monferrato fossero giudicate per via legale, ottenendo probabilmente l'appoggio dell'Imperatore, e che la Francia gli pagasse seimila soldati che, disse, avrebbe utilizzato per assediare Genova. Richelieu, come al solito, non si fidò di queste richieste e fece varcare il Moncenisio al suo esercito, marciando, nel marzo del 1630, su Torino, ma inaspettatamente le truppe piemontesi si ritirarono, chiudendosi dentro le mura della capitale. Toccò al Cardinale fare una mossa inattesa attaccando e conquistando Pinerolo che avrebbe funzionato da avamposto francese nella Pianura del Po. Cominciarono subito le danze della diplomazia con l'arrivo di un rappresentante del papa, che chiedeva la restituzione di Pinerolo alla Savoia. L'uomo in questione era un italiano della Curia, si chiamava Giulio Mazarino e questo fu il primo passo che lo avrebbe portato alla successione del Cardinale. Le trattative si prolungarono, mentre il re occupava Chambéry e Annecy e le truppe imperiali costrinsero i francesi a cambiare i loro piani, facendosi vive alle porte della Lorena. Per contrastare i francesi che si facevano strada in Piemonte il comandante delle truppe cattoliche in Germania, Wallenstein, si mosse, mentre il suo secondo, Collalto, era già in Italia.
Il 18 luglio 1630 Mantova cadde in mano alle truppe imperiali e venne saccheggiata, Nevers catturato e il generale imperiale, Piccolomini, insieme a Collalto, raggiunse lo Spinola sotto le mura di Casale, che ancora resisteva. A questo punto, mentre le difese di Casale erano sempre più in difficoltà, Carlo Emanuele morì. A succederlo fu il figlio Vittorio Amedeo, che era sposato con la sorella di Luigi XIII, Cristina. Ovviamente schierata a favore degli interessi francesi, Cristina convinse il marito a mettersi dalla parte della pace. Intanto anche le condizioni climatiche giocarono il loro ruolo: la calura estiva che prendeva in una morsa la pianura e la peste che infuriava a Milano resero difficile qualsiasi operazione, mentre gli soldati si ammalavano, sia dalla parte francese, sia da quella ispano-imperiale. Spinola, nel frattempo, era morto vicino a Castelnuovo Scrivia, forse proprio a causa della peste. Un probabile stallo militare convinse Richelieu a rafforzare gli sforzi diplomatici e venne aiutato dal segretario del nunzio pontificio a Torino, Mazarino. Riuscì ad ottenere un armistizio che prevedeva la cessione di Casale agli spagnoli e agli imperiali, mentre la cittadella rimaneva sotto il controllo francese. Se quest'ultima avesse ottenuto soccorsi allo scadere dell'armistizio, la città si sarebbe arresa. Nel frattempo gli ambasciatori francesi cercavano di ottenere dall'Imperatore stesso l'investitura di Nevers per il ducato.
L'occasione più propizia per rovinare i piani degli Asburgo si presentò a Richelieu e a père Joseph quando l'Imperatore, nel giugno del 1630, organizzò una Dieta degli elettori a Ratisbona.
Ratisbona
Fino ad ora è stata trattata la politica francese, anche quella estera, ma solo quella inerente a fatti che coinvolsero direttamente i principali personaggi della potenza europea. È arrivato, però, il momento in cui è necessario ampliare gli orizzonti e inserire le decisioni di Richelieu e dei suoi collaboratori in un più ampio quadro, oltre a delineare gli avvenimenti che, dal 1618, coinvolgevano il continente e che sono stati fino ad ora solamente accennati.
Dopo il 23 maggio 1618, l'Europa precipitò in una guerra da cui sarebbe uscita solo trent'anni più tardi e notevolmente diversa rispetto a prima. Questo evento, considerato l'ultimo conflitto a sfondo religioso nel Vecchio Continente, causò anche il rovesciamento delle egemonie politiche spostando l'asse del potere da Madrid a Parigi. Questo è come, in sintesi, si potrebbe definire la guerra che andò dal 1618 e si chiuse con la pace di Westfalia nel 1648. Fu una guerra tra due, o anche più, confessioni religiose, il protestantesimo e il cattolicesimo; uno scontro tra l'Imperatore, che voleva imporre una volta per tutte il suo potere sulla Dieta, e i suoi elettori e tra gli elettori stessi; una lotta di potere tra una forza in declino, ma ancora detentrice di uno degli eserciti più efficienti, oltre che padrona del più grande impero esistente, la Spagna, e un'altra fortemente decisa a sfidarne il primato, la Francia; erano in gioco gli interessi di Madrid nel mantenere forte il potere imperiale per poter portare a termine le guerra contro le ribelli Province Unite, che sarebbe ripresa nel 1621 allo scadere della pace stipulata dodici anni prima; gli interessi francesi erano invece rivolti verso il sabotaggio di qualunque piano asburgico per evitare di rimanere schiacciata tra i due rami dei discendenti di Carlo V.
Perché si arrivò alla defenestrazione di Praga? I motivi furono puramente religiosi: la Pace di Augusta del 1555 regolava le questioni fondamentali tra la confessione cattolica e quella protestante. Essa dirimeva, non solo gli aspetti inerenti al culto dei cittadini, il cosiddetto cuius regio, eius religio, ma anche la complicata questione riguardante la proprietà dei beni e le confische dei beni, soprattutto quelli immobili, con il reservatum ecclesiasticum.
La situazione peggiorò nel momento in cui, nella seconda metà del XVI secolo, si diffuse in Germania anche il Calvinismo, che non era contemplato nei regolamenti di Augusta.
Come è stato detto, però, i risvolti religiosi si mescolarono a quelli politici e presto divennero secondari. Questo si può ben intuire dal momento in cui potenze cattoliche, come la Francia, si allearono con protestanti come gli svedesi, oppure quando, la stessa Francia, entrò in guerra contro quelli che, seguendo un ragionamento basato sulla religione, avrebbero dovuto essere suoi alleati, la Spagna e l'Impero. Una ulteriore prova della natura non esclusivamente confessionale del conflitto dovrebbe venire dal fatto che molti osservatori contemporanei parlarono di truppe imperiali, bavaresi, svedesi o boeme, non cattoliche o protestanti, che sono distinzioni anacronistiche usate per convenienza dal XIX secolo per semplificare le descrizioni. Un altro avvenimento che fece precipitare gli eventi fu la disputa tra l'Imperatore e i principi. L'Imperatore, infatti, cercò di portare avanti il progetto di farsi eleggere Re dei Romani, fatto che lo avrebbe promosso, da figura elettiva e secondaria nella politica imperiale, a un vero re, creando una propria dinastia e consegnando l'Impero in mano alla famiglia Asburgo, riducendo i poteri della nobiltà tedesca. Con queste premesse, e tenendo conto della radicalizzazione delle appartenenze alle varie confessioni, non c'è da stupirsi se, nel 1618, quando l'Imperatore Mattia nominò re di Boemia Ferdinando II, gli animi si infiammarono. La Boemia, regione a prevalente confessione protestante, si ritrovava come guida un nobile cattolico intransigente. Nel suo nuovo regno, Ferdinando e i suoi collaboratori, portarono avanti una serie di misure provocatorie tra cui l'introduzione della censura per i libri, il rifiuto di usare sussidi ecclesiastici per pagare i ministri protestanti e la proibizione per coloro i quali non fossero cristiani, di accedere alle cariche pubbliche. Inoltre intimarono la cessazione del culto protestante in due città, Broumov e Hroby. La situazione precipitò quando, prima l'Imperatore, poi Ferdinando II, non presero nemmeno in considerazione la Lettera di maestà, stilata nel 1608 da Rodolfo II e che concedeva ai boemi la libertà di culto senza interferenze da parte dell'Impero, e impedirono la riunione dei rappresentanti della Boemia che volevano discutere delle cessioni di territori regi a rappresentanti cattolici. La richiesta dell'Imperatore, a marzo, venne accolta, accordandosi per riunirsi due mesi più tardi. Al contrario, l'interruzione dell'assemblea da parte del cattolico re di Boemia, a maggio, dopo soli due giorni di discussione, esasperò i rappresentanti boemi che si diressero al palazzo di Praga e gettarono dalla finestra i delegati imperiali. Dopodiché i boemi crearono un governo provvisorio.
Questi fatti diedero il via al conflitto. Ma quale ruolo ebbe la Francia durante il periodo di scontri? Per capirlo bisogna partire da una data che conosciamo già, il 1628, anno in cui La Rochelle cadde sotto i colpi dell'esercito regio. Fino ad allora, e quindi per i primi dieci anni di guerra, Luigi XIII non riuscì a volgere lo sguardo al di fuori dei propri confini. La partecipazione francese, fino a quel momento, si limitò ai finanziamenti nei confronti dei propri alleati e la strategia che guidò Richelieu per la decisione delle proprie alleanze fu quella vòlta a indebolire la casa d'Asburgo sia che si trattasse del ramo tedesco, sia che fosse quello spagnolo. Per questo la Francia appoggiò la Danimarca, nelle sue rivendicazioni sul mar Baltico, o la Svezia che fu provvidenziale per il proseguimento della politica di cui sopra. Avendo le mani libere, come si è visto, una volta eliminato il dissidio interno, Richelieu si rivolse verso l'Italia, non intervenendo, di fatto, nel conflitto tedesco, ramo centrale della guerra, ma allargando, ovviamente, il fronte delle ostilità.
I tentativi di Richelieu per rovinare i progetti della casa d'Asburgo si mossero anche attraverso le maglie della diplomazia. Le numerose vittorie conseguite fino al 1629, fecero sì che l'Imperatore Ferdinando II si sentisse tanto forte da emanare l'Editto di Restituzione, con il quale stabiliva che tutti i beni ecclesiastici che fossero finiti in mano a protestanti o laici dal 1552, venissero restituiti alla Chiesa. Questo provvedimento incontrò grosse resistenze da parte dei principi, sia protestanti, sia cattolici, perché in primo luogo era stato emanato senza il consenso della Dieta, inoltre avrebbe creato grossi cambiamenti nei diritti di proprietà definitisi da più di un secolo, dopo la pace di Augusta. Inoltre i principi vennero esasperati dalle concessioni fatte da Ferdinando II al boemo Wallenstein, generale imperiale, e mal sopportavano che un avventuriero straniero usurpasse diritti che erano prerogativa di nobili tedeschi da secoli. In ultimo luogo l'arroganza e la sicurezza spinsero l'Imperatore a chiedere che il figlio ottenesse il titolo di re dei Romani. Questi attriti tra Ferdinando e i principi tedeschi, permisero alla Francia di intavolare trattative vòlte alla costituzione di un'alleanza, che comprendesse anche i cattolici dell'Impero. Le difficoltà nel trovare un accordo, anche a causa dell'ambigua politica francese, che di lì a poco si alleerà con il protestante Gustavo Adolfo di Svezia, restrigeranno il campo a un accordo con la Baviera, che, però, nella figura del duca ed Elettore Massimiliano I, rappresentava la principale esponente della Lega Cattolica tedesca. Père Joseph venne coinvolto in queste trattative. Nel marzo del 1630, Ange de Mortagne, segretario del cappuccino dal 1619, redasse dei progetti di trattato per il nunzio apostolico Bagni che aveva proposto la sua mediazione con la Baviera. Quest'ultimo redasse gli Articuli secretiores observandi intra regem Franciae et Electorem Bavariae, per il trattato stesso. Père Joseph scrisse un lungo dispaccio che chiariva punto per punto gli articoli dell'accordo e una lettera, indirizzata sempre a Bagni, in cui esponeva ciò che il nunzio avrebbe dovuto riferire a Wilhelm Jocher, consigliere segreto di Massimiliano di Baviera. In questi dispacci, i francesi, cercarono di concludere un accordo difensivo con Massimiliano, inoltre dovettero dissipare i suoi dubbi nei confronti dell'intervento svedese: Gustavo Adolfo non avrebbe attaccato la Baviera e i suoi interessi erano rivolti all'indebolimento dell'Imperatore e di Wallenstein; se mai gli svedesi avessero attaccato Massimiliano, la Francia sarebbe accorsa in suo aiuto, purché non fosse la stessa Baviera a scatenare le ostilità. Gli accordi portarono alla firma a Fontainebleau dell'alleanza, che, però, non venne rispettata dalla Francia, la quale non intervenne quando, nel 1631, Gustavo Adolfo attaccò la Baviera, facendo riavvicinare così l'Elettore all'Impero.
Nel giugno del 1630, Ferdinando II riunì a Ratisbona la Dieta. Ferdinando II non convocò mai una Dieta imperiale, ma governò solo promulgando editti lui stesso, o solo dopo essersi consultato con gli Elettori o altri principi a lui solidali. Questo sarebbe stato il corso normale delle cose, sempre secondo Parker, se la sua politica non avesse avuto modo di creare tensioni e divisioni all'interno dell'Impero, cosa che così non fu, come si è visto. A riconferma di ciò, la Dieta convocata nel 1630 non fu imperiale, bensì composta dai soli Elettori.
Molto utili, al fine di capire come si mosse père Joseph alla dieta, sono l'articolo di Fagniez La mission du père Joseph à Ratisbonne en 1630 e il libro di Paolo Galli I comprimari, tre storie diplomatiche. Richelieu, non aspettò la convocazione della Dieta perché si muovesse per dividere le intenzioni tra l'Imperatore e gli Elettori. Nel 1629 Charnacé, Marcheville e Masson avevano lavorato in questo senso, come anche Ceberet, ambasciatore francese residente a Vienna.
L'ambasciatore ufficiale della delegazione francese era Charles Brulart de Léon, un piccolo nobile che aveva fatto fortuna come ambasciatore prima a Venezia, durante la guerra di Gradisca e la congiura di Bedmar (1611-19), poi in Svizzera (1628-30). Sebbene debba essere presa con la dovuta cautela, l'opera di Galli ci può dare un'idea dello stato d'animo di un ambasciatore che, secondo l'Autore, si considerava il principale esponente della delegazione francese, ma che poi scoprirà di essere solamente una facciata, davanti al frate che portava istruzioni segrete affidategli direttamente da Richelieu. Père Joseph aveva una posizione singolare: egli non era né un plenipotenziario, né certamente, un semplice esperto affiancato a Brulart, perché era stato accreditato presso l'Imperatore; il cappuccino poteva parlare a nome del re, ma non aveva l'autorità per impegnarlo. La sua reputazione e il conosciuto rapporto che intercorreva tra lui e il Cardinale, rendevano il cappuccino una persona ambigua. Allo stesso tempo, però, conferivano alle sue parole un'autorità senza pari, rispetto alla posizione subordinata che ufficialmente ricopriva.
Gli appunti personali dei due delegati spiegano il ruolo che ognuno di loro doveva ricoprire durante la Dieta. Già il solo fatto che, secondo Fagniez, i dispacci per Brulart vennero scritti dallo stesso cappuccino, rende l'idea di chi avesse in mano le operazioni. Le indicazioni generali erano l'insieme di argomentazioni che potevano essere sollevate al cospetto del collegio elettorale. I due ambasciatori avrebbero dovuto promettere agli Elettori l'appoggio della Francia nel momento in cui Ferdinando avesse imposto proprie condizioni alla Dieta. Père Joseph aveva dettato per Brulart anche delle informazioni segrete che regolavano il comportamento che l'ambasciatore avrebbe dovuto tenere nei confronti dei singoli elettori.
Ciò che risulta tralasciato dai dispacci dei due delegati, anche in quelli segreti, è la questione sulla successione di Mantova, che era il motivo, agli occhi di tutti, per cui i francesi fossero presenti a Ratisbona. I due infatti non erano autorizzati ad avanzare nuove proposte in merito per non creare un doppione delle negoziazioni che avvenivano in Italia e che avrebbero portato al trattato di Cherasco. Père Joseph aveva anche istruzioni lasciate direttamente da Richelieu, che rimasero segrete per Brulart, che autorizzavano il cappuccino a concludere un'alleanza con Massimiliano di Baviera
Secondo la ricostruzione di Fagniez, Père Joseph si separò da Richelieu a Grenoble il 2 luglio, raggiungendo Brulart a Soleure una settimana dopo. Da lì si mossero verso Costanza dove arrivarono il 18 luglio e da qui scrissero a Wallenstein, generale imperiale, per ottenere un salvacondotto, per rendere più sicuro il loro viaggio fino a Ratisbona. Il generale mandò loro incontro il suo primo ciambellano che li portò fino a Memmingen dove si trovava il quartier generale di Wallenstein. Huxley parla di quell'incontro: nella calda giornata di luglio il condottiero tedesco andò incontro all'ambasceria francese con diciotto cocchi carichi di nobili ungheresi e boemi. Al momento dell'incontro gli emissari che viaggiavano da una carrozza all'altra per decidere le complicate problematiche delle precedenze, infine i saluti, con il cappuccino, scalzo, che osservava la scena in disparte, chinando la testa e alzando la mano destra a benedire quando veniva coinvolto. Quando Wallenstein fece per invitare Brulart a sedere nella propria carrozza, chiese di père Joseph, che sapeva essere in quella legazione e che avrebbe avuto il piacere di conoscere. Père Joseph cercò di rifiutare un invito tanto sontuoso, contrario alle proprie regole, eppure alla fine si fece convincere e salì. Dei due incontri che ci furono a Memmingen tra père Joseph e il generale tedesco nulla rimase nelle corrispondenze a parte l'accenno che fece Wallenstein all'arciduca Leopoldo sulle intenzioni di pace che il cappuccino gli riferì. Quello che su cui tutti gli studi sembrano concordare sono gli argomenti che si sarebbero trattati durante quei colloqui. Wallenstein era un uomo estremamente ambizioso e i successi da lui ottenuti contro le forze protestanti fomentavano la sua mania di grandezza. Père Joseph scoprì a poco a poco che gli interessi di quell'uomo collimavano con i suoi, anche se spinti da motivazioni ben diverse: entrambi volevano la liberazione di Costantinopoli e la sconfitta dei Turchi, ma Wallenstein mirava a costituire un principato, retto da lui in persona, che si estendesse dal Baltico al Bosforo fino alla Siria; Huxley, nel suo tentativo di sovrapporre gli eventi del XX secolo, con il periodo di cui tratta, afferma che il generale tedesco prendeva a pretesto la crociata del cappuccino per realizzare il Drang nach Osten. Il termine tedesco, coniato nel XIX per giustificare l'espansione tedesca verso Oriente, risulta però essere anacronistico. È credibile pensare che le aspirazioni di Wallenstein si inserissero in una cultura di allargamento delle frontiere tedesche verso est, che già dal Medioevo era presente nell'Europa centrale (non a caso la Prussia, futuro stato nazionale tedesco, affonda le sue radici negli spostamenti delle popolazioni germaniche verso est), ma è probabile che le intenzioni di Wallenstein non facessero capo ad un grande progetto di espansione germanica, bensì ad un semplice progetto personale, influenzato da una cultura diffusa da tempo. I due a Memmingen discussero anche della questione di Mantova: Wallenstein, con stupore di père Joseph, non era d'accordo con la politica degli Asburgo in Italia e riteneva incomprensibile entrare in guerra con la Francia per un piccolo ducato. Era favorevole, dunque, a lasciare a Carlo di Gonzaga la sua eredità, tanto più che, come ultimo discendente dei Paleologi di Costantinopoli, quell'uomo avrebbe potuto tornargli utile nella realizzazione dei suoi progetti. Fu a questo punto che i doveri di père Joseph e le sue ambizioni si scontrarono: da una parte egli trovava quest'uomo utilissimo per portare a termine il sogno della sua crociata, dall'altro aveva ricevuto istruzioni affinché Wallenstein fosse destituito, eliminando un ostacolo a Gustavo Adolfo, re di Svezia e alleato della Francia, che si trovava già in territorio tedesco.
In questi giorni, presumibilmente, giunse alle loro orecchie la notizia della caduta di Mantova, del 18 luglio, e la presa di Saluzzo da parte dei francesi, due giorni dopo, ma l'esercito era in difficoltà a causa della peste che imperversava nella pianura. La questione mantovana, da risolvere durante i negoziati, si faceva quindi più complicata e, soprattutto, di primaria importanza rispetto a quando si erano congedati da Richelieu. Le istruzioni lasciate a Brulart dal Cardinale erano di concludere una "pace in Italia", lasciandolo, però, senza alcuna ulteriore informazione più specifica.
Il 25 luglio, père Joseph e Brulart proseguirono il viaggio, congedandosi da Wallenstein, e si recarono a Ulm, da cui si imbarcarono sul Danubio, fermandosi a Donauverth. Il 29 luglio arrivarono a Ratisbona. Père Joseph non era un ambasciatore, ma non era neanche, nelle intenziondi di Richelieu, un semplice osservatore. Egli aveva la possibilità di parlare al nome del re, ma non l'aveva per impegnarsi, essendo ufficialmente subordinato all'ambasciatore. Nonostante questo, il suo legame con il Cardinale, la sua reputazione, il suo ruolo nella direzione degli affari esteri francesi, rendevano le sue parole un'autorità senza pari, rendendolo un membro del governo francese.
Ratisbona, all'arrivo dei due delegati, era una città in fermento. Si possono immaginare aggirarsi tra le sue vie, oltre alle legazioni di molti Paesi, e il seguito dovuto, c'erano principi tedeschi, piccoli e grandi proprietari, molti di questi venuti a chiedere soluzioni alla catastrofica situazione portata dalla guerra; le strade brulicavano, come accadeva in queste occasioni, di mercanti, mendicanti, chierici, e molto altro, dando "l'impressione di una fiera gigantesca". Il 2 agosto i rappresentanti francesi aprirono le danze con un colloquio al cospetto dell'Imperatore, al quale cercarono di spiegare che le voci che gli arrivavano dalla Francia, secondo le quali Richelieu voleva ribaltare l'ordine del potere tedesco: le voci che giravano erano state messe in giro da nemici del Cardinale, i quali volevano screditarlo. In questa occasione père Joseph venne invitato a tornare il giorno dopo. Il 3 agosto, dunque, il cappuccino si trovò di nuovo in presenza dell'Imperatore accompagnato dal suo confessore, il gesuita Wilhelm Lamormaini. Questo era risaputo fosse contrario alla guerra in Italia e père Joseph sollevò subito la questione della successione di Mantova. Gli venne chiesto quali fossero i poteri dati ai due ambasciatori per trattare e il cappuccino rispose con una mezza verità per avere libertà di manovra nei futuri negoziati, rispondendo che Brulart aveva pieni poteri per trattare condizioni ragionevoli, ma che fosse necessaria una approvazione del re. Nelle successive assemblee le discussioni verterono principalmente sul problema dei poteri dell'ambasciatore francese e sulla necessità di dover comunque continuare i negoziati, seppur senza prendere alcun impegno. La situazione si mantenne, però, complicata per i due ambasciatori, dato che, l'Imperatore spingeva per una pace in Italia e venne aggravata dalla presenza del re svedese, che si proclamava guida di una coalizione di cui faceva parte la stessa Francia, creata con lo scopo di contrastare Ferdinando. I due ambasciatori, ovviamente, negarono e affermarono che la presenza di Charnacé presso Gustavo Adolfo, non avallava l'ipotesi della coalizione anti-imperiale, ma che il francese era stato trattenuto dal sovrano svedese a causa dell'aiuto che aveva portato in occasione della pace con la Polonia e della stima che ne era conseguita.
Queste poche righe possono solo rendere l'idea di come i due ambasciatori dovettero muoversi in un terreno, minato. Essi, infatti, non avrebbero dovuto in alcun modo nominare Mantova (cosa a cui evidentemente sarebbero stati costretti, prima o dopo, per le pressioni imperiali), senza far notare che non era la ragione per cui si trovavano a Ratisbona. Dovevano invece concentrarsi, sempre senza dare nell'occhio, nel trovare un accordo con gli Elettori, per allontanare i loro interessi da quelli di Ferdinando.
Non sarebbe produttivo addentrarsi in una descrizione minuziosa degli avvenimenti, giorno per giorno, dei negoziati. L'importante qui è capire quale ruolo ebbe, effettivamente, père Joseph nell'indirizzare e governare i negoziati.
L'attività di père Joseph a Ratisbona, molto facilmente, sfugge a qualsiasi ricostruzione, trattandosi, come di consueto, di colloqui informali, non riportati nemmeno nelle corrispondenze. Le istruzioni, gli appunti personali, di cui si è parlato prima, scritte per sé e per Brulart, contengono informazioni che avrebbero reso la presenza dei delegati francesi inutile. Perché inviare père Joseph per convincere gli Elettori a giungere a delle conclusioni a cui erano già arrivati? Gli Elettori erano ben consapevoli dei loro interessi, erano nobili tedeschi, ancor prima di uomini credenti, e le loro convenienze erano indirizzate verso il rovesciamento dei piani di Ferdinando II. In questo senso, père Joseph non fu né un burattinaio, né fu succube di ciò che avvenne in Germania. Gli Elettori raggiunsero i loro successi solo grazie alla presenza di père Joseph alla Dieta e al conseguente appoggio francese, che solo grazie al cappuccino si manifestava concretamente a loro. Père Joseph, dunque, fece da collante tra i nobili tedeschi, permise loro di prendere coraggio e, non solo di porre richieste all'Imperatore, ma anche di osare oltre. Ferdinando cedette di fronte alle richieste della Dieta (licenziare Wallenstein, dismettere parte dell'esercito, non sciogliere la Lega Cattolica, rinunciando a fondere l'armata di quella in quella imperiale) convinto di poter così imporre le proprie decisioni. Invece gli Elettori non acconsentirono all'elezione del figlio a Re dei Romani, nella convinzione che, una volta ceduto su quel punto, l'Imperatore si sarebbe rimangiato tutto ciò che aveva concesso. Il merito dell'unanimità di queste decisioni venne dall'intervento dei delegati francesi, che assicurarono ai singoli elettori che non sarebbero rimasti soli nell'opposizione all'Imperatore.
Il problema sorse nel momento in cui la delegazione francese cominciò a ricevere le pressioni sulla questione di Mantova. Fu a questo punto che i due ambasciatori cominciarono a ricevere sempre meno informazioni da Richelieu. Le ultime notizie che ricevettero risalivano al 22 settembre, in cui si diceva che il re era stato colpito da febbre e si temeva per la sua vita, tanto che gli vennero amministrati i sacramenti. Richelieu, però, non rispose alle richieste di Brulart perché gli fossero date maggiori istruzioni su come risolvere le insistenti richieste di una risoluzione della questione mantovana. Presi tra due fuochi senza notizie dalla Francia e pressati dall'Imperatore, temendo che il re morisse, anche gli ambasciatori francesi accelerarono le operazioni. Lo fecero per il timore che anche la loro posizione fosse compromessa nel caso in cui, morto Luigi XIII, il nuovo re attuasse una politica filo imperiale e tutti i loro sforzi venissero resi vani. Lo stesso Richelieu temette per la propria vita ora che la regina madre e i suoi, con il re in fin i vita, tornarono a minacciare la sicurezza del Cardinale. Il 3 ottobre i due ambasciatori seppero che il re si era un po' ripreso, ma che stava subendo le pressioni di Maria de' Medici e della regina Anna. La sera stessa, Brulart e père Joseph, decisero di tentare di resistere finché avessero potuto e inviarono un corriere a Parigi con la richiesta di avere l'autorizzazione a procedere per la firma del trattato, minuziosamente descritto, che veniva loro proposto. Le condizioni sembravano accettabili per la Francia, una pace generale, che avrebbe salvato anche Richelieu, accusato di aver coinvolto la Francia nella guerra. Il 12 ottobre fu chiaro che non avrebbero potuto tergiversare oltre. Il 13 ottobre 1630, dopo che père Joseph impose a Brulart di firmare, per salvare Richelieu. I francesi si sarebbero ritirati dall'Italia tranne che da Susa e Pinerolo, mentre Carlo Gonzaga di Nevers avrebbe preso possesso di Casale senza fortificarla. Le truppe francesi e quelle imperiali avrebbero dovuto lasciare contemporaneamente l'Italia, a parte alcune piazzeforti, da abbandonare solo dopo che i patti fossero stati rispettati. Inoltre il l'accordo avrebbe legato le mani alla Francia, mettendola in cattiva luce nei confronti degli alleati con cui si stava trattando, come la Svezia. L'Imperatore obbligò anche père Joseph di ratificare il trattato, nonostante le resistenze del cappuccino, che continuò a sostenere di essere un semplice osservatore. Alla fine anche la firma dell'Eminenza grigia venne posta in calce all'accordo.
Fagniez fa notare come sia emblematico il silenzio di Richelieu nei confronti dei suoi inviati a Ratisbona proprio nel momento in cui loro avevano più bisogno di una sua opinione. Ciò, secondo l'Autore, scarica sul Cardinale tutti i problemi che l'accordo stesso porterà. Richelieu abbandonò in qualche modo i suoi ambasciatori perché doveva occuparsi di mantenere la propria posizione a Corte, oltre al fatto che, ormai, erano in corso due trattative parallele (proprio quello che lui si auspicava non accadesse). Egli doveva fare attenzione a cosa veniva deciso in Italia, fronte che lui riteneva più importante, dal punto di vista diplomatico, per la risoluzione della successione mantovana. Questo apparente disinteresse, inoltre, rende vano ogni tentativo di giustificare il Cardinale nella decisione che prese, una volta che venne a conoscenza dell'accordo. La notizia della pace contenuta nel Trattato di Ratisbona si diffuse velocemente, scatenando la gioia di tutti. Nel momento in cui arrivò al Cardinale il testo, il 19 ottobre, andò su tutte le furie, stracciò il foglio che aveva in mano e disse che gli ambasciatori erano andati oltre le istruzioni ricevute, che il trattato era inservibile e che non sarebbe stato ratificato. Il lavoro fatto per salvargli la vita era stato vano. Questo fu un atto decisamente coraggioso da parte del Cardinale: egli attirava su di sé tutte le ire di una pace mancata. Proprio nel momento in cui il re era più facilmente influenzabile, inoltre, Richelieu avrebbe dovuto spiegare, portando motivazioni molto convincenti, i motivi del suo rifiuto. Maria de' Medici nel frattempo, non perdeva l'occasione per fare pressioni sul figlio affinché il ministro, che aveva ripudiato una pace onorevole e sperperato il denaro francese per la sua politica senza capo né coda, fosse messo da parte da Luigi. Avendo ricevuto una prima risposta interlocutoria, la regina madre riuscì a parlare con il figlio nelle proprie stanze al Palais du Luxembourg, il 10 o l'11 novembre, cercando nuovamente di convincere il figlio a destituire l'Eminenza rossa e dando l'ordine che nessuno entrasse. Richelieu, però, avvertito della cosa e preoccupato sempre più dell'insistenza di Maria nei confronti del re, si recò anch'egli al Luxembourg e riuscì ad entrare nella stanza in cui si teneva il colloquio. È difficile dire cosa accadde nella stanza, i resoconti sono diversi e in modo diverso raccontano gli avvenimenti. Tutti concordano nell'affermare che, nel momento in cui Maria vide entrare Richelieu, spostò l'attenzione delle sue invettive dal re al diretto interessato, aggredendo verbalmente in modo violento il Cardinale. Richelieu, già preoccupato per quello che stava accadendo, venne scosso dall'attacco della regina e si gettò in ginocchio piangendo. La rabbia della regina, però, si rivolse anche verso di lui, nonostante Luigi non avesse fatto alcun gesto a favore di Richelieu. Il re, che aveva seguito la scena con apparente impassibilità, fu disgustato da quello spettacolo. Luigi fece cenno a Richelieu di ritirarsi e quindi, se ne andò anche lui, ritirandosi a Versailles. La regina madre fu visibilmente soddisfatta e così tutti i suoi collaboratori devoti. Tutti erano convinti che ormai la sorte del Cardinale fosse segnata, e forse lo pensava lui stesso se è vero, che, pronto a partire, cominciò a far impacchettare i quadri affinché non fossero saccheggiati dalla plebe. La sera stessa Richelieu venne convocato a Versailles. Il Cardinale, arrivato nelle stanze reali, si mise in ginocchio davanti a Luigi, affermando che lui era il migliore dei giudici, rimettendo nelle sue mani il proprio avvenire. Il re lo descrisse come il servitore più fedele e affezionato, garantendogli che la sua posizione era sicura e che aveva già ordinato l'arresto di Marillac, l'uomo che Maria avrebbe voluto al posto del Cardinale. La "Journée des Dupes", la giornata degli ingannati, si era consumata e tutti rimasero stupiti del suo esito, in primis la regina madre.
Facendo un passo indietro, père Joseph e Brulart ricevettero un dispaccio da Luigi XIII, il quale dava istruzioni per alcune modifiche al trattato firmato dai due. Il cappuccino, per cercare di soddisfare le richieste arrivate da Parigi, chiese l'appoggio dell'Imperatrice, ma Ferdinando fu irremovibile. da Ratisbona era stato richiamato in Francia dopo la firma del trattato. Egli aveva seguito da lontano le vicende del "suo" cardinale, aveva sicuramente temuto per la sua sorte e gioito quando seppe che era stato riconfermato, ma sapeva che la sua scelta di concludere un accordo con l'Imperatore non era stata approvata dall'Eminenza rossa. Dopo aver fallito nel modificare il testo modificato, i due ambasciatori si misero in viaggio verso la Francia. Arrivati quasi al confine, nuove disposizioni li raggiunsero e li divisero: Brulart venne inviato a Vienna, per continuare la revisione del trattato, mentre père Joseph venne richiamato in Francia. Il cappuccino proseguì il viaggio e, al suo arrivo a Parigi, intorno al 19 dicembre, risentito di alcune parole con le quali Richelieu aveva ripreso il suo operato, si recò nel suo convento di rue Saint-Honoré senza voler vedere il Cardinale. Richelieu non se la prese per quest'atto di fierezza, ma gli fece avere i suoi complimenti il giorno successivo e gli fece visita due volte, convincendolo a tornare a Rueil e agli affari di Stato. Il trattato in fin dei conti non aveva creato troppi danni, le trattative con Gustavo Adolfo continuavano e, anzi, l'operato di père Joseph a Ratisbona era stato utilissimo: Ferdinando non era riuscito a far eleggere suo figlio Re dei Romani, l'esercito imperiale era stato indebolito e gli Elettori si voltavano sempre di più verso la Francia.