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Bartolomé de Las Casas

Questa pagina fa parte dello speciale:
La conquista spagnola delle Americhe






Grazie all'autore di questo post, Alessio Rogano

Nel XVI secolo, in parallelo con l’Evangelizzazione Spagnola, si accese il Dibattito sul pessimo trattamento degli Indios, riservato loro dai Conquistadores Spagnoli: protagonista fu il domenicano Fra Bartolomé De Las Casas, il celebre biografo di Colombo. 

Nacque a Siviglia, probabilmente nel 1484, anche se il 1474 è l'anno indicato tradizionalmente. Alcuni resoconti sostengono che Las Casas discendesse da una famiglia di conversi, ovvero di Ebrei costretti a convertirsi al Cristianesimo. Dopo essere stato encomendero, la lettura della Bibbia finì per metterlo in contrapposizione ai conquistadores, in difesa degli Indios. Entrò nel 1515 nell'ordine domenicano, che si era già schierato a favore dei diritti degli indigeni con la figura di Antonio Montesinos. 

Colombo aveva usato la forza per imporre la sua autorità, come ci fu testimoniato dal processo, intentato a lui, ma fu solamente dopo che questa fu adoperata in modo davvero inusitato. Nel 1519 - siamo nei primi momenti di reggenza di Carlo V - un gruppo di domenicani, già da una decina di anni stabiliti alla Santo Domingo, scriveva al cancelliere del re, certo M. de Chièvres: "… le genti che qui s’erano potute contare, cioè un milione e centomila anime, sono tutte distrutte e disfatte, e non ne restano oggi che dodicimila tra bambini e adulti, vecchi e giovani, sani e malati". Lo stesso Bartolomeo del Las Casas annotava nella sua “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”:
Nell’anno 1517 fu scoperta la Nuova Spagna, e fin dai primi giorni ne seguirono grandi scandali e non poche morti fra quegli indiani. Nell’anno 1518 le genti che si dicono cristiane andarono a saccheggiare quelle terre e a seminarvi morte: e sostenevano di recarvisi a popolarle. Da quel 1518 a oggi, anno 1542, tutte le iniquità, tutte le ingiustizie, tutte le violenze e tutte le tirannie perpetrate dagli spagnoli nelle Indie han raggiunto il loro colmo e sono straboccate. I cristiani hanno perduto ogni timore di Dio e del re, resi immemori finanche della loro stessa natura.
Qualche tempo prima, nel 1511, in un sermone rimasto famoso, lo stesso fra Antonio Montesinos a Santo Domingo, alla presenza del Viceré Diego Colombo, figlio del genovese, avvertiva gli spagnoli: 
"Dite con quale diritto e quale giustizia tenete in sì crudele e orribile servitù questi indiani? Con quale autorità avete condotto sì detestabili guerre contro queste genti che vivevano mansuete e pacifiche nelle loro terre, in queste terre dove in numero infinito li avete annientati con morti e scempi di cui mai s’era udito prima? … Tenete certo che a cagione del modo in cui vivete non potrete salvarvi più di quanto lo possano fare i mori e i turchi che ignorano o rifiutano la fede di Gesù Cristo." 
Quindi Bartolomeo iniziò la sua instancabile battaglia a favore degli indios: condannò senza eccezioni il colonialismo e l'espansionismo degli europei, viaggiò nelle terre americane e attraversò molte volte l'oceano per portare in Spagna le sue proteste. Ecco come descrive l’ipocrisia dei colonizzatori, che, sotto il pretesto di convertirli si impadronivano delle persone per ridurle in schiavitù: "Dopo finite le guerre e con esse le uccisioni, divisero tra loro tutti gli uomini, dandone ad uno trenta, ad uno quaranta, ad un altro cento, e duecento, secondo che uno ciascuno era in grazia del tiranno maggiore, che chiamavano 'governatore'. Li davano tutti a ciascun cristiano secondo questo pretesto, che dovesse ammaestrarli nella fede cattolica. La cura ed il pensiero che n’ebbero fu invece di mandare gli uomini alle miniere a scavare oro, ch’è una fatica intollerabile; e mettevano le donne nelle stanze, che sono capanne, per scavare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davano da mangiare né agli uni né alle altre, se non erbe e cose che non avevano sostanza.

Nei suoi testi, Las Casas ci presenta una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell'umanità degli abitanti del nuovo mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, soprattutto di cultura umanista. Celebri sono i dettagliati resoconti che egli diede delle vessazioni e delle atrocità compiute dai colonizzatori "cristiani". Nelle seguente testo appare tutto il campionario di quella prima oppressione coloniale: la guerra, la tortura, la spartizione degli abitanti, il lavoro servile, la grande mortalità: 
“ L’isola Spagnola [Hispaniola, piú nota come Haiti] fu la prima [...] dove entrarono cristiani dando principio alle immense stragi e distruzioni di queste genti, e per prima distrussero e resero deserta, cominciando i cristiani a servirsi delle mogli e dei figli degli Indiani, e a far loro del male, e a mangiare le sostanze dei sudori e delle fatiche loro, non contentandosi di quello che gli Indiani davano loro spontaneamente, secondo quanto ciascuno possedeva, che è sempre poco. Essi infatti non sogliono tenere piú di quello che serve al loro bisogno ordinario e che accumulano con poca fatica, e quello che basta a tre case di dieci persone l’una per un mese, un cristiano se lo mangia e lo distrugge in un giorno. Gli Indiani, dopo subite molte violenze e vessazioni, cominciarono ad accorgersi che quegli uomini non dovevano essere venuti dal Cielo [le popolazioni sottomesse agli aztechi aspettavano un dio che li liberasse; inizialmente ritennero lo spagnolo Cortés l’incarnazione del dio]. Da questo fatto si mossero gli Indiani a cercare maniere di cacciare i cristiani dai loro paesi. Diedero mano alle armi, che però sono assai deboli e poco adatte ad offendere, per cui tutte le loro guerre sono poco piú che i giochi di canne dei fanciulli delle nostre parti. I cristiani, con i loro cavalli, spade e lance, cominciarono a fare crudeli stragi tra quelli. Entravano nelle terre, e non lasciavano né fanciulli né vecchi né donne gravide né di parto, che non le sventrassero e lacerassero come se assaltassero tanti agnelletti nelle loro mandrie. Di solito uccidevano i signori e la nobiltà in questo modo: facevano alcune graticole di legni sopra forchette e ve li legavano sopra, e sotto vi mettevano fuoco lento, onde, a poco a poco, dando strida disperate in quei tormenti, mandavano fuori l’anima. Io vidi una volta che, essendo sopra le graticole quattro o cinque signori ad abbruciarsi (e penso che vi fossero due o tre paia di graticole dove abbruciavano altri), e, perché gridavano fortemente e davano fastidio o impedivano il sonno al capitano, questi comandò che li strangolassero, ma il bargello che li abbruciava, il quale era peggiore che un boia (e so come si chiamava, e conobbi anco i suoi parenti in Siviglia), non volle soffocarli; anzi, con le sue mani pose loro alcuni legni nella bocca perché non si facessero sentire, e attizzò il fuoco finché si arrostirono pian piano com’egli voleva. Io vidi tutte le cose sopradette e altre infinite. Dopo finite le guerre e con esse le uccisioni, divisero fra di loro tutti gli uomini, compresi i giovanetti, le donne e i fanciulli, dandone ad uno trenta, ad un altro quaranta, ad un altro cento e duecento; secondo che ciascuno era in grazia al tiranno maggiore che chiamavano governatore. E cosí, avendoli spartiti, li davano a ciascun cristiano sotto il pretesto che dovesse ammaestrarli nella fede cattolica. E pur essendo tutti comunemente rozzi e crudeli, avarissimi e viziosi, li facevano parrocchiani dell’anima [cioè responsabili dell’educazione cristiana degli indios a loro assegnati]. La cura e il pensiero che ne ebbero fu il mandar gli uomini alle miniere a cavar oro, che è una fatica intollerabile; e mettevan le donne nelle stanze, che sono capanne, per cavare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davan da mangiare agli uni né alle altre, se non erbe e cose che non avevano sostanza. Si seccava il latte nelle tette alle donne di parto, e cosí morirono in poco tempo tutte le creature. È impossibile riferire le some che vi ponevan sopra, facendoli camminare cento o duecento leghe [una lega corrisponde a circa 5 km] [!]. E i medesimi cristiani si facevano portare dagli Indiani in hamacas, che sono come reti, perché sempre si servivano di loro come di bestie da soma. Avevano piaghe nelle spalle e nella schiena, come bestie piene di guidaleschi [ferite tipiche delle bestie da soma]. Il riferire le staffilate, le bastonate, i pugni, le maledizioni e mille altre sorte di tormenti che davano a quelli mentre s’affaticavano, non si potrebbe nemmeno in molto tempo, né con molta carta, e sarebbe cosa da far istupidire gli uomini.“
Il suo tentativo di creare una società coloniale pacifica in Venezuela nel 1520 fallì e la comunità venne massacrata da una rivolta indigena che, secondo alcuni critici, venne incitata dai vicini coloniali. In uno dei suoi ritorni in Spagna, Las Casas fu protagonista del grande dibattito del 1550, voluto da Carlo V, che aveva convocato allo scopo la Giunta di Valladolid. Avversario di Las Casas era il rappresentante del pensiero colonialista, l'umanista Juan Ginés de Sepúlveda, che sosteneva che alcuni uomini sono servi per natura, che la guerra mossa contro di loro è conveniente e giusta a causa della gravità morale dei delitti di idolatria, dei peccati contro natura e dei sacrifici umani da loro commessi e che, infine, l'assoggettamento avrebbe favorito la loro conversione alla fede: riprendeva le tesi di San Tommaso e di Innocenzo IV del XIII secolo. 

Las Casas si dichiarò, invece, a favore di una pacifica conversione e affermò la naturale bontà degli indios ("senza malizia né doppiezza"), dando origine al cosiddetto mito del Buon Selvaggio: gli stessi sacrifici umani non sono tanto negativi se li si considera "indotti dalla ragione naturale", al punto che i nativi avrebbero peccato se non avessero onorato i loro dei. 

Il processo e le discussioni durarono ben cinque giorni. I domenicani non appoggiarono nessuno dei due e il tribunale sembrava propendere per Sepulveda. La disputa si risolse in un nulla di fatto. Tuttavia, sotto la pressione di Las Casas e dell'Ordine Domenicano, qualcosa cominciò a cambiare. Gli scritti di Las Casas non hanno fini letterari ma documentali e di testimonianza. Anche per questo utilizzano un linguaggio lineare ed efficace non consueto nella prosa spagnola dell'epoca, che ha contribuito alla loro fortuna. L'obiettivo è denunciare le atrocità perpetrate contro gli Inca ed evidenziare le qualità positive di queste popolazioni: l'autore condanna la violenza e la cupidigia, ma non è certamente contrario a diffondere il cristianesimo. Anzi, proprio dal cristianesimo Las Casas trae quella spinta universalistica e quell'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini che ne animano l'opera e che lo spingeranno a denunciare anche le violenze dei portoghesi in terra d'Africa. 

Anche se il sistema dell'encomienda non poté venir totalmente smantellato, in quanto sostenuto dalle classi coloniali spagnole che da esso traevano profitto, gli scritti di Las Casas vennero tradotti e pubblicati in tutta Europa, influenzando ad esempio le opinioni del saggista Montaigne, contribuendo alla riflessione della Spagna su di sé e sulla propria storia, e soprattutto - nei secoli successivi - alla presa di coscienza delle propria storia da parte dei popoli sudamericani colonizzati. La fortuna di Las Casas, come scrittore, fu scarsissima in campo cattolico, ma suscitò grandi entusiasmi tra protestanti e illuministi. In effetti i suoi scritti divennero un formidabile strumento di propaganda che i nemici della Spagna colonialista ebbero da quel momento in poi a disposizione. I resoconti di Las Casas rappresentano naturalmente un elemento cardinale della "Leggenda nera" sulle atrocità coloniali spagnole. 

Nel 1542 l'imperatore Carlo V chiese al domenicano di redigere una sintesi dei memoriali che aveva presentato sulla situazione degli indios. L'opera venne pubblicata quello stesso anno, con il titolo “Brevísima relación de la destrucción de las Indias”, ebbe subito grande risonanza ed ebbe una indubbia influenza sulla liberazione per legge degli indios decretata dall'imperatore con le Leyes Nuevas del 1542-43. L'applicazione della nuova legislazione fu tuttavia resa difficile dalla resistenza dei conquistadores, che arrivarono ad uccidere i messi del re che cercavano di farla rispettare. 

In ogni caso, la condizione degli indigeni nei territori dominati dagli spagnoli risultò diversa da quella dei vicini territori portoghesi, dove la schiavitù rimase pienamente in vigore. Las Casas fu autore anche della monumentale “Historia de las Indias”, a cui lavorò per molti anni, fino al 1561, ma che fu pubblicata (parzialmente) solo nel 1875. In questo dibattito s’inserì anche Paolo III, che pose fine alle controversie con la Bolla “Sublimus Deus” del Maggio 1537, dove condannò la considerazione degli Indios come “muta animalia” (bestie mute), che ostacolava e vanificava l’opera di evangelizzazione cristiana. Il pontefice sottolineò che gli indi, anche se infedeli, debbano essere liberi e non debbano essere defraudati dei loro averi; non debbono essere annichiliti con la schiavitù, ma guidati alla vita con la predicazione e gli esempi; sono uomini, ed in quanto tali capaci di raggiungere la fede e la salvezza. 

Le posizioni del papa furono chiare e andarono in linea con quelle di Las Casas, ma ancora c’era la tendenza a considerare nella Corte Spagnola gli Indios, come esseri inferiori. Ma Las Casas l’ebbe vinta alla fine, anche se la figura del religioso spagnolo ha suscitato in seguito vaste polemiche, essendo stato egli responsabile, al fine della salvaguardia degli indios, del progetto di importare in America schiavi neri dall’Africa per alimentare l’economia spagnola. Infatti agli Indios, già sterminati nelle malattie, furono sostituiti dai neri africani e si dette avvio alla famosa e triste Tratta degli Schiavi nel triangolo Africa-America-Europa, che era già esistente nei secoli precedenti, ma raggiunse picchi di crescita tra il 1600 e il 1800. La buona fede di Las Casas provocò altri disastri che la Storia non è riuscita purtroppo ad evitare. Morì nel 1566.