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Andrea Doria

Nato a Oneglia nel 1466, rimase orfano a diciassette anni. A quei tempi, un giovane nobile che voleva migliorare la sua condizione poteva intraprendere due strade: il mestiere delle armi o la carriera ecclesiastica. Andrea scelse di diventare un soldato. Si recò quindi a Roma, città in cui il cugino Nicolò D'Oria comandava la guardia di Papa Innocenzo VIII. Grazie alla parentela ottenne un posto da ufficiale, svolgendo il suo servizio fino alla morte di Innocenzo, avvenuta nel 1492.
Iniziò quindi una vera e propria carriera da soldato di ventura, a servizio dei Montefeltro, degli Aragonesi e di Giovanni della Rovere, signore di Senigallia, nipote di Papa Sisto IV e fratello del futuro Papa Giulio II.

Nel 1503 ottenne il comando delle truppe genovesi che stavano sedando una rivolta in Corsica. Dopo una lunga campagna, riuscì a sconfiggere i rivoltosi ed a catturarne il capo, Ranuccio della Rocca.
A consacrare definitivamente anche a Genova l'immagine del non più giovane condottiero fu l'episodio della Briglia. All'epoca, Genova era sotto il controllo dei francesi, i quali mantenevano in città due guarnigioni, a Castelletto e la Briglia, una fortezza che insisteva sul porto, tenendolo sotto il tiro dei suoi cannoni.

Dopo la battaglia di Ravenna (1512), a Genova si affermò il partito anti francese guidato da Giano Fregoso. I francesi inviarono alla Briglia un vascello da guerra, che bloccò il traffico portuale. D'Oria, nominato comandante del porto e della flotta, guidò personalmente un'azione che si concluse con la presa del vascello.
I francesi rientrarono a Genova, ripristinando la Briglia, mentre Doria e la flotta ripararono a La Spezia. Le fortune francesi declinarono nuovamente poco dopo, con la sconfitta di Novara ad opera degli svizzeri, alleati del papa. Andrea D'Oria ritornò così a Genova, aiutando Ottaviano Fregoso ad insediarsi come nuovo Doge e distruggendo definitivamente la Briglia. Riconfermato a capo della flotta, iniziò a pattugliare il Mar Ligure ed il Tirreno, contro i pirati barbareschi che costituivano una seria minaccia per la navigazione e le coste. Il successo più clamoroso lo colse all'isola di Pianosa, dove, assieme al cugino Filippino Doria, distrusse la flotta del pirata Godoli.

Intanto la situazione italiana era nuovamente mutata. A Marignano (oggi Melegnano) i francesi del nuovo re Francesco I sconfissero gli svizzeri (1515). Ottaviano Fregoso accettò allora di consegnare Genova a Francesco, che lo nominò governatore della città. Il mutamento istituzionale lasciò Andrea Doria al comando della flotta, a combattere contro i pirati.

Nel 1522, alla Bicocca, gli imperiali sconfissero i francesi e, di conseguenza, di lì a poco le truppe spagnole di Prospero Colonna conquistarono Genova e la misero al sacco. Doria e la sua flotta riuscirono, ancora una volta, a prendere il mare prima che arrivassero i nemici. Trovato rifugio nella roccaforte dei Grimaldi a Monaco, l'ammiraglio iniziò a compiere una serie di colpi di mano contro le coste occupate dagli spagnoli, passando da un successo all'altro e riuscendo pure ad evitare che Marsiglia, accerchiata dagli imperiali, si arrendesse. Le vittorie del Doria furono inutili. Nel 1525 Francesco I perse la cruciale battaglia di Pavia, fu catturato e trasportato a Madrid.

Doria, in disaccordo con il ministro Montmorency, che governava la Francia in assenza del re prigioniero, decise di cambiare committente. Stipulò così un contratto con il nuovo papa, Clemente VII, per comandare le navi pontificie. Doria aveva trasferito sul mare il principio delle compagnie di ventura e si era creato una flotta, che metteva a disposizione del miglior offerente. Clemente VII progettava di cacciare spagnoli ed imperiali dall'Italia. La Lega di Cognac, da lui appositamente promossa assieme agli altri stati italiani ed a Francesco I, appena tornato dalla cattività, disponeva di due tra i migliori condottieri del tempo, Doria e Giovanni dalle Bande Nere, ma finì in tragedia. Giovanni dalle Bande Nere morì a causa delle ferite riportate in battaglia e i Lanzichenecchi, comandati da Georg von Frundsberg e da Carlo di Borbone, piombarono sulla Città Eterna.
L'invasione dei Lanzichenecchi ed il conseguente scempio posero termine alle ambizioni del papa, che era riuscito, all'ultimo momento, a rifugiarsi in Castel Sant'Angelo. La Lega di Cognac era stata caratterizzata dalle continue indecisioni del papa e dai dissapori fra gli alleati. Secondo i piani, la flotta della Lega, comandata da Doria, avrebbe dovuto conquistare Genova, ma il proposito svanì, nonostante l'occupazione di Portofino, Savona e La Spezia e malgrado la vittoria riportata contro una ben più consistente flotta spagnola nelle acque della Corsica. La tragedia di Roma colse le navi dell'ammiraglio genovese ancorate ad Ostia e tutti i suoi tentativi per portare soccorso alla città fallirono. I successi navali di Andrea Doria erano stati, dunque, nuovamente frustrati dalle vittorie terrestri degli eserciti nemici.

Alla scadenza del contratto con Clemente VII, Doria ritornò al servizio di Francesco I. Comandante della flotta francese nel Mediterraneo ed appoggiato dalle truppe di Francesco, riuscì finalmente a liberare Genova dagli spagnoli.

Francesco I progettò allora di cacciare gli spagnoli da Napoli, armando una grossa flotta al cui comando non pose Andrea, bensì un nobile francese, François de la Rochefoucault, di cui aveva piena fiducia. Ciò potrebbe essere il sintomo che i rapporti tra l'ammiraglio genovese ed il re di Francia avevano cominciato a deteriorarsi. Dopo la liberazione di Genova, i problemi erano all'ordine del giorno. Innanzitutto, il re rifiutava di restituire Savona, punto su cui i genovesi non intendevano transigere.
L'alleanza con la Francia, in realtà, era ingombrante per Genova. Essa, legandosi ad un alleato tanto potente e, per giunta, così vicino, rischiava di trasformarsi in un protettorato. Carlo V, al contrario, offriva diverse garanzie. Prima di tutto, i centri del suo potere erano sufficientemente distanti dalla Liguria. Si sarebbe così accontentato, differentemente da Francesco I, di una semplice alleanza con Genova, senza pretendere di controllare militarmente parti del suo territorio ed interferire nella sua politica interna.
Carlo, tra l'altro, per tenere insieme e sviluppare il proprio impero, esteso sia in Europa che nelle Americhe, doveva ricorrere a due fattori, di cui i genovesi avevano grande disponibilità: i capitali e le navi. Francesco I era a capo di un regno più piccolo, ma solo continentale e ben più coeso: a lui i capitali e le navi interessavano, eccome, ma, avendone meno bisogno, era disposto a pagare per essi un prezzo politico inferiore.

Alla spedizione contro Napoli, Andrea non prese parte, adducendo la propria età ormai avanzata. Inviò invece Filippino Doria che, il 20 maggio 1528 sconfisse la flotta spagnola. I tempi per il rivolgimento delle alleanze erano, in ogni caso, maturi.

Il cambio di rotta

Il 4 luglio seguente, Andrea ordinò alle navi comandate dal cugino di abbandonare la spedizione napoletana. Durante l'estate l'accordo con Carlo V venne perfezionato. In cambio dell'alleanza, l'imperatore concesse a Genova la restaurazione della Repubblica, indipendente ed integra nel suo territorio. I genovesi avrebbero goduto gli stessi privilegi dei sudditi spagnoli ed avrebbero avuto rifornimenti di grano siciliano. Dal canto suo, Doria avrebbe messo a disposizione di Carlo dodici galere, comandate da lui, al prezzo annuo di sessantamila scudi.
Doria, per evitare problemi da parte della guarnigione francese, lasciò la città con le sue navi, andando a raggiungere la flotta di Filippino alla Spezia. Pochi giorni dopo, il 9 settembre, si ripresentò davanti al porto, bloccandolo e sbarcando un gruppo di uomini armati. La guarnigione francese non intervenne e seguì passivamente gli eventi. Gli armati di Doria, assieme agli alleati che li stavano attendendo, presero facilmente il controllo. Il 28 ottobre successivo la guarnigione francese in città completò il suo ritiro.

Il 12 settembre 1528 Andrea scese a terra e, stupendo non poche persone, rifiutò la signoria della città che gli veniva offerta. A lui non interessavano i fasti del potere - diceva - bensì solo l'indipendenza, la concordia e la prosperità cittadine. Dietro a questo understatment probabilmente si celava una grande accortezza, unita ad una notevole conoscenza della politica genovese. Le principali famiglie avrebbero potuto allearsi contro un Signore, causando non pochi problemi. Doria preferiva stare in disparte, abbastanza lontano dalla politica quotidiana per non farsene assorbire e condizionare. Il tutto, naturalmente, seguitando a tenere in mano i fili del potere. Venne quindi delegata a "XII riformatori" la stesura di una nuova costituzione.
Nel frattempo, le truppe di Andrea e di Sinibaldo Fieschi, iniziarono a prendere il controllo del territorio genovese, a partire dalle città più gelose della propria autonomia. La prima fu, come ovvio, Savona, che fu conquistata il 21 ottobre 1528. I genovesi decisero di porre fine, una volta per tutte, ai tentativi autonomistici della città. Ne distrussero le mura e ne interrarono il porto, liberandosi così anche di un temuto concorrente nei traffici commerciali.

Poco più di un mese dopo, la nuova costituzione era pronta. Con essa la città assunse i caratteri di una Repubblica aristocratica, cambiando anche il nome ufficiale. Non più Comune, ma Repubblica di Genova. Per fare parte del governo, divenne necessario essere iscritti ad un Albergo dei nobili. Gli Alberghi erano da secoli un'istituzione basilare nella vita cittadina. Riunivano i componenti di una famiglia con i propri dipendenti, che assumevano spesso anche il cognome dei principali. Queste istituzioni, fino allora esclusivamente private, ricevettero dalla costituzione del 1528, una rilevanza pubblicistica. Il loro numero fu ridotto a ventotto e, per esserne ammessi, era necessario possedere "sei case aperte" in Genova. Il significato della locuzione non era molto chiaro, ma i componenti degli alberghi vennero tutti ammessi al rango nobiliare.
Alcune famiglie importanti, come i Fieschi, gli Adorno o i Fregoso, non ottennero un Albergo ed i loro componenti furono distribuiti tra gli Alberghi esistenti.

Il Doge veniva nominato per due anni ed era assistito da dodici senatori ed otto procuratori. Insieme, Doge e consiglieri (rinnovabili per un quarto ogni semestre) formavano la Signoria.
Esistevano poi un Consiglio Maggiore ed uno Minore, con varie competenze legislative ed amministrative.
Il centro dello Stato era tuttavia costituito dai cinque Sindacatori, che controllavano l'operato delle altre cariche e decidevano i conflitti tra esse. Andrea Doria venne nominato Priore perpetuo di questo collegio defilato, ma determinante. Andrea, inoltre, venne esentato a vita dal pagamento di imposte e tasse, assieme ai cugini Filippino, Tommaso e Pagano.

Questo principe - di fatto, se non di diritto - ebbe anche una sua reggia. I Doria avevano sempre fatto riferimento alla Chiesa di San Matteo, che era stata la loro cappella gentilizia fin dalla costruzione, iniziata nel 1125. Intorno a San Matteo i Doria avevano eretto le loro dimore e stabilito la propria base di potere in città. Il 12 settembre 1528, proprio dalle scalinate della chiesa Andrea Doria aveva tenuto il discorso al popolo dopo la sua presa di potere e sempre su Piazza San Matteo, la cittadinanza gli aveva donato un palazzo, che lui non volle mai abitare.
Nel 1521 aveva comprato l'area di Fassolo, vicino a Porta San Tommaso. Fu lì che edificò casa sua, che ancora oggi è detta Palazzo del Principe. Principe in quanto Andrea Doria sarà nominato da Carlo V, nel 1531, principe di Melfi e conferito del Toson d'oro, massima onorificenza dell'epoca.

In vista del passaggio alla parte spagnola, per la possibilità di nuovi attacchi da parte della Francia, Andrea Doria patrocinò la costruzione di una nuova cinta muraria, che fu realizzata nel terzo decennio del XVI secolo, su progettazione dell'ingegnere militare Giovanni Maria Olgiati. Questa nuova cinta muraria in realtà ricalcava il percorso delle precedenti mura del XIV secolo, ma sostituiva le vecchie torri a pianta quadrata e le cortine con le nuove cortine dal profilo a scarpa e i bastioni triangolari.

La guerra contro i turchi continuava. In assenza di grandi battaglie, le flotte ottomane e cristiane compivano continue incursioni contro le coste nemiche, saccheggiando i vari centri marittimi. Al servizio di Carlo V, Doria condusse diverse spedizioni. Nel 1532 la flotta ispano genovese da lui condotta mise a ferro e fuoco le coste del Mare Egeo, arrivando fino ai Dardanelli. In seguito spostò il fulcro delle operazioni sul Canale di Corinto, conquistando Corone e Patrasso.

Nel frattempo, nel campo ottomano era sorta una nuova stella, Khayr al-Dīn, detto Barbarossa. Alla guida di una flotta importante, che gli era stata messa a disposizione da Solimano il Magnifico, divenne signore di Algeri e Tunisi, insidiando le coste cristiane del Mediterraneo occidentale. Nel 1535, Carlo V condusse così una grossa operazione contro Tunisi, al fine di liberarsi una volta per tutte del Barbarossa. Con la fattiva partecipazione di Doria e della sua flotta, la città venne conquistata, ma il pirata evitò la cattura e, l'anno dopo, aveva già recuperato le forze sufficienti per devastare le Baleari.

L'Impero manteneva un continuo stato di guerra con gli ottomani, ma anche i suoi rapporti con le altre potenze cristiane, prima fra tutte la Francia, non potevano certo definirsi idilliaci. Nel 1536 morì Francesco Sforza e Francesco I avanzò le sue pretese su Milano, facendo riaccendere il conflitto con Carlo, che aveva incorporato i territori sforzeschi (che già controllava di fatto) ai suoi domini. La guerra andò avanti a fasi alterne, con una certa predominanza marittima della flotta imperiale (guidata, naturalmente, dall'ammiraglio genovese) e successi terrestri francesi. Il predominio di Carlo sull'Italia però venne rafforzato, grazie anche all'alleanza con il principe genovese, che riuscì a portare nell'orbita spagnola anche i Medici di Firenze , favorendo l'ascesa al potere di Cosimo I.

Nel 1538, una flotta cristiana (papato, Venezia, imperiali) era finalmente riuscita a bloccare il Barbarossa nel Canale di Corinto, a Preveza. La battaglia avrebbe probabilmente avuto un esito diverso, risolvendo definitivamente i problemi portati da Khayr al-Dīn Barbarossa, se Doria, ritirandosi dal combattimento, non avesse lasciato fuggire il corsaro ottomano.
I veneziani (che, cordialmente ricambiati, detestavano Doria) e il papa attaccarono pesantemente la condotta del genovese, che avrebbe compromesso una vittoria decisiva e già colta. In realtà, a Genova e alla Spagna le sorti dell'Oriente interessavano solo fino ad un certo punto, protese com'erano verso l'Atlantico. Plausibile che non avessero molte intenzioni di rischiare navi, uomini e denari nel Levante solo per togliere Venezia dai guai.

Andrea Doria diresse ancora nel 1540 le manovre destinate a frenare le continue scorrerie dei corsari, e nella primavera di quell'anno il nipote Giannettino catturava Dragut, luogotenente del Barbarossa.
Dragut veniva messo come schiavo al remo delle galee; la sua carriera sembrava finita, ma sarebbe stato liberato pochi anni dopo dietro un ricco riscatto pagato dal Barbarossa, aggiunto probabilmente alla concessione ai Lomellini, famiglia genovese legata a Doria, dell'isola di Tabarka per la pesca del corallo. Ben diverso era il discorso nel Mediterraneo occidentale, dove i pirati ottomani minacciavano costantemente le coste e le isole spagnole.

Nel 1541 Carlo V decise così di conquistare Algeri, la principale roccaforte del Barbarossa. Doria disapprovava la spedizione, temendo le condizioni del mare (era autunno inoltrato), ma dovette arrendersi davanti alla decisione imperiale. Le operazioni di sbarco erano in corso quando, il 25 ottobre, una tempesta danneggiò pesantemente la flotta. Le truppe spagnole respinsero il contrattacco di Khayr al-Dīn, ma questi riuscì ad asserragliarsi in città e la situazione andò in stallo. Andrea Doria e il nipote Giannettino riuscirono a far reimbarcare le truppe, evitando che la spedizione finisse in una disfatta.
Nei cinque anni successivi, Doria continuò a servire - con una notevole energia, tanto più che aveva ormai superato i settant'anni - l'imperatore nelle diverse guerre, riuscendo quasi sempre a condurre la flotta alla vittoria.

La congiura Fieschi

Dopo la Pace di Crépy tra Francesco e Carlo nel 1544, Andrea Doria sperava di finire i suoi giorni nella tranquillità. Al contrario, il grande potere e l'enorme ricchezza, insieme all'arroganza del nipote ed erede Giannettino, gli procurò molti nemici. All'inizio del 1547, Doria dovette così affrontare la più grave minaccia al potere sulla città che teneva ormai da un ventennio, la congiura dei Fieschi.
I Fieschi costituivano, assieme ai Doria, ai Grimaldi e agli Spinola, uno dei quattro gruppi famigliari genovesi di più antica aristocrazia. Il complotto ebbe al centro un giovane membro della consorteria, Giovanni Luigi Fieschi. Molto si è discusso, circa le cause che spinsero Gian Luigi Fieschi ad organizzare il tentato colpo di stato. Con ogni probabilità, il "Fiesco" fu appoggiato da molti ambienti della politica italiana ed europea di allora, interessati alle conseguenze che una manovra del genere poteva produrre. I mandanti più o meno occulti del giovane nobile si sono spesso indicati nella corte francese e in quella del papa, Paolo III Farnese, interessate entrambe ad eliminare uno dei membri più importanti del partito imperiale in Italia.

La congiura scattò il 3 gennaio 1547. Gli uomini di Gian Luigi Fieschi riuscirono a prendere possesso delle porte cittadine, mentre al porto il loro capo cercava di muovere le galee che aveva ottenuto da Pier Luigi Farnese, figlio del papa e duca di Parma e Piacenza. Giannettino Doria, uscito da palazzo di Fassolo, fu ucciso. Il buon momento per la congiura, in ogni modo, svanì quasi subito. Gian Luigi Fieschi durante le manovre, cadde in mare e, appesantito dall'armatura, annegò. Soprattutto, la rivolta contro i Doria che i congiurati speravano di suscitare non avvenne.
Il giorno seguente, Genova era nel pieno controllo del Principe. La sua vendetta assunse i caratteri cupi del romanzo gotico. Il corpo di Gian Luigi Fieschi fu recuperato dal mare e lasciato a decomporsi sul molo per due mesi. I congiurati vennero messi a morte dopo un processo sommario. I beni dei Fieschi vennero espropriati, le loro roccheforti espugnate una ad una. Ebbe così fine il ruolo nella vita politica genovese di questa famiglia, l'unica delle quattro grandi a non avere grossi interessi nei commerci marittimi e nella finanza e che basava il suo potere sui grossi feudi posseduti nell'entroterra.

Nel settembre di quello stesso 1547, a Piacenza, una parte della nobiltà locale mise in atto una congiura che si concluse con la morte di Pier Luigi Farnese. Oltre ai malumori degli aristocratici che vi presero parte, influì sul complotto l'appoggio del partito imperiale. Data l'importanza rivestita dal Doria tra i sostenitori italiani di Carlo V e considerato l'appoggio fornito dal Duca allo sfortunato tentativo insurrezionale di Gian Luigi Fieschi, molti hanno visto nella tragica fine di Pier Luigi una sorta di vendetta del Doria.

Il problema, per Doria, non era solo quello di salvaguardare il suo potere e la sua stessa vita, messi a repentaglio dalle congiure. Era anche quello di respingere i sempre più pressanti inviti a porsi sotto la diretta tutela imperiale che gli provenivano dalla Corte di Carlo V, attraverso l'ambasciatore Gomez Suarez de Figueroa.
Le proposte imperiali prevedevano lo stanziamento di una guarnigione spagnola al Castelletto, fatto che avrebbe significato la fine dell'indipendenza genovese, anche in politica interna. Nei complicati rapporti con l'Imperatore, le continue congiure facevano ovviamente pendere la bilancia a sfavore di Doria, che decise di varare una nuova riforma costituzionale, col proposito di stabilizzare la Repubblica e il suo potere.
Questa riforma è nota con il nome di Garibetto, espressione di origine dialettale per significare che le modifiche istituzionali erano state apportate con "garbo". La "garbata" riforma, in realtà, aveva il proposito di ridurre il ruolo politico dei "nuovi nobili", riuniti nel Portico di San Pietro, ritenuti favorevoli alle congiure, a favore dei "vecchi nobili", riuniti nel Portico di San Luca. Il Consiglio Maggiore e quello Minore vennero resi elettivi e il diritto di voto era esercitato dalle alte magistrature esecutive, come i Protettori, i Sindacatori, gli Straordinari.

Ultimi anni

I pirati barbareschi continuavano a costituire un problema e, nel 1550 l'ormai ottantaquattrenne ammiraglio compì una spedizione nella Sirte, azione bellica che venne ripetuta anche l'anno successivo.

La guerra contro la Francia ricominciò. Nel 1552 e nel 1553 Doria condusse spedizioni contro la flotta nemica. I francesi, assieme agli ottomani, accesero la rivolta antigenovese in Corsica, che trovò un capo in Sampiero da Bastelica. Per due anni, fino al 1555 l'ammiraglio fu impegnato a combattere sull'isola, tornando poi definitivamente a Genova. La rivolta, di fatto posta sotto controllo, sarebbe stata definitivamente domata soltanto dopo l'uccisione di Sampiero da Bastelica, nel 1567.
Dopo il ritorno a Genova, Doria decise di assegnare il comando delle navi a Gianandrea Doria, figlio del defunto Giannettino.

Nel 1556, Carlo V abdicò, lasciando al figlio Filippo II (cui aveva già assegnato il Ducato di Milano ed il Regno di Napoli nel 1554 e i Paesi Bassi nel 1555) la Spagna, la Sicilia e le colonie americane e candidando all'Impero il fratello minore Ferdinando, già re di Boemia ed Ungheria. Si ritirò quindi nel convento di San Jeronimo a Yuste, in Estremadura, dove morì due anni dopo.

Nel 1560 venne organizzata una nuova spedizione contro gli ottomani. Doria si occupò unicamente dell'organizzazione, facendo partire Gianandrea. La spedizione si concluse disastrosamente a Djerba, il 14 maggio, quando la flotta spagnola e genovese, mal guidata dal duca di Medinaceli e reduce da una tempesta, venne distrutta da quella ottomana.

Andrea Doria morì il 25 novembre 1560. Non lasciò figli e la sua eredità venne raccolta da Gianandrea, figlio del nipote prediletto Giannettino (ucciso dal Fieschi nel 1547). Gianandrea, quando Andrea Doria stava morendo, era reduce dalla disfatta di Djerba: l'ammiraglio genovese poté spegnersi rasserenato almeno dal fatto che il suo erede era salvo. Leggenda vuole che abbia redatto il suo testamento in dialetto genovese.