Con la formazione dei comuni e delle signorie, si imposero gli interessi locali in un'Italia divisa in Stati, spesso in lotta fra di loro. In quegli stessi secoli la grandezza passata era però ancora viva nei poeti e nei letterati, che cantarono lodi all'Italia e si rammaricarono della sua situazione. Il sentimento di comune appartenenza nazionale presso gli intellettuali del tempo non venne meno, sopraffatto dagli interessi locali, anzi, è proprio in questo periodo in cui iniziò a plasmarsi una lingua nazionale italiana, primo ideale elemento di una coscienza nazionale. Anche grazie a tali intellettuali, come Dante, Petrarca, Boccaccio ed altri, i quali ebbero scambi culturali senza tener conto dei confini regionali e locali, la lingua italiana dotta si sviluppò rapidamente, riuscendo a mantenersi e a evolversi nei secoli successivi anche nelle più difficili temperie politiche pur rimanendo patrimonio di una classe colta elitaria.
Già in Machiavelli e Guicciardini si dibatteva nel XVI secolo, il problema della perdita dell'indipendenza politica dell'Italia, convertitasi prima in un campo di battaglia fra Francia e Spagna e poi caduta sotto la dominazione di quest'ultima. Pur con programmi diversi, il primo fautore di uno stato accentrato, l'altro di uno federale, concordavano che tutto era avvenuto a causa dell'individualismo e della mancanza di senso dello stato tipica delle varie popolazioni italiane.
Tuttavia non fu che con l'arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola che si cominciò a diffondere presso strati sempre più ampi di popolazione un sentimento nazionale italiano, fino ad allora percepito da una ristretta cerchia di intellettuali, aristocratici e borghesi illuminati. Il primo accenno che dava testimonianza di una iniziale presa di coscienza popolare si può rintracciare nel Proclama di Rimini, anche se rimasto del tutto inascoltato, in cui Gioacchino Murat, il 30 marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un interessato appello a tutti gli italiani affinché si unissero per salvare il regno posto sotto la sua sovranità, unico garante della loro indipendenza nazionale contro un occupante straniero.
Le idee liberali, le speranze suscitate dall'illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono portate in Italia da Napoleone sulla punta delle baionette dell'Armée d'Italie. Rovesciati gli stati preesistenti, i francesi, deludendo le speranze dei patrioti "giacobini" italiani, si erano stabilmente insediati nella Pianura Padana, creando repubbliche su modello francese (Repubblica Cispadana), rivoluzionando la vita del tempo, portando sì idee nuove, ma facendone anche ricadere il costo sulla economia locale. Era nato così un crogiolo di aspettative e di ideali, alcuni incompatibili tra loro: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti, repubblicani, socialisti o anticlericali, liberali, i monarchici filo Savoia o papalini, laici e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia tendente a raggiungere l'unità della Pianura Padana, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di migliorare la situazione socio-economica approfittando delle opportunità offerte dalla rivoluzione tecnico-industriale, superando al contempo la frammentazione della penisola laddove sussistevano stati in parte liberali, che spinsero i vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un'idea di patria più ampia e ad auspicare la nascita di uno stato nazionale analogamente a quanto avvenuto in altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.
Le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.
Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; vi furono cattolici come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini che auspicavano una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del Papa o della stessa dinastia sabauda.
Dopo il Congresso di Vienna, l'influenza francese nella vita politica italiana lasciò i suoi segni attraverso la circolazione delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono infatti salotti borghesi che, sotto il pretesto letterario, crearono veri e propri club di tipo anglosassone, che si prestarono a coprire società segrete; in tale quadro gli esuli italiani, come Antonio Panizzi, s'impegnavano a stabilire contatti con le potenze straniere interessate a risolvere il problema italiano. In tale panorama patriottico rivoluzionario, una delle prime associazioni segrete fu quella dei Carbonari.
A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si impose come figura di primo piano Giuseppe Mazzini. Nato a Genova nel 1805, divenne membro della Carboneria nel 1830. La propria attività di ideologo e organizzatore lo costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno stato unitario, da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. La condivisione del programma mazziniano portò Giuseppe Garibaldi, nato a Nizza nel 1807, a partecipare ai moti rivoluzionari in Piemonte del 1834, per il fallimento dei quali fu condannato a morte dal governo Savoiardo e costretto a fuggire in Sud America, dove partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed Uruguay.
Le rivolte fallirono per la mancanza di coordinamento tra i congiurati e per l'assenza e indifferenza delle masse ai moti.
Gli anni (1847-1848) vedono lo sviluppo di vari movimenti rivoluzionari e di una prima guerra anti austriaca, scoppiata in occasione della rivolta delle Cinque giornate di Milano (1848). Tale guerra, condotta e persa da Carlo Alberto, si concluse con un sostanziale ritorno allo statu quo ante.
Con il fallimento del programma federalista neoguelfo riprese vigore quello repubblicano mazziniano con una serie d'insurrezioni tutte fallite. Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana ed europea fu l'episodio dei martiri di Belfiore (1852), e la disastrosa spedizione (1857) - condotta all'insegna del credo mazziniano per il quale ciò che contava era più che il successo il "dare l'esempio" - conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei suoi compagni massacrati dai contadini a Sapri. Fortemente impressionò la borghesia italiana anche la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta con metodo mazziniano, fidando cioè in una spontanea partecipazione popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito austriaco, fallì miseramente nel sangue. Oltre che l'impreparazione e la superficiale organizzazione dei rivoltosi, operai d'ispirazione politica socialista, furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico con Marx, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire le armi promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere della rivolta. Un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli andarono così consapevolmente incontro al disastro in nome dei loro ideali patriottici e socialisti.
La seconda fase, maturata nel biennio 1859-1860, fu quella decisiva per il processo d'unificazione italiano. Con l'alleanza con la Francia di Napoleone III - che negli accordi di Plombieres non prevedeva la completa unità italiana - il Piemonte di Cavour e Vittorio Emanuele II riuscì, anche per la circostanza imprevista delle annessioni di Toscana, Emilia e Romagna, che si erano nel frattempo liberate, a raggiungere l'unità che sarà infine completata dalla Spedizione dei Mille garibaldina. Quest'ultima, formata da poco più di mille volontari provenienti in massima parte dalle regioni settentrionali d'Italia e appartententi sia ai ceti medi che a quelli artigiani e operai, fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale, di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte loro da Garibaldi. La collaborazione delle popolazioni autoctone permise a Garibaldi di arruolare nel proprio corpo di spedizione molti siciliani e, successivamente, anche altri volontari meridionali, e di conquistare in soli cinque mesi sia l'isola che l'intero mezzogiorno italiano. Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e dell'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda a seguito della battaglia di Castelfidardo, Garibaldi decise di favorire l'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro stato unificato italiano che già si profilava all'epoca sotto l'egida di Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre 1860.
La dichiarazione del Regno d'Italia si ebbe nel 17 marzo 1861. Il nuovo regno manterrà lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà ininterrottamente in vigore sino al 1946.
Molti e gravi furono i problemi che il nuovo stato unitario dovette affrontare e tra questi il più rilevante fu quello del cosiddetto "brigantaggio meridionale". Sebbene la storiografia risorgimentale avesse ripreso l'iniziale definizione di brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno d'Italia per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà della avvenuta unità, una più attenta storiografia ha rivelato come in effetti si trattasse di una vera e propria guerra civile (1861-1865) nata nel Sud Italia in seguito all'invasione dell'esercito piemontese, dopo la spedizione garibaldina e l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d'Italia. Che non si trattasse di un fenomeno di semplice criminalità è dimostrato dal fatto che si ritenne necessario l'intervento dell'esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge Pica 1863) che applicavano la legge marziale nei territori del Mezzogiorno italiano.
Sebbene alla proclamazione del Regno d'Italia fosse stata indicata Roma come capitale morale del nuovo stato, la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio. Alcune terre papali (Marche ed Umbria) erano state già annesse durante la discesa dell'esercito piemontese in "soccorso" di Garibaldi, che stava realizzando la conquista del Meridione, ma lo Stato della Chiesa rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi che continueranno a difenderlo dai due tentativi falliti di Garibaldi (giornata dell'Aspromonte e battaglia di Mentana), con la connivenza del governo italiano di Urbano Rattazzi. Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella guerra franco-prussiana, le truppe italiane con Bersaglieri e Carabinieri in testa, il 20 settembre 1870 entrarono dalla breccia di Porta Pia nella capitale. Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la capitale d'Italia, già trasferita - in ottemperanza alla Convenzione di settembre (1864) - da Torino a Firenze, divenne definitivamente Roma.
La Chiesa romana di Papa Pio IX, che si considerava prigioniero del nuovo stato italiano, reagì scomunicando Vittorio Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno (non expedit), e poi esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia d'Italia.
Il Trentino-Alto Adige, Trieste, Gorizia, l'Istria, la città di Zara (costituita come exclave italiana sulla costa dalmata), l'isola di Lagosta e l'arcipelago di Pelagosa entreranno a far parte del Regno d'Italia con la vittoria nella Prima guerra mondiale (1915-1918), dagli irredentisti italiani sentita come la Quarta guerra d'indipendenza. La città quarnerina di Fiume, dopo molte vicende (vedi Reggenza Italiana del Carnaro), fu unita all'Italia nel 1924.
Un evento popolare?
Nella seconda guerra d'indipendenza (1859) i soldati dell'esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani... non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia. Lo stesso Cavour si scandalizzava che i volontari arruolati a Torino provenienti dal Regno delle due Sicilie fossero appena 20.
Il popolo fu il grande assente del Risorgimento. Mentre le elites fanno la storia, dibattendo progetti su cui concordano solo per l'unità e l'indipendenza politica, ma per il resto dividendosi tra regime monarchico o repubblicano, stato unitario o federativo, metodi diplomatici o rivoluzionari, milioni di contadini rimangono nella non storia. Anzi entreranno nella storia proprio battendosi contro l'unità ormai raggiunta: è il fenomeno del cosiddetto brigantaggio meridionale che può considerarsi pressoché l'unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento.
Già all'indomani dell'unità la classe dirigente presenta ciò che era accaduto come il risultato di una spinta nazionale di popolo e questo si vuole che sia insegnato nelle scuole del Regno: cosicché varie generazioni di italiani hanno imparato il Risorgimento come avrebbe dovuto essere invece che com'è stato. In realtà non si tratta semplicemente di una mistificazione di stato ma del tentativo, sentito come essenziale, di costruire a posteriori una base storica comune a un popolo sino allora assente. Gli intellettuali cercano ora un collegamento con le classi subalterne tentando di persuaderle che l'unità italiana è stata il frutto della volontà del popolo guidato dalle "elites" risorgimentali e creando il mito di una coscienza nazionale italiana esistita nei secoli passati e ora finalmente realizzatasi.
Il popolo assente dalla storia che si faceva era invece ben presente nella storia che si scriveva. Si può dire che il Risorgimento sia nato in tipografia. Giornali quotidiani, manifesti, volantini, non fanno che appellarsi al popolo. Non solo scrittori ma l'avvocato, lo studente, il professore chiamano il popolo ad attivarsi e a condividere gli ideali nazionali. Ma il popolo, nelle aree più depresse della penisola, ove il sistema scolastico non era sviluppato, nella maggioranza non sa leggere. E quando trova incollati su i muri i proclami e gli appelli ha bisogno della mediazione di intellettuali, il farmacista, il prete che gli tradurrà il messaggio a suo modo.
Non si tratta poi semplicemente di ignoranza e analfabetismo che fanno sì che la classe dirigente alla fine parli a se stessa, ma anche il fatto che la circolazione delle idee è ancora difficile nell'Italia divisa dell'Ottocento priva quasi di strutture di comunicazione e dove le polizie sono state addestrate a impedire che tra le masse e gli intellettuali si realizzi il contagio politico.