Era decisamente diverso il Sud Africa dei primi anni del secolo quando a Mvezo, un piccolo villaggio sulle rive del fiume Mbashe nel Transkei, nacque Rolihlahla, "porta guai" nel linguaggio Xhosa, Nelson Mandela, per l'anagrafe bianca.
Era il 18 luglio 1918. Si erano appena spenti gli echi della Prima Guerra Mondiale. A Versailles, alla conferenza di pace, era stata invitata anche una delegazione dell'Anc, African National Congress, per dare voce alle lamentele della popolazione nera del Sud Africa. Ma Mvezo era lontano anni luce dai grandi eventi che facevano la storia del mondo. Situato a 1200 chilometri a est di Città del Capo, 800 chilometri a sud di Johannesburg, era uno dei centri della popolazione Thembu, parte della nazione Xhosa. Il padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, era il capo del villaggio, per eredità. La conferma del ruolo veniva dal Re della tribù Thembu, ma necessitava della ratifica del governo.
Quando Nelson era ancora un bambino, il papà perse il titolo di capo di Mvezo. Alla convocazione del magistrato locale per una questione riguardante un bue, egli aveva risposto con questo messaggio: "Non verrò, mi sto preparando a lottare", facendo emergere così quella testardaggine e quel coraggio che sarebbero stati tipici anche del figlio Nelson. Questo atto di ribellione, accompagnato dalla ferma convinzione che sulle questioni tribali prevaleva il "diritto thembu" a quello inglese, portò alla sua deposizione. In poco tempo perse il suo titolo e gran parte delle sue terre. Fu così che la madre di Nelson decise di trasferirsi con il figlio a Qunu, a nord di Mvezo, dove c'erano amici e parenti che avrebbero potuto dare una mano alla famiglia Mandela e dove il piccolo Nelson passò alcuni tra i più bei anni della sua infanzia, preso in consegna dalla famiglia reale. Ma fu a Qunu che Nelson, quando aveva solo 9 anni, perse il papà, morto per una grave malattia ai polmoni. Il piccolo crebbe con due punti di riferimento ben precisi: il capo tribù e la Chiesa.
Al futuro leader della lotta all'apartheid le due cose sembravano perfettamente compatibili. C'era in lui una forte ammirazione per il lavoro missionario fatto dai prelati in Africa, mentre lo stretto contatto che ebbe con la leadership del popolo Thembu lo spinse ad interessarsi alla storia del popolo africano. Ma l'impostazione degli studi era tipicamente britannica e anche Nelson, come tutti i sudafricani, si formò sulla storia della Gran Bretagna e sulla letteratura inglese. La presa di coscienza della situazione di inferiorità del popolo nero sarebbe stato un processo lento e sviluppatosi negli anni.
L'età di sedici anni segnò due tappe fondamentali della vita di Nelson Mandela. Come voleva la tradizione Thembu, fu circonciso. Dopo la dolorosa cerimonia, venne deciso il suo futuro. Mentre tutti i suoi coetanei erano destinati al lavoro nelle miniere d'oro lungo il Reef, per lui era prescritto un futuro da consigliere del re. Venne così mandato a istruirsi al Clarkebury Boarding Institute nel distretto di Engcobo. Il Clarkebury era allora il più importante istituto per la formazione degli Africani nel Thembuland. Fu il primo contatto di Nelson con il mondo esterno e con i bianchi. L'inserimento non fu difficile. La scuola imponeva una certa disciplina, quasi militare. Ma Mandela si seppe adattare bene a quelle regole e si distinse sia nello studio che nello sport.
Nel 1937, all'età di 19 anni, Nelson si iscrisse a Healdtown, al Wesleyan College di Fort Beaufort, 300 chilometri a sud ovest di Umtata. Rinomatissimo istituto, anche qui le regole erano ferree ma Mandela non ebbe grossi problemi ad adattarvisi. Nell'ultimo anno a Healdtown il grande poeta Xhosa Krune Mqhayi visitò il college. Mqhayi era un imbongi, una sorta di cantastorie. Fece una grande sensazione tra gli studenti, bianchi e negri che fossero, quando dalla porta dell'aula magna dove di solito compariva l'arcigno Dr. Wellington, rettore a Healdtown, spuntò un nero, vestito di un kaross (tipico vestito Xhosa) di pelle di leopardo e una lancia in mano. Era come se l'universo si fosse capovolto. Un nero entrava dalla stanza del rettore e poi saliva sul palco dell'aula magna a tenere una conferenza! L'impatto che questo evento ebbe su Mandela e sugli altri studenti neri fu enorme. Ma anche ciò che disse Mqhayi fu importante: "...vi sto parlando della brutale sfida tra ciò che è indigeno e buono e ciò che è straniero e cattivo. Non possiamo permettere che questi stranieri che non si preoccupano della nostra cultura si impadroniscano della nostra nazione. Predico che un giorno le forze della società africana vinceranno l'intruso. Per troppo tempo abbiamo ceduto di fronte ai falsi beni dell'uomo bianco".
Uscì dall'aula con una gran confusione in testa. Come fu possibile che quel poeta nero avesse potuto dire certe cose davanti a un impassibile Mr. Wellington? Ma non era stato troppo nazionalista Mqhayi, troppo filo Xhosa e poco incline alla creazione di una società multirazziale? Un altra scuola intanto aspettava Nelson. Era l'Università di Fort Hare ad Alice, poco lontano da Healdtown, il più importante ateneo per neri in Sud Africa.
Se c'è una cosa che Nelson non ha mai accettato è quella di farsi incatenare dalle tradizioni, dalle consuetudini, dallo stato di fatto. Se Mandela riteneva una cosa ingiusta faceva di tutto per cambiarla, non la subiva passivamente. Fu questo spirito ribelle a spingerlo a lottare contro il sistema dell'apartheid. Ma prima ancora di prendere coscienza della situazione dei neri e di iniziare la lotta contro l'uomo bianco, Nelson attaccò le tradizioni del suo popolo. Successe quando il re Thembu scelse, come voleva appunto la tradizione, le future mogli per Mandela e per il suo amico d'infanzia, Justice. I due ragazzi ritennero la cosa inaccettabile e decisero di fuggire. Andarono a Johannesburg, la città della luce, dell'elettricità, dei grattaceli, della ricchezza, delle grandi occasioni. Per attraversare le varie regioni del Sud Africa i neri dovevano possedere un pass. Loro non ce l'avevano ma riuscirono in modo avventuroso ad aggirare l'ostacolo.
Ora erano soli in una grande metropoli. Nelson non aveva mai visto in vita sua così tante automobili nello stesso momento. Spaesato, cominciò a lavorare presso una miniera d'oro a Crown Mines.
Il suo e quello di Justice erano lavori d'ufficio, ma potevano comunque vedere i negri quasi schiavizzati lavorare in condizioni pietose nella miniera. In seguito Nelson riprese gli studi e per poterseli pagare cominciò a lavorare come praticante in qualche studio legale. L'ambiente di lavoro e la città di Johannesburg furono per Nelson un mix esplosivo che diede vita al freedom fighter, il combattente che avrebbe vinto il potere bianco. Non ci fu un momento particolare in cui Nelson decise di fare politica. Ci capitò quasi per caso, mentre prendeva coscienza che la vita dei neri era in mano ai bianchi. Decisivo comunque fu l'incontro con Walter Sisulu, esponente di spicco della Anc, che poi finì con l'ospitarlo per mesi nella propria casa. Fu così che a Pasqua del 1944 Mandela e altri praticanti, quasi tutti provenienti dall'Università di Fort Hare, decisero di fondare la Lega giovanile della Anc (Youth League). Tra i nomi di spicco figuravano Anton Lembede e Oliver Tambo.
Il 1946 fu l'anno del grande sciopero nelle miniere. Lungo il fiume Reef i neri lavoravano in condizioni difficili percependo un salario da fame di soli due scellini al giorno. Decisero quindi di scioperare. Erano in 70.000, chiedevano dieci scellini al giorno e una casa. La risposta del governo fu dura. I leaders della protesta furono arrestati (J.B. Marks, Dan Tloome, Gaur Radebe), gli uffici del Amvu (African Mine Workers' Union), il sindacato, saccheggiati. La polizia intervenne con il pugno di ferro durante una dimostrazione e uccise dodici manifestanti. Lo sciopero durò una settimana, ma questa partita la vinse ancora il governo. Sempre nel 1946 il governo di Smuts emanò l'Asiatic Land Tenure Act, altrimenti conosciuto come Ghetto Act, che circoscrisse l'area entro la quale i cittadini di origine indiana potevano risiedere e lavorare.
La protesta della comunità indiana fu massiccia. Per due anni vennero occupate terre dei bianchi, ci furono picchetti, manifestazioni, disobbedienza civile. Più di 2000 volontari andarono in galera. La Anc, che diede il suo appoggio alla causa degli indiani, rimase sorpresa e ammirata dalla grande organizzazione degli asiatici.
"I negri al loro posto", "Gli indiani fuori dal paese", "Attenti al pericolo negro". Erano questi gli slogan del National Party di Daniel Malan durante la campagna elettorale del 1948. Il partito nazionalista durante la seconda guerra mondiale aveva esplicitamente criticato la scelta dello United Party, allora al potere, di schierarsi a fianco degli Alleati, mostrando una chiara simpatia per i nazisti. Seppure non votassero, i negri non potevano non appoggiare il partito di Smuts, che non era certo amico loro, ma che sicuramente era meno pericoloso del National Party. Avrebbe però vinto quest'ultimo.
Malan cominciò così a costruire l'apartheid, che non era altro che la sanzione de jure di una situazione di discriminazione che già esisteva. Malan l'avrebbe semplicemente resa più efficiente e più crudele. Il partito di Malan fece subito capire di che pasta era fatto con tre significative leggi nei primi tre anni di governo: il Suppression of Communism Act, che vietava la costituzione del partito comunista; il Population Registration Act, che classificava i sudafricani a seconda della razza; e il Group Areas Act, che recludeva le varie razze nelle loro zone di appartenenza. La risposta all'apartheid fu immediata e vide uniti nella lotta neri, colored e indiani. Mandela, fortemente nazionalista, non era d'accordo. Voleva che gli Africani conducessero una battaglia per conto loro. Ma se ne fece una ragione.
Iniziò la cosiddetta Defiance Campaign (campagna di disobbedienza). Solo il primo giorno più di 250 volontari violarono sistematicamente le leggi considerate ingiuste. Nei successivi cinque mesi 8500 persone presero parte alla protesta all'urlo di "Hey Malan, apri le porte delle prigioni. Vogliamo entrare". La campagna fu un grande successo che preoccupò non poco il governo. Malan vedeva nella Defiance campaign non una semplice protesta, ma una vera e propria minaccia al potere bianco e queste azioni venivano viste come un reato. Fu così che nel 1953 passò la Public Safety Act, che diede al governo il potere di decretare la legge marziale e di arrestare persone senza processo e la Criminal Laws Amendment Act, che autorizzava punizioni corporali per i manifestanti. Nell'ottobre dello stesso anno J.B. Marks fu "bandito" in quanto comunista. Mandela divenne così il nuovo presidente della Lega giovanile della Anc. Nel frattempo si istituì il processo contro i leaders della Defiance Campaign. Una folla di dimostranti seguì attentamente il dibattimento e diede il suo apporto alla causa. Ma i leaders, compreso Mandela, furono condannati a 9 mesi di prigione (sentenza sospesa per due anni) per comunismo, anche se ben pochi di loro professavano quella fede.
ALTO TRADIMENTO - Nel 1952 il peso di Nelson Mandela nell'organigramma della Anc crebbe ulteriormente. Con l'elezione alla presidenza di Albert Luthuli, Nelson divenne uno dei vice presidenti. Ma al di là di quelle che erano le cariche formali all'interno del movimento anti-apartheid, Nelson Mandela per carisma, coraggio, capacità di leadership cominciò lentamente a divenire il simbolo della Anc. Il Congresso del Popolo convocato dalla Anc e dai gruppi indiani e colored nel 1955 fu decisivo non solo perchè portò alla formulazione del Freedom Charter, il manifesto per un Sudafrica libero e interrazziale, ma determinò la più prevedibile e prevista delle risposte da parte del governo: la messa al bando dell'African National Congress. Il gruppo lo sapeva e già si stava preparando alla clandestinità, una condizione che per forza di cose sconvolse anche la vita di Nelson Mandela.
Cominciava ad essere seguito dalla polizia, interrogato, scrutato. Il "grande fratello bianco" non lo perdeva certo d'occhio. Fino alla notte del 5 dicembre 1956. Bussarono alla porta con violenza. Nelson capì subito che non si trattava di amici. Alla porta c'era l'ufficiale della polizia Rousseau accompagnato da due agenti. Perquisirono la casa, seguiti dagli sguardi spaventati dei bambini, i figli avuti dalla prima moglie, Evelyn. Poi Rousseau disse: "Mandela, abbiamo un mandato d'arresto per te. Seguimi". L'imputazione: alto tradimento. Fu portato in centro a Johannesburg, alla prigione di Marshall. Lì ci trovo molti dei suoi compagni. In totale gli arrestati furono 156. Quasi tutta la leadership della Anc fu messa in cella. Il folto gruppo fu trasferito al Fort per due settimane, poi al Drill Hall, dove si svolse l'udienza preliminare di quello che divenne famoso come il Treason Trial (processo per tradimento). Una massa di simpatizzanti bloccarono per ore Twist Street facendo sentire la loro solidarietà agli arrestati. L'accusa era di alto tradimento e cospirazione con l'uso della violenza per rovesciare il governo e sostituirlo con un regime comunista. La pena per l'alto tradimento era la morte. Iniziò un lungo dibattimento, che attirò l'attenzione del paese. Solo nell'agosto del 1958 iniziò la prima vera udienza. Il giorno di Nelson Mandela giunse il 3 agosto, tre anni e 8 mesi dopo il primo arresto. Era il suo turno in qualità di testimone. Il suo fu un grande intervento, nel quale emerse tutta la saggezza e la moderazione di un vero capo.
Mandela non spaventò il nemico con minacciosi discorsi vendicativi né tantomeno inneggiando al comunismo. Nelson spiegò il perché della disobbedienza civile e degli scioperi. La Anc voleva il dialogo con il governo. Avrebbe accettato anche una fase di transizione, con un lento e graduale ingresso dei neri nelle istituzioni, in modo da salvaguardare le conquiste e i diritti della comunità bianca. Fece seguito un appello alle democrazie occidentali, affinchè si accorgessero della battaglia della Anc. Fu un discorso alto e civile, una vera lezione.
C'era una folle strabocchevole il 29 marzo 1961 quando il giudice Rumpff lesse la sentenza: sì, l'African National Congress aveva operato per sostituire il governo con una radicalmente e fondamentalmente differente forma di stato; sì, l'African National Congress aveva usato mezzi illegali di protesta durante la Defiance Campaign; sì, alcuni leaders della Anc avevano, nei loro discorsi, incitato alla violenza; sì, c'era stata un'ala di estrema sinistra nella Anc che aveva rivelato la sua anima anti capitalista. Il patibolo sembrava ormai vicino. Ma il giudice Rumpff concluse: "L'accusa non è riuscita a provare che la Anc fosse un'organizzazione comunista nè che la Freedom Charter prospettasse una sociertà comunista". Dopo quaranta minuti di discorso la conclusione fu: non colpevoli!
Il verdetto scatenò la gioia nei ghetti neri e nelle famiglie dei leaders della Anc. Ma Mandela sapeva che il governo avrebbe potuto colpire ancora. Trascorse una notte insonne a Johannesburg, svegliandosi di soprassalto ogni qualvolta sentiva un rumore insolito. L'organizzazione doveva darsi una struttura clandestina per far fronte al bando del governo. La sentenza aveva salvato Mandela e gli altri da una condanna a morte, ma la situazione politica non era cambiata poi molto. Mandela cominciò a vivere di notte. Viaggiava dopo il tramonto, si rifugiava in casa di amici dove organizzava incontri clandestini con i compagni della Anc, girava il Paese per tenere le fila di un movimento che non voleva arrendersi. Fu battezzato il "Black Pimpernel", dal nome di un personaggio della letteratura che evitò la cattura durante la Rivoluzione Francese. Non c'era poliziotto in tutto il Sud Africa che non desiderasse di essere "colui che aveva catturato il Black Pimpernel".
La vita di Mandela era appesa ad un filo. Ogni angolo di una via, ogni casa, ogni incontro poteva essere quello fatale. Un pomeriggio si trovava a Johannesburg vestito da operaio, uno dei suoi mille travestimenti da film per sfuggire alla cattura. Stava aspettando all'angolo della strada che lo passassero a prendere, quando vide un poliziotto nero venirgli incontro, con decisione. Si guardò attorno in cerca di una via d'uscita, ma era troppo tardi, l'agente era ormai troppo vicino. Era spacciato. Il poliziotto lo guardò in faccia e sorrise, mostrandogli il pollice, il saluto della Anc. Episodi come questo riempivano il cuore di speranza. I giorni della clandestinità furono anche caratterizzati da due scelte sofferte da parte di Mandela. La prima fu quella, resa quasi inevitabile dalle condizioni della lotta all'apartheid, di fondare la struttura militare della Anc, la Umkhonto we Sizwe, la Spada della Nazione. Era una struttura flessibile, composta di pochi, fidati uomini. I primi attentati non intendevano essere che dimostrativi. Si voleva evitare a tutti i costi di spargere sangue innocente. C'era comunque bisogno di un addestramento militare e di armi. E fu per questo che Mandela, ormai uomo simbolo della Anc, dovette rinunciare al voto che aveva fatto di lottare senza lasciare il proprio Paese e intraprese un lungo viaggio in visita da tutti i grandi leaders africani in cerca di un sostegno logistico e finanaziario. Ormai era diventato un leader mondiale. Ma sarebbe tornato presto a casa.
Quando attraversò il confine per rientrare in Sud Africa respirò a fondo. L'aria di casa è sempre più dolce. Era una chiara notte invernale. Stava lasciando un mondo libero per tornare in quello dove era costretto a fuggire, ma era comunque felice. Quella era comunque la sua casa. Ma la sua libertà sarebbe durata troppo poco. Era notte. Stava attraversando in auto Howick, 48 chilometri a nord ovest da Pietermaritzburg, quando una Ford lo affiancò intimandogli di fermarsi. Altre due auto seguivano. Fu arrestato. Iniziò il Rivonia Trial, l'ultimo processo a cui fu sottoposto. Mandela si difese da solo e concluse con una strepitosa arringa. Tra le altre cose, disse: "Sono pronto a pagare la pena anche se so quanto triste e disperata sia la situazione per un africano in un carcere di questo paese. Sono stato in queste prigioni e so quanto forte sia la discriminazione, anche dietro le mura di una prigione, contro gli africani...In ogni caso queste considerazioni non distoglieranno me né altri come me dal sentiero che ho intrapreso. Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l'apice delle proprie aspirazioni. Niente può distogliere loro da questa meta. Più potente della paura per le terribili condizioni della prigione è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigione, in questo paese...non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza a che i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa corte sono i membri del governo". La sentenza era quella prevista: tre anni per incitamento allo sciopero e due per aver lasciato il paese senza passaporto.
Iniziò il calvario nelle prigioni dello stato, mentre in un secondo processo contro i leaders della Anc Mandela ricevette l'ergastolo e fu trasferito nella prigione di Robben Island, la più dura del Sud Africa, situata in un'isola al largo di Città del Capo. Furono ventotto anni pieni di amarezze e dolore. Robben Island era difficilmente raggiungibile. Winnie, la seconda moglie di Mandela, potè visitare il marito solo poche volte. I prigionieri politici erano rinchiusi in una sezione distaccata, perchè non si mischiassero con i detenuti comuni e non propagassero il virus della rivoluzione. Erano costretti a lavori umilianti. Ma riuscirono comunque a continuare la loro battaglia politica, mentre all'esterno la lotta dell'Anc non cessava. Combattere l'apartheid era diventata una parola d'ordine nel mondo. Erano cominciate anche le sanzioni economiche contro il Sud Africa. Aggiunte all'attività della Anc in esilio e all'impegno di numerosi gruppi umanitari all'estero contribuirono a esercitare una pressione sul governo di Pretoria sempre più insostenibile. Il cambiamento della situazione internazionale, con il crollo del comunismo, fece il resto. Le cose finalmente dovettero cambiare e quando il governo decise il dialogo scelse come interlocutore Nelson Mandela. Non era facile trattare con il nemico stando in prigione, tanto più senza avere contatti con il resto dell'organizzazione. Quando infatti il governo di Botha cominciò le trattative, Mandela, ormai trasferito nel carcere di Pollsmoor, fu messo in isolamento. Era così costretto a prendere delle decisioni di grande responsabilità senza potersi consultare con nessuno, con il rischio di scatenare malumori se non accuse di tradimento, qualora avesse fatto concessioni eccessive al governo. I primi contatti del governo con Mandela furono molto cauti e prudenti.
Erano i preparativi per il primo, storico incontro tra Botha e Mandela. Avvenne il 4 luglio 1989. Era un Botha sorridente e cordiale quello che strinse la mano a Mandela. Ma quei sorrisi nascondevano l'imbarazzo di un leader costretto a venire a patti con il nemico. Anche Mandela era imbarazzato e non era solo per la mancanza di abitudine ai protocolli tipici degli incontri politici di alto livello. In lui c'era un misto di rabbia, gioia, incredulità. Non gli sembrava vero di poter finalmente stringere la mano al grande nemico, di poter trattare e, entro certi limiti, dettare le condizioni. Ma non poteva dimenticare di colpo tutte le sofferenze di quegli anni. L'incontro, segretissimo, durò poco più di mezz'ora e non portò a concreti risultati ma servì per rompere il ghiaccio. Da lì in avanti si susseguirono vari summit, soprattutto con il successore di Botha, P.W. De Clerk, colui che smantellò definitivamente l'apartheid. Il resto è storia d'oggi, delle difficoltà di governare un paese difficile, di vincere i problemi di razzismo ancora esistenti, di far sviluppare economicamente anche quelle zone nere più arretrate e di difendere la minoranza bianca. Il giudizio su Mandela presidente del Sud Africa lo si darà tra qualche anno, quello di Mandela combattente per la libertà è già scritto a caratteri d'oro nel libro della storia dei grandi personaggi di questo secolo. Ci piace concludere questa sintetica biografia con le parole che chiudono "Long walk to freedom", l'autobiografia scritta dallo stesso Nelson Mandela:
"Quando sono uscito di prigione, questa era la mia missione, liberare sia gli oppressi che l'oppressore. Qualcuno dice che lo scopo è stato raggiunto. Ma io so che non è questo il caso. La verità è che noi non siamo ancora liberi; abbiamo soltanto conquistato la libertà di essere liberi, il diritto a non essere oppressi. Non abbiamo ancora compiuto l'ultimo passo del nostro viaggio, ma il primo di un lungo e anche più difficile cammino. Per essere liberi non basta rompere le catene, ma vivere in un modo che rispetti e accresca la libertà degli altri. Il vero test della nostra fedeltà alla libertà è solo all'inizio. Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho compiuto passi falsi. Ma ho scoperto il segreto che dopo aver scalato una collina, si capisce che ce ne sono ancora molte altre da scalare. Mi sono preso un momento di riposo, per dare un'occhiata alla vista che mi circonda, per guardare indietro alla strada che ho fatto. Ma posso riposare solo per un momento, perché con la libertà vengono anche le responsabilità, e mi preoccupo di non indugiare, perché il mio lungo cammino non è ancora finito."
di PAOLO AVANTI
di PAOLO AVANTI