-Armand-Jean du Plessis de Richelieu (parte seconda)
Il consolidamento del potere e la politica estera
Prima ancora di aver portato a compimento la prima parte del compito che si era prefisso, cioé l'eliminazione di tutti gli elementi interni recalcitranti all'instaurazione dell'assolutismo monarchico, Richelieu ne intraprese anche la seconda parte: l'elevazione della Francia al di sopra di tutti gli altri Stati, ed in particolare l'umiliazione della casa d'Asburgo. Oltre a ciò gli premeva di ampliare e rafforzare i confini della Francia, da ogni lato aperti e malsicuri, strappando all'impero tedesco il confine del Reno, ed alla Spagna il confine dei Pirenei. Con queste mire egli diresse la politica, condusse le trattative, e comandò anche in guerra. Coperto d'armatura, la spada al fianco, come tanti altri prelati medioevali, venne nel 1629 e nel 1630 in Italia alla testa dell'esercito, in occasione della lotta per la successione al ducato di Mantova. Gli splendidi risultati di queste due campagne furono l'assoggettamento della Savoia, la conquista della forte cittadella alpina di Pinerolo e l'insediamento di un francese, un Nevers, sul trono ducale di Mantova. Poco dopo Richelicu appoggiò ed aiutò gli Svedesi guidati da Gustavo Adolfo contro d'imperatore.
Ma anche il nuovo sovrano di Spagna, Filippo IV, succeduto nel 1621 a suo padre, era fermamente deciso di ridonare al suo Stato il vecchio predominio in Europa. Però questo principe mite, entusiastico dilettante di musica, poesia e pittura, si sentiva impari ad un compito così arduo; cercò quindi di affidarlo a mani più esperte e credette di aver trovato l'uomo ad hoc in un suo favorito, Gaspare Guzman, conte di Olivares, il quale, avendo ricevuto anche il titolo di duca, ben presto venne comunemente chiamato il conte-duca. In un ambiente favorevole Olivares avrebbe potuto certamente rendere ottimi servigi come uomo di governo. Ancora giovane, accudiva l'intera giornata e sino a tarda notte agli affari di Stato, cercando le uniche sue distrazioni nello studio e nell'interesse per le cose d'arte. Egli si studiò con ogni cura e avvedutezza di eliminare le gravi manchevolezze che indebolivano l'organismo della società e dello stato spagnolo. Ma non riuscì a sanare le malattie più deleterie: l'intolleranza e la cupidigia del clero spagnuolo e la politica aggressiva che il re voleva seguire e gli imponeva di seguire, mentre le forze della Spagna non erano più all'altezza di sostenerla. Filippo IV, che per vanità infantile si era attribuito il titolo di "grande", pretese che i suoi eserciti combattessero contemporaneamente in Germania, in Italia e nei Paesi Bassi.
In questo periodo sparirono dalla scene a breve distanza di tempo l'uno dall'altro i due generali avversari: Spinola, che nel 1625 dové lasciare il comando per quella infermità che quattro anni dopo lo condusse alla tomba, e Maurizio d'Orange che morì nello stesso anno. A quest'ultimo successe il fratello Federico Enrico (nato nel 1584), valoroso ed esperto come uomo di guerra, accorto e riflessivo come uomo politico, e colto umanista. Di animo buono e conciliante, egli cercò di eliminare il dissidio tra arminiani e gomaristi. Sotto il suo abile e saggio governo le Province unite raggiunsero l'apogeo della loro ricchezza e potenza, tanto che quel piccolo paese divenne uno degli Stati preponderanti d'Europa. Come uomo di guerra egli fu il prototipo dell'ufficiale superiore del genio. I numerosi metodici assedi da lui intrapresi divennero la scuola di tutti i giovani desiderosi di addestrarsi nell'arte militare. Il suo sistema era quello di trasformare lo stesso campo dall'assediante in una fortezza capace di respingere così le sortite degli assediati come gli attacchi degli eserciti di soccorso; poi faceva passo passo avanzare i camminamenti e le batterie contro i trinceramenti avversari, sinché gli riusciva di aprire con le artiglierie una breccia nella linea principale di difesa; il che, giusta le regole dell'arte bellica del tempo provocava la capitolazione; insomma un gioco di scacchi con figure viventi.
Nel frattempo le flotte olandesi spazzavano via gli spagnoli dai mari; nel 1628 l'ammiraglio olandese Peter Hein catturò l'intera flotta spagnola che recava il carico d'argento ricavato dal Perù.
Da parte sua Richelieu iniziò la lotta contro gli Absburgo in Germania, giovandosi del consiglio di padre Giuseppe, un provetto ed astuto diplomatico. I francesi conquistarono il principato di Treviri, il ducato di Lorena e costrinsero le città dell'Alsazia ed il principe elettore di Colonia a mettersi sotto il loro protettorato. Il proposito del cardinale di impadronirsi della riva sinistra del Reno si rivelò in forma netta e concreta.
Se non che non era cosa tanto facile fiaccare la vecchia e ben radicata potenza della casa d'Absburgo. Nelle province meridionali dei Paesi Bassi, dopo la morte di Alberto (1621) e di Isabella (1633), assunse il governo un fratello di Filippo IV, il cardinale infante Ferdinando, mezzo sacerdote e mezzo uomo d'armi, personalità energica, risoluta, laboriosa e fornita di capacità non comune. Costui seppe dare sviluppo ed incremento alle ricche risorse naturali delle province belghe ed utilizzarle per lottare energicamente contro i nemici degli Absburgo.
In Germania l'imperatore e la Lega ripresero il sopravvento con la vittoria di Nòrdlingen (1634) e con la pace di Praga (1635) che procurò loro l'alleanza dei più potenti principi protestanti. Richelieu comprese che occorreva impostare la lotta più risolutamente e su scala più vasta per poter aver ragione degli avversari.
Nel febbraio 1635 egli concluse una alleanza con gli stati generali per la conquista delle province dei Paesi Bassi dominate dalla Spagna; la parte settentrionale di esse sarebbe toccata alle Province unite, la meridionale alla Francia. Dopo ciò il 19 maggio 1635 egli dichiarò formalmente la guerra alla Spagna, e assoldò Bernardo di Wéimar col suo piccolo ed agguerrito esercito di tedeschi, promettendo contemporaneamente al duca la signoria sull'Alsazia.
Na solamente questo piccolo esercito combatté con successo. Invece le truppe francesi, per la maggior parte di nuova leva e disabituate alle armi, si rivelarono affatto prive di combattività, codarde e indisciplinate, e la maggior parte dei loro generali incapaci, cupidi e litigiosi, ignoranti e rapaci. Uno dei principali tra questi generali era un favorito di Richelieu, militarmente inservibile, il cardinale de la Valette, il «generale col berretto da prete », come lo chiamarono scherzando i soldati. Un altro inconveniente fu che Richelieu pretese di dirigere egli stesso da Parigi le operazioni guerresche sin nei minimi particolari. Ne derivò che nessuna mossa o operazione fu mai fatta a tempo e luogo debito, e venne a mancare nei generali francesi ogni spirito di iniziativa e ogni rapidità di decisione.
Ad onta dei loro 132.000 uomini i francesi si trovarono ben presto a mal partito così nei Paesi Bassi, come in Germania e nei Grigioni. L'attacco francese fu respinto da ogni lato, e l'anno dopo (1636) gli Absburgo passarono persino all'offensiva portando la guerra sul territorio francese. Un corpo di truppe spagnule sbarcò nella Bretagna, un altro invase, devastandola, la Guascogna; un terzo cacciò i francesi dalla Lorena e penetrò in Borgogna. Ancora una volta le armi spagnole non smentirono la loro superiorità sugli eserciti francesi affermatasi per più d'un secolo. Trentamila spagnoli ed imperiali al comando del cardinale infante penetrarono in Picardia e conquistarono una serie di fortezze; il temuto generale Giovanni von Werth coi suoi cavalieri croati e polacchi seminò il terrore sotto le porte di Parigi.
Cinquant'anni prima di fronte ad un simile scacco ed a così gravi avversità la nobiltà ed il popolo sarebbero insorti in Francia ed avrebbero costretto il re a far la pace col nemico vittorioso. Ma per merito dei successivi governi illuminati di Enrico IV e di Richelieu il sentimento nazionale, il senso di solidarietà e il criterio politico del popolo francese avevano fatto notevoli progressi. Perciò, se a Parigi regnò per un momento lo sconforto e l'irritazione contro il primo ministro, fu cosa passeggera, ed altrettanto fugace fu il proposito del re di congedarlo.
Quanto a lui, a Richelieu, il suo contegno in tanto frangente confermò la straordinaria forza del suo animo e del suo carattere. Sconfitto nella lotta coi più acerbi avversari, con le finanze rovinate, circondato da intrighi di corte, minacciato da insurrezioni popolari, perseverò irremovibilmente sulla via tracciatasi. Egli si rivolse fiducioso alla popolazione parigina esortandola a difendere la capitale e con essa la Francia. Ed il popolo rispose immediatamente al suo appello in uno scoppio di entusiasmo patriottico; denaro e volontari affluirono in massa. E siccome i nemici indugiarono a trarre profitto dai vantaggi ottenuti, Richelieu ebbe modo di organizzare la resistenza e di respingerli almeno dalle immediate vicinanze della capitale. Tuttavia neppure il successivo anno di guerra (1637) arrecò un mutamento nella situazione sfavorevole alla Francia. In Italia gli spagnoli ottennero talmente il sopravvento che costrinsero i duchi di Parma, Modena e Savoia a staccarsi dalla Francia. Nei Grigioni le popolazioni non vollero saperne dell'alta sovranità francese loro imposta da Richelieu altrettanto quanto non volevano tollerare una sovranità spagnola o austriaca. Quindi insorsero contro il comandante francese, il duca di Rohan; e questo vecchio capo degli Ugonotti, lasciato senza aiuti da Richelieu perché non volle passare alla religione cattolica, si vide costretto, circondato come era da forze superiori, ad acconsentire allo sgombero immediato del paese.
Così l'Italia e gli importanti passi dei Grigioni erano andati perduti per la Francia. Né le cose andarono meglio a nord. Gli splendidi successi ottenuti fin da principio da Bernardo di Weimar si tramutarono alla fine in rovesci a causa del contegno imbelle delle truppe ausiliarie francesi. Anche l'invasione del Belgio, tentata dai francesi nel 1638, terminò con una completa disfatta, e così pure un loro tentativo di forzare i confini dei Pirenei.
Solo dove operò Bernardo di Weimar con i suoi mercenari i tedeschi la fortuna arrise alla causa antiasburgica. In pieno inverno il duca, marciando attraverso il territorio neutrale svizzero, girò le posizioni nemiche sull'alto Reno e sgominò l'esercito imperiale con un audace attacco di sorpresa presso Rheinfelden (3 marzo 1638), nel quale trovò gloriosamente la morte l'eroico Rohan. Il comandante della cavalleria imperiale, Giovanni von Werth, che un anno, e mezzo prima Parigi aveva veduto con sommo terrore sotto le sue mura, fu preso prigioniero a Rheinfelden ed esposto alla curiosità degli attoniti parigini come una belva rara. Finalmente Bernardo pose l'assedio alla forte Breisach, baluardo dei possedimenti austriaci sull'alto Reno.
Invano la corte viennese fece ogni sforzo per salvarla: tre eserciti mandati a soccorrerla vennero battuti dal Weimar, il quale costrinse la piazza ad arrendersi per fame nel dicembre 1638. Così l'alto Reno e la Svevia austriaca caddero nelle mani del duca di Weimar. Questi però pensò di tenersi per sé i territorii conquistati, il che naturalmente lo mise in aspro conflitto con Richelieu, la cui mira era invece per l'appunto quella di assicurare alla Francia il confine del Reno. L'altero duca chiese di essere riconosciuto sovrano dell'Alsazia e Brisgovia, dichiarando che mai avrebbe voluto incontrare il biasimo di essere stato il primo a mutilare l'impero.
Ma la fortuna rimase anche questa volta fedele a Richelieu. Mentre il cardinale si apprestava a costringere con la forca Bernardo a consegnare i territori in contesa, il duca improvvisamente morì il 18 luglio 1639, non di veleno propinatogli dai francesi, come allora falsamente si credette, ma di esaurimento e malattie causategli dalle immense fatiche e dalla continua tensione cui si era assoggettato per tanti anni. La sola a trarre profitto dalla sua morte fu la Francia. I tre «direttori», cui Bernardo prima di morire aveva affidato il comando del suo esercito, attribuendo posizione preminente sugli altri due al bernese Hans Ludwig von Erlach, si trovarono alla fine nella necessità di consegnare al re di Francia l'esercito e i territori conquistati, mediante il trattato 9 ottobre 1639. In esso Erlach si garantì speciali vantaggi, ma non per questo va accusato di tradimento, giacché le sue truppe, rimaste prive del loro capo e abbandonate da tutte le potenze, altro partito migliore non potevano prendere se non quello di seguire chi le aveva assoldate e prese al proprio servizio sin da principio. Ma il risultato fu che l'Alsazia, conquistata da soldati tedeschi, passò nelle mani della Francia.
Per Richelieu ciò costituì un successo magnifico. Ed un altro successo anche più decisivo ottennero i suoi alleati olandesi. L'eroico loro ammiraglio Martino van Tromp in quattro ore di combattimento annientò nella Manica (1639) la grande flotta di 70 navi di linea che la Spagna, dando fondo alle sue ultime risorse marittime, aveva allestita ed inviata verso i Paesi Bassi con 12.000 soldati. Da questo momento la Spagna sparì dal novero delle grandi potenze marittime.
Le cose andarono assai diversamente nei confronti degli eserciti spagnoli di terraferma, i quali conservarono la loro decisiva superiorità sulle truppe francesi. Con questi soldati, imbevuti di una tradizione militare gloriosa e pieni di sentimento d'onore cavalleresco, Ottavio Piccolomini distrusse l'esercito francese che al comando di Fouquières assediava Diedenhofen (Thionville) in Lorena. Ciò avveniva nel nord.
In Savoia, contro la reggente Cristina, figlia di Enrico IV, che governava il paese come se si trattasse di una appendice dalla Francia, si levò un partito favorevole alla Spagna, capitanato da due rampolli della casa Sabauda, l'audace soldato principe Tommaso ed il cardinale Maurizio. Con l'aiuto degli spagnoli costoro conquistarono quasi tutta la Savoia e nel luglio 1639 anche la sua capitale Torino. Il popolo e la guarnigione di Nizza insorsero essi pure e consegnarono quell'importante porto marittimo agli spagnoli.
Ma qui finirono pure i successi della Spagna. Con l'anno 1640 maturarono i germi della dissoluzione che già da un pezzo si erano diffusi nell'organismo dello Stato spagnolo. Due importanti province, situate agli estremi opposti della penisola, se ne staccarono. La regione nord-orientale, la Catalogna, aveva sempre nutrito un'intima e cordiale avversione per i Castigliani, le cui radici stavano nella completa diversità di lingua, di istituzioni e di tradizioni storiche. Finché il regno si trovò nella fase vittoriosa di ascensione, i catalani, grazie ai vantaggi che ricavavano dal dominio mondiale spagnolo, tollerarono la supremazia dei ruvidi, orgogliosi, taciturni castigliani. Ma quando non sopportarono più sacrifici e pene, quelle popolazioni volubili, parlanti un dialetto meridionale francese, perdettero la pazienza. I disagi e i danni derivanti dalla guerra che infieriva ai suoi confini provocarono nel luglio 1640 l'insurrezione dell'intera provincia. La deputazione generale degli stati catalani si adunò d'urgenza e si rivolse per aiuto alla Francia. Richelieu fu ben felice di accordare questo aiuto.
Alieno come era dagli idealismi politici e fedele al suo criterio di opportunità, egli non esitò un momento a favorire in Catalogna la causa della libertà, dal momento che ciò poteva tornare utile alla Francia, mentre in casa sua, in Francia, era stato ed era sempre il campione dell'assolutismo monarchico; allo stesso modo che, pur essendo cattolico convinto, non aveva avuto alcuno scrupolo ad appoggiare gli svedesi e tedeschi protestanti contro l'imperatore e la lega cattolica, e a venire in aiuto degli insorti inglesi e scozzesi contro Carlo I d'Inghilterra che gli si era mostrato ostile. La sua mira era di assoggettare tutta l'Europa all'egemonia della Francia, ed all'uopo ogni mezzo era per lui buono. E così un esercito francese penetrò in Catalogna, la quale nel dicembre 1640 strinse una formale alleanza a Barcellona con Luigi XIII. Ché anzi un mese dopo gli stati di Catalogna elessero a loro sovrano il re francese col titolo di conte di Barcellona.
Da tempo Richelieu era un da pezzo in segrete relazioni con i capi del movimento antispagnolo in Portogallo. I funzionari supremi del paese, che avevano sempre sopportato di mala voglia la signoria spagnola imposta da Filippo II, erano a parte del complotto. Ai primi di dicembre 1640 scoppiò la rivolta, e tutto il popolo portoghese si levò come un sol uomo per riconquistare la propria indipendenza nazionale. Il duca di Braganza, il quale discendeva per via di donne dalla antica famiglia reale portoghese ed i cui immensi possedimenti occupavano quasi un terzo del paese, fu proclamato re col nome di Giovanni IV. Le deboli guarnigioni spagnole vennero scacciate dal territorio senza fatica.
La defezione della Catalogna e del Portogallo costrinse Filippo IV a distrarre gran parte delle sue forze militari per domare quelle insurrezioni. Ciò fu causa che le sorti della guerra nei Paesi Bassi, in Germania ed in Italia si volsero decisamente a suo disfavore. Da quest'anno (1640) infatti i francesi passarono in tutti e tre quei teatri di guerra di successo in successo, agevolati anche dal fatto che la morte del cardinale infante Ferdinando (novembre 1640) li liberò dal loro più pericoloso avversario. Così finalmente Richelieu raccolse, e sempre in crescente misura, i frutti delle sue immense e tenaci fatiche. Parve assicurato l'acquisto della parte meridionale del Belgio e dei territori tedeschi sulla sinistra del Reno.
Ma, in mezzo a questi successi da tempo laboriosamente preparati Richelieu si vide seriamente minacciato di perdere la fiducia del re che costituiva il principale puntello della sua potenza. Per avere nell'entourage del monarca, il quale in fondo subiva di mala voglia la sua tutela, un amico influente, il cardinale aveva introdotto presso Luigi XIII un giovane, avvenente ed amabile gentiluomo, Enrico de Cinqmars, che almeno apparentemente gli era completamente devoto. E realmente Cinqmars seppe guadagnarsi in pieno il favore del re che lo elevò alla più alta carica di corte, quella di grande scudiero. Questa rapida fortuna ingenerò nell'animo del giovane vanitoso una stolta e frenetica ambizione; sicuro come era del favore del re, si credette predestinato ad abbattere il geniale ministro e prendere il suo posto, probabilmente basandosi sulle frequenti prove che nelle relazioni personali il re gli aveva date dell'intima avversione ch'egli sentiva per Richelieu.
Con queste mire Cinqmars, valendosi come intermediario del consigliere de Thou, figlio del famoso storico, ordì un complotto con alcuni membri dell'alta nobiltà nemici del cardinale; addirittura accecato dalla sua criminosa cupidigia di afferrare il potere, concluse un patto segreto con gli spagnoli, i nemici della sua patria, e a loro in compenso di aiuti pecuniari, promise la restituzione di tutte le conquiste francesi. Ma questo trattato cadde nelle mani di Richelieu, il quale, mettendolo sotto gli occhi del re, lo convinse di colpo che l'interesse e l'onore della Francia stavano unicamente dalla parte del suo ministro.
E Luigi sacrificò i suoi amici, allo stesso modo che un tempo aveva sacrificato la madre e il fratello, allo stesso modo che aveva sempre sacrificato sé medesimo. Questo sacrificio della propria personalità e di tutti quelli che gli stavano più a cuore all'interesse dello Stato da parte di questo monarca debole, e pur così sensibile alla voce del suo dovere, ha qualcosa di toccante e che ispira simpatia.
Richelieu era già gravemente malato; ma la prospettiva della morte vicina non mitigò il suo spietato spirito di vendetta, vendetta che egli ritenne di dover compiere per il bene dello Stato. Cinqrnars e de Thou finirono sul patibolo come rei di alto tradimento. Il duca di Bouillon, che aveva partecipato alla congiura, non poté salvare la propria libertà se non rinunziando ai suoi diritti di sovranità su Sedan, territorio che da allora rimase incorporato alla Francia.
Alla vigilia della sua morte Richelieu aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso; quale rappresentante della corona egli era assoluto padrone della Francia. Dei membri dell'alta nobiltà chi non era finito sul patibolo viveva confinato in lontani possedimenti ovvero all'estero.
Gli appartenenti alla piccola nobiltà che prima avevano risieduto sulle loro terre conducendovisi come principotti indipendenti, si affollavano ora alla corte, ovvero accorrevano alle carriere militari e amministrative facendo a gara per guadagnarsi il favore dell'onnipotente ministro. Clero e parlamenti conservavano dei loro antichi privilegi solo quel tanto che era conciliabile con l'assolutismo regio. Tuttavia Richelieu non abolì le prerogative di cui godevano le classi privilegiate in confronto alle masse popolari, perché capiva che l'eguaglianza dei cittadini avrebbe finito per coalizzarli tutti contro l'assolutismo della corona. Ma questo strumento di difesa doveva a lungo andare dimostrarsi insufficiente. Finché la nobiltà e l'alto clero avevano avuto una effettiva partecipazione al potere dello Stato, i loro privilegi sociali ed economici erano appunto per questo fatto apparsi naturali agli occhi della massa del popolo; ma quando. questa funzione delle due classi venne meno, i loro privilegi apparvero ingiustificati, una vera, usurpazione di benefici non controbilanciata da alcun corrispondente dovere; ed allora quelle due classi cominciarono ad essere odiate.
Il fenomeno si era già delineato sotto il regno di Enrico IV. Oltre a ciò: prima il popolo aveva potuto attribuire la responsabilità delle proprie sofferenze e privazioni all'opera personale dei ministri e marescialli della corona dotata di deboli poteri; ma dal momento in cui venne instaurato l'assolutismo regio, il rancore del popolo angariato si appuntò direttamente contro lo stesso sovrano; a lui personalmente si fece risalire la responsabilità degli ingiusti privilegi conservati alla nobiltà ed al clero, della gravezza oppressiva delle imposte, dell'improbità e delle estorsioni dei funzionari civili e militari, delle eventuali sconfitte in guerra. Venne a mancare ogni paracadute tra corona e popolo. È così che Richelieu, il grande autocrate, preparò in realtà i germi della futura rivoluzione. Allo stesso risultato finale condusse anche un altro lato della sua opera; in antitesi cioé alla politica finanziaria saggia e misurata di Enrico IV, egli non esitò ad imporre alle finanze dello Stato spese ed oneri esorbitanti, tanto da portare il peso degli interessi del debito pubblico da 2 a 22 milioni, i quali, tenuto conto del valore della moneta a quei tempi, corrisponderebbero a parecchi miliardi. Procedendo su questa china si arrivò poi a quel dissesto finanziario che costituì il primo incentivo esteriore alla rivoluzione.
Nel campo amministrativo Richelieu seguì il principio dell'accentramento. Egli offrì un esemplare di quel sistema burocratico che si ingerisce negli affari anche i più minuti di ogni privato e di ogni villaggio e nel quale, sotto il nome del re, alcuni ministri decidono delle sorti di milioni di individui; fu cioé il creatore di un sistema che momentaneamente, se maneggiato da un capo dotato di qualità superiori, può dare splendidi risultati, ma che alla lunga uccide ogni iniziativa personale e, spegnendo l'interessamento del popolo alla cosa pubblica, spegne anche il sentimento patriottico. L'accentramento burocratico francese, imitato ben tosto nella maggior parte dei paesi europei dai sovrani o dai loro strumenti, costituì in particolare per la Francia il cancro roditore della vita pubblica e sociale.
Il sistema centralizzatore portò anche all'annullamento delle autonomie provinciali. Le province così perdettero ogni importanza politica, e questa si concentrò tutta nella sola capitale, Parigi, che divenne il cuore della nazione e la cui irrequieta e impulsiva popolazione d'ora in poi acquistò una influenza decisiva sulle sorti dell'intera Francia. Prima nelle vicende precedenti, anche importanti, come la guerra con gli inglesi e le guerre civili di religione, Parigi non aveva avuto importanza maggiore delle altre grandi città francesi. Anche da questo lato pertanto Richelieu preparò la strada alla futura rivoluzione.
Egli eresse a regola generale l'istituzione di intendenti in tutte le province; ciascuno di costoro amministrava la propria circoscrizione con pieni poteri in materia di polizia e nel campo giudiziario e finanziario, senza dover rispondere dei propri atti di fronte ad altri, all'infuori del primo ministro, costantemente tenuto ad obbedire che ai suoi ordini. Il nobile governatore della provincia divenne da allora una specie di comparsa che ormai non faceva le sue apparizioni se non nelle cerimonie solenni. Di fronte a questi intendenti, giovani funzionari tratti dalla borghesia, ma tutte creature sottomesse del primo ministro, la competenza dei tribunali ordinari ed in specie dei parlamenti subì gravissime limitazioni. In particolar modo ad essi fu tolta ogni facoltà di sindacare gli atti dell'autorità amministrativa e giudicare in merito. Di modo che chiunque dava ombra o fastidi al governo poteva senza giudizio essere cacciato in prigione. Fu Richelieu a trasformare la Bastiglia in carcere ordinario destinato permanentemente ad accogliere i prigionieri di Stato, mentre prima era una fortezza in cui solo occasionalmente erano stati rinchiusi dei condannati politici.
L'esercito, il principale sostegno dell'autorità regia all'interno e all'estero, fu considerevolmente accresciuto. Richelieu lo portò, dai 12.000 uomini che contava sotto Enrico IV, a 150.000 uomini. Nessuna meraviglia che egli, così facendo, abbia in modo insanabile rovinato le finanze dello Stato, ove si pensi che esercito e marina costavano 130 milioni annui, una spesa cioé che le risorse economiche della Francia d'allora non erano in grado di sopportare.
Il concordato di Francesco I aveva instaurato la strettissima unione della chiesa francese con lo Stato; la chiesa poneva al servizio della corona, cui spettava il conferimento di tutti gli uffici e benefici ecclesiastici, l'influenza della propria autorità spirituale, e il re da sua parte prestava alla chiesa l'aiuto del braccio secolare per la tutela della sua dottrina e dei suoi privilegi. Ma Richelieu intese questa alleanza nel senso che lo Stato aveva il diritto di considerare la chiesa semplicemente come una delle più importanti ruote del suo meccanismo c di servirsene quindi ai suoi fini. A tale scopo egli contribuì nel modo più lodevole all'elevazione morale e intellettuale della chiesa nazionale. Mentre sino ai suoi tempi i parroci, di fronte alla scandalosa ricchezza dei prelati, avevano in gran parte languito nella miseria, egli invece assicurò loro mediante un editto regio un reddito minimo sufficiente ad una esistenza decorosa. Del pari cercò di riparare con ripetuti editti riformatori, e con l'invio nei chiostri di commissari regi alla degenerazione del ceto monastico; e favorì costantemente l'elevazione alle sedi vescovili di personalità distinte. D'altro canto la sua opera venne agevolata dalla tendenza ad una severa religiosità e correttezza di costumi che prevalsero nel seno della stessa chiesa francese.
S. Francesco di Sales e S. Vincenzo di Paola si sforzarono efficacemente di indirizzare l'attività del clero ad opere di misericordia, alla cura degli infermi, all'educazione della gioventù, in luogo di abbandonarsi ad una oziosa contemplazione o addirittura alla bella vita. Le congregazioni degli Oratorii e di S. Sulpicio, fondate allora dal cardinale Berulle e da altri ecclesiastici animati dagli stessi intendimenti, curarono la cultura del clero ed istituirono, secondo i precetti del concilio di Trento, seminari per la formazione di giovani sacerdoti.
La riformata congregazione dei Benedettini di S. Mauro creò la scienza diplomatica e paleografica, procurando così un prezioso strumento di più profonda e sicura indagine storica. A nessuna di queste attività mancò l'incoraggiamento e l'aiuto di Richelieu. In compenso però egli tenne rigorosamente soggetta alla sua autorità la chiesa francese. Questa finì per raffigurarsi come uno degli organismi attraverso i quali si esercitava il potere regio; e quindi, allorché essa suscitò il malcontento del popolo, tale malcontento non potè a meno di appuntarsi in ultima analisi anche per questo verso contro la monarchia.
Richelieu rivestì la sua potenza di tutto l'apparato esteriore della sovranità e dello splendore principesco. Un corpo di guardie proprio ed una numerosa corte di giovani gentiluomini circondavano e proteggevano la sua persona, persino all'interno del castello reale. Il suo palazzo, il Palais Cardinal (il futuro palazzo reale) era più splendido e più artisticamente decorato, più affollato di uomini di stato, di ufficiali, postulanti, scrittori ed artisti dello stesso Louvre, dove dimorava il misantropo, malinconico, noioso monarca. Il cardinale vedeva di mal occhio che si dirigessero le istanze al re piuttosto che a lui. Egli godeva di un appannaggio pari alla lista civile di un grande sovrano.
E non solo nel campo politico, ma anche nel campo intellettuale quest'uomo illuminato seppe instaurare il primato della Francia. Egli stesso incline agli studi e pieno di interesse per tutto ciò che era produzione dell'ingegno, volle dare il massimo impulso alle lettere e alle arti. Il francese doveva diventare, in luogo del latino, la lingua comune di tutto il mondo civile. Per renderla adatta a tale funzione, per renderla più pura e più forbita, egli fondò nel 1635 l'Accademia di Francia, col carattere di organo dello Stato destinato a fissare la forma della lingua e ad insegnare inoltre retorica ed arte poetica. Indubbiamente questa specie di magistratura letteraria ha incoraggiato e stimolato la produzione e contemporaneamente ha conferito alla prosa francese una forbitezza, correttezza ed eleganza non più raggiunta in seguito; ma ha pure soffocato ogni originalità e reso impossibile l'espressione di profondi e personali sentimenti. Alla vena fresca, geniale, popolare che zampilla spontanea nella letteratura francese del XVI secolo successe il convenzionalismo schematico formalmente raffinato del così detto periodo «classico».
Tutto assunse il tono cortigiano-aristocratico. Già negli ultimi anni del regno di Enrico IV sorse il primo di quei « salons », che poi dovevano per lo spazio di due secoli esercitare così profonda influenza sulla letteratura e sui costumi sociali: quello della marchesa di Rambouillet, dove, accanto ai nobili che tenevano alla reputazione di begl'ingegni ed alle nobili « preziose », anch'esse animate dalla stessa vanità, convennero anche i più eminenti scrittori per trovarsi la prima volta accomunati con i nobili su un piede di uguaglianza.
Anche questi salons diffusero nella letteratura quella stessa maniera superficiale, per quanto piena di buon gusto e di galanteria, che regnava nella buona società. Anche Richelieu soleva tener circolo di letterati nel suo palazzo; e lo frequentò, oltre a molti altri, il grande drammaturgo Pietra Corneille e il Voiture, le cui fini ed eleganti «Lettere» sono un vero campione dell'affettata ricercatezza e galanteria che dominava nei salons e di quella retorica intesa esclusivamente, come culto della forma perfetta, che nella patente istitutiva dell'Accademia di Francia appare come il vero e proprio ideale da perseguirsi dallo scrittore e dall'oratore.
Anche la poesia acquistò l'impronta della grazia, del garbo, della levigatezza ed eleganza; ma essa dové pagare questi pregi esteriori al caro prezzo del convenzionalismo e dell'artificiosità. Le pastoie della lingua ufficiale, di prammatica, impedirono il libero volo della fantasia, la fonte delle immagini e della creazione poetica. Se infatti si eccettuano gli autori drammatici, tutti gli altri poeti dei tempi di Richelicu sono schiettamente insignificanti. Il teatro invece non ha mai raggiunto in Francia un'importanza così grande come in quest'epoca. La mania di recitar «la commedia. » dilagò dappertutto, si diffuse tra giovani e vecchi, invase la cascina del villaggio come il castello reale. I teatri pubblici cessarono dal servire per propinare al popolo produzioni scollacciate e si trasformarono in teatri d'arte pura per le classi medie ed elevate. Ma nel modo di concepire questa « purezza » dell'arte scenica si andò oltre il segno, sempre per amore dell'aristocratico e dell'affettato. La parola d'ordine fu data in questa materia dal grande cardinale in persona che si dichiarò in favore dei modelli antichi, così poco adatti alla Francia del XVII secolo, e persino in favore delle famose « tre unità » aristoteliche. La sua volontà faceva legge in letteratura altrettanto quanto in politica. Così venne consacrata per due secoli la "classicità" del dramma francese, e con sorprendente contraddizione la modernità del tono del suo dialogo e l'uniformità del metro.
Ma era impossibile ottenere che nelle parole poste in bocca agli eroi del dramma risuonasse la vera voce del sentimento, quando costoro, rappresentando personaggi greci, romani o asiatici, si interpellavano con monsieur e madame e condivano il loro dialogo con tutta la più azzimata fraseologia dei salons; era impossibile rinserrare il movimento di un'azione veramente drammatica nelle strettoie delle tre unità. Era una impresa disperata, contro la quale si infranse persino il genio di Corneille, il quale, pur essendo un poeta di ingegno potente ed ardito, pur possedendo indiscutibili attitudini drammatiche e acuto discernimento, finì per cadere in uno schematismo monotomo di disegno e di linguaggio, nel prolisso e nel retorico.
Un simile ambiente di costrizione intellettuale non era adatto per un pensatore indipendente ed originale come il grande filosofo Renato Descartes (Cartesio, 1596-1650). Egli aveva temprato il suo corpo e il suo spirito servendo negli eserciti olandesi e imperiali ed attendendo indefessamente agli studi, mentre aveva allargato e moltiplicato le sue cognizioni con lunghi viaggi. Per scrivere le sue opere filosofiche e fisiche, frutto di lunga e ponderata riflessione, egli si ritirò nella libera Olanda.
Come tanti altri suoi contemporanei, questo ardito pensatore era stato colpito dalla manchevolezza e dalla incertezza della scienza del tempo. Ma, a differenza di Montaigne, Charron e molti altri che cercarono rifugio in uno sterile scetticismo, egli tentò la soluzione del problema della conoscenza in un dato indubbio dell'esperienza interna, nella certezza dell'essere insita nella nostra coscienza (cogito, ergo sum), muovendo dal quale era possibile costruire tutto il sistema dell'universo. Il principio posto da Cartesio é stato in seguito impugnato, ma il metodo da lui scoperto ha inaugurato la filosofia moderna e le ha additato la via da seguire. La sua influenza sull'età immediatamente a lui posteriore fu profonda. Le menti più elette furono profondamente tocche e trascinate dalla proclamazione da lui fatta dell'assoluta supremazia spettante alla ragione e della irrilevanza di fronte ad essa di ogni tradizione od autorità. I filosofi francesi più eminenti del secolo seguirono con entusiasmo la via tracciata da Cartesio; così Pascal, Arnauld, Bossuet, Fénélon, Boileau, Lafontaine, Geuliner, Malebranche. Ma anche del Leibnitz deve dirsi la stessa cosa.
Descartes fu un precursore anche nel campo delle matematiche. Egli é il fondatore della geometria analitica, in virtù della quale soltanto si potè verificare ogni ulteriore sviluppo della matematica in genere. Anche la teoria della luce deve a questo genio i suoi più considerevoli progressi. Egli scoprì la legge della rifrazione dei raggi nel passaggio da un medium ad un altro e con questo preparò le grandi scoperte di Newton e di Leibnitz.
Nessun genio di pari grandezza rivelò l'arte francese, alla quale pure Richelieu fu largo del suo pericoloso favore, così distruttivo di ogni originalità. In questo campo dominò schematismo, arido raziocinio e falsa classicità. A tale andazzo non seppe sottrarsi nella pittura nemmeno Nicola Poussin, benché fosse un artista dotato dalla natura di poderose attitudini, capace di concezioni grandiose e di grande efficacia plastica. Lo stesso é a dire di Eustachio Lesueur, (1617-1655), che era un disegnatore eccellente ed abbastanza espressivo, e pure si lasciò andare, per seguire la moda generale, ad uno snervato idealismo cui credette di dover inservire mediante l'impiego di una intonazione coloristica triste, uniformemente pallida, schematica. Ad un gradino ancor più basso discesero la scultura e l'architettura, impastoiate come erano nelle esigenze inderogabili del gusto aulico del tempo, tutto infatuato di una vuota ed ampollosa sontuosità.
Mai la Francia aveva posseduto un padrone che ne avesse penetrato e dominato l'intera vita come il cardinale di Richelieu. Politica, esercito, amministrazione, sviluppo intellettuale ed artistico, tutto fu signoreggiato da quest'uomo straordinario. Il 4 dicembre 1642 egli soccombette ad una malattia di petto che da lungo tempo lo tormentava. Egli sparì, ma la sua opera rimase. Richelieu trasformò la Francia e l'Europa e gli diede un assetto che perdurò sino alla grande rivoluzione del 1789 .
Il colossale conflitto tra la riforma e la controriforma si risolse così nell'Europa occidentale con la sconfitta del campione della reazione, la Spagna, che ne uscì estenuata, spogliata delle sue più belle province, decaduta dal rango di grande potenza. Sulle rovine della potenza spagnola sorse l'edificio della progressiva grandezza dell'Inghilterra e dell'Olanda. Ma chi trasse il maggior profitto dalla caduta della Spagna fu la sua vecchia rivale, la Francia, la quale fu la prima ad attuare il principio della tolleranza religiosa e della subordinazione degli interessi religiosi alle esigenze ed all'interesse politico dello Stato. Chi potrebbe in ciò disconoscere un promettente avviamento verso la libertà di coscienza e di pensiero, pari a quello rappresentato nell'Europa centrale dalla pace di Westfalia che consacrò l'equiparazione e la pacifica coesistenza delle confessioni religiose? Non v'é dubbio; dalla lotta tra la riforma e la controriforma uscì il principio della libertà di coscienza e cominciò a penetrare nel diritto pubblico europeo.