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Francisco Pizarro

Questa pagina fa parte dello speciale:
La conquista spagnola delle Americhe






Era un figlio illegittimo di un distinto colonnello di fanteria, Gonzalo Pizarro Rodríguez de Aguila, detto "el largo" che, al seguito del grande condottiero spagnolo Gonzalo Fernández de Córdoba, si distinse nella campagne militari in Italia e in Navarra. La madre, tale Francisca Gonzales y Mateos, era una donna di umili origini, probabilmente una fantesca della sorella del colonnello, Beatríz Pizarro.

Nacque sicuramente a Trujillo, ma l'anno della sua nascita è incerto e i suoi molti biografi hanno proposto date contrastanti, comunque comprese tra il 1471 e il 1478, anche se la più probabile sembra il 1475.

Malgrado fosse nato al di fuori del matrimonio, Francisco venne riconosciuto dal padre e poté assumerne il nome, ma non per questo venne ammesso nella famiglia dei Pizarro e crebbe con la madre ed i parenti di questa. La sua educazione fu assai limitata e pare che non sapesse leggere e scrivere, anche se era capace di riprodurre la sua firma, come provano alcuni documenti da lui sottoscritti. Da giovane fu un contadino come la madre e i suoi parenti: un pastore di maiali, fuggito nelle Americhe, per timore della punizione conseguente alla perdita di un esemplare.

Sappiamo poco della vita di Francisco Pizarro prima del suo arrivo nelle Indie, avvenuto nel 1502 con la spedizione di Nicolás de Ovando, il nuovo governatore dell'isola di Hispaniola, anche se lo storico cinquecentesco López de Gómara parla di una sua esperienza militare in Italia, al seguito del padre e in compagnia di suo fratello Hernando.

nel 1509, alla disgraziata spedizione di Alonso de Ojeda verso Urabá nell'attuale Colombia. Nel 1513 si aggregò a Vasco Núñez de Balboa che, esplorando l'istmo di Panamá giunse fino alle coste del Pacifico. Successivamente, quando Balboa cadde in disgrazia presso le autorità spagnole, fu proprio Pizarro che provvide al suo arresto e che, per ricompensa della sua azione, venne nominato dal governatore Pedro Arias Dávila, sindaco della città di Panamá. Dal 1519 al 1523 si dedicò allo sfruttamento di alcune "encomiendas" che gli apportarono un piccolo capitale, sufficiente a vivere agiatamente, ma non adeguato alle sue ambizioni.

Nel 1522 giunse a Panamá la notizia delle immense fortune rinvenute da Hernán Cortés nelle sue spedizioni in Messico. La fortunata avventura stimolò in Pizarro il desiderio di eguagliare il suo valoroso concittadino e le sue mire si indirizzarono verso i territori meridionali, ancora inesplorati e sulla cui ricchezza circolavano svariate leggende. Erano però necessari degli ingenti capitali e una autorizzazione governativa, ma entrambi vennero trovati grazie ad una associazione con altri interessati.

La spedizione, partita nel 1524, si rivelò un vero disastro. Le coste dell'odierno Ecuador erano allora per un buon tratto selvagge e inabitate, ma gli esploratori non ne erano a conoscenza e procedettero ad una capillare ricognizione tra giungle ostili e palude malsane perdendo numerosi uomini. Quando infine decisero di rientrare a Panamá, con un nulla di fatto, dovettero affrontare l'ostilità del governatore che rinfacciò loro la scomparsa di tanti soldati. Solo la mediazione di Hernando de Luque, un sacerdote spagnolo che faceva parte degli associati, permise di ottenere la possibilità di organizzare una seconda spedizione.

La seconda spedizione non ebbe, almeno all'inizio, risultati migliori della precedente e mise a repentaglio la vita di tutti i suoi componenti perennemente in lotta con le insidie della giungla e la minaccia di morire di fame. Pizarro però si ostinò nel suo tentativo e con tredici commilitoni rifiutò di reimbarcarsi, dichiarandosi disposto a morire sul posto piuttosto che rientrare umiliato. Le preghiere di Luque e altri affiliati ottennero, infine, dal governatore il permesso di inviare un piccolo vascello, al comando del pilota Ruiz, per raccogliere quegli irriducibili, sotto, però, la condizione perentoria di cessare ogni esplorazione nel lasso di tre mesi.

Quella che doveva essere una spedizione di soccorso si rivelò invece la vera chiave di volta per la scoperta del regno degli Inca. Ruiz infatti incrociò una balsa carica di indigeni e seppe dell'esistenza di una ricca città poche leghe più a Sud. Imbarcato Pizarro, decise di veleggiare in quella direzione e pervenne effettivamente a Tumbez, la porta marittima dell'impero peruviano. Quando tornarono a Panamá, i fortunati esploratori potevano mostrare , a riprova dei loro racconti, alcuni monili d'oro, dei manufatti elaborati e alcuni lama, unitamente a dei giovani indigeni raccolti sul posto. I loro racconti parlavano di una città in pietra, ricca d'oro e segno evidente di una civiltà progredita, ma la loro fama era ormai rovinata e tutti li presero per pazzi ed invasati e nessuno, tanto meno il governatore, prese in esame l'ipotesi di procedere ad una ulteriore spedizione.

L'ostinazione era però la caratteristica principale di Pizarro e dei suoi soci e, i tre, quantunque rovinati, concepirono l'ardito proposito di chiedere aiuto direttamente alla Corona. Con un ultimo sforzo riuscirono a raggranellare, a prestito, il denaro necessario e Pizarro, a nome di tutti si imbarcò per la Spagna. Il rozzo soldato trovò a Corte un ambiente favorevole, grazie ai recenti successi di Hernan Cortes e riuscì a convincere i regnanti del possibile successo dell'impresa che era venuto a offrirsi di guidare. Era del resto una consuetudine della politica spagnola quella di incoraggiare ogni sorta di spedizione purché i suoi promotori provvedessero a finanziarla personalmente. La Corona interveniva con una ridotta partecipazione alle spese, per lo più alcuni cavalli e pochi cannoni e si riservava il quinto di ogni futuro provento. Le cariche erano offerte con generosità, cosi come le prebende future perché potevano essere esercitate e riscosse soltanto a successo avvenuto.

Pizarro ottenne così l'autorizzazione ad armare una propria spedizione impegnandosi a reclutare, a sue spese, un esercito di duecentocinquanta uomini. In cambio otteneva la carica di governatore dei futuri territori conquistati, di "alguacil major" e "adelandato" dimenticandosi di patrocinare la posizione di Almagro che veniva nominato soltanto comandante della fortezza di Tumbez. Con i suoi fratelli e poche altre decine di animosi, Pizarro era ben lungi dall'adempiere alle condizioni richieste, ma scaltro e determinato com'era salpò ugualmente dalla Spagna senza sottostare al controllo degli ufficiali governativi.

Giunto nelle Americhe dovette affrontare l'ira di Almagro che si sentiva defraudato dei suoi diritti, ma ancora una volta la diplomazia di Luque doveva aiutarlo a superare ogni divergenza ed infine, nel gennaio del 1531, una audace brigata muoveva alla volta delle terre del Sud. Si componeva di poco meno di duecento uomini e disponeva di sole tre navi, ma era animata da una forte determinazione.

L'arrivo a Tumbez fu deludente. La cittadina era stata distrutta e nulla restava della magnificenza che gli Spagnoli avevano ammirato durante la loro precedente visita. Nell'impero era in corso una guerra civile tra i fratelli Atahuallpa campione di Quito e Huascar, signore di Cuzco e Pizarro pensò di approfittarne offrendo i suoi servigi ad uno dei contendenti per inserirsi nella lotta per il potere supremo. Non era facile, però, scegliere il partito giusto perché le notizie erano contrastanti e, nell'attesa di prendere una decisione, gli Spagnoli accolsero benevolmente le ambascerie di entrambi gli avversari. La guerra civile decise per loro, perché mentre erano ancora sul litorale Atahuallpa ebbe ragione del fratello e dovette giocoforza confrontarsi con lui. Il nuovo sovrano teneva la sua Corte a Cajamarca e gli Spagnoli dovettero scalare le Ande per giungere ad incontrarlo. Giunsero in vista della città il 15 novembre del 1532 e, dall'alto del colle che la sovrastava, ebbero, per la prima volta, la visione dell'immensità delle forze che si proponevano di affrontare. Atahuallpa li attendeva con un esercito di più di trentamila uomini attendato nella pianura circostante.

Pizarro decise di esplorare le intenzioni del sovrano e inviò una ambasceria composta da suo fratello Hernando e da Hernando de Soto. I due distinti cavalieri tornarono impressionati dalla dimostrazione di forza e di disciplina delle armate peruviane, ma portarono anche la notizia del prossimo arrivo di Atahuallpa, previsto per l'indomani, nella città che, nel frattempo, gli spagnoli erano autorizzati ad occupare. Sull'incontro ufficiale e risolutivo degli spagnoli con l'Inca esistono molte versioni. Di certo sappiamo che Atahuallpa entrò nella piazza con un seguito ridotto composto da dignitari disarmati. Era tanta la fiducia dell'Inca sulla superiorità delle sue truppe, numericamente soverchianti l'avversario, che non si aspettava di essere attaccato da un drappello di nemici. Il suo esercito stazionava nei pressi e da solo incuteva rispetto e lo garantiva da ogni sorpresa, ma il sovrano non aveva fatto i conti con l'audacia degli Spagnoli.

L'attacco fu preceduto da preliminari. Il domenicano Vicente de Valverde si fece avanti da solo nella piazza, con un interprete indigeno e pretese di illustrare ad Atahuallpa i dettami della fede cristiana. Spiegò pomposamente che il suo signore, il Re di Spagna era il legittimo proprietario di quelle terre, in quanto investito dal sommo Pontefice e chiese che il sovrano del regno degli Inca si riconoscesse suo vassallo. Atahuallpa, tra il sorpreso e l'indignato, chiese da dove venissero queste pretese e il domenicano gli mostrò la Bibbia. L'inca gliela prese di mano e la guardò con attenzione, poi l'accostò all'orecchio e, non sentendo alcun suono (la parola di Dio), stizzito la gettò per terra. Il religioso devotamente la raccolse e cominciò a gridare "È l'Anticristo! È l'Anticristo!"

Pizarro non aveva nessun bisogno di essere stimolato per passare all'azione, dato che dalla sera precedente aveva preparato minuziosamente l'assalto e aveva disposto i suoi uomini al riguardo. L'azione fu talmente rapida ed inaspettata che gli inca, tra l'altro disarmati, non furono in grado di opporre alcuna resistenza e caddero, schiere su schiere, sotto i colpi micidiali dei "conquistadores". Atahuallpa venne catturato personalmente da Pizarro e trascinato all'interno di una costruzione, mentre la carneficina continuava implacabile senza che l'esercito inca, privo di ordini, accennasse ad intervenire. Quando scese l'imbrunire la tragedia era compiuta e migliaia di corpi giacevano nella piazza e nelle adiacenze a testimoniare la durezza dello scontro.

Nella speranza di salvarsi la vita, avvedutosi della cupidigia degli Spagnoli per l'oro, offrì un favoloso riscatto, in oggetti del prezioso metallo, pari a quanto poteva essere contenuto nella stanza in cui era rinchiuso fino all'altezza di una riga tracciata con il braccio teso. Secondo alcuni la stima dell'ammontare è pari a oltre 40 milioni di euro in oro e argento. Si tratta di una cifra probabilmente assai inferiore alla realtà, pur senza considerare il valore artistico dei pezzi, fusi senza rispetto per l'artigianato e l'arte incaica. Per ottenere questo risultato Atahuallpa fece spogliare i templi del suo regno da ogni oggetto prezioso, ma ciò nonostante i suoi carcerieri, rinnegando la parola data, si rifiutarono di lasciarlo in libertà ed anzi decisero di giustiziarlo. Per la verità Pizarro si oppose, per un certo tempo, a questa drastica decisione, ma infine, esortato da Valverde e dal tesoriere della Corona, Riquelme, acconsentì alla sua esecuzione.

Il 26 luglio 1533 Atahuallpa venne pertanto giustiziato, in lacrime davanti alla moglie ed i due figlioletti,nella piazza principale di Cajamarca con lo strumento della garrota. Avrebbe dovuto, secondo la sentenza di morte, essere bruciato sul rogo, ma le modalità dell'esecuzione vennero mutate in seguito alla sua conversione in extremis e conseguente battesimo. Ovviamente è tutta da considerare la spontaneità del suo passaggio alla Fede cristiana.

Pizarro, nel frattempo, ormai governatore di un vasto impero, ambiva a strutturare i territori amministrati in una forma che desse lustro all'importante carica che occupava. Cuzco era stata la capitale degli Inca, un popolo montano i cui interessi erano lontani dal mare. Gli Spagnoli, invece, legati alla madrepatria e alle altre colonie avevano necessità di un accesso all'Oceano che garantisse duraturi rapporti con gli altri compatrioti. Si decise pertanto la fondazione di una nuova capitale sulla costa e Pizarro, in persona, si dedicò alla sua costruzione. La città, fondata il 15 gennaio del 1535 ebbe il nome di Ciudad de los Reyes. Attualmente è nota con quello di Lima ed è rimasta la capitale del Perù. I territori ancora inesplorati vennero successivamente conquistati e Pizarro distribuì generosamente tra i suoi commilitoni cariche ed incombenze creando una rete di fedeli collaboratori che dovevano a lui la ricchezza acquisita.

All'improvviso scoppiò una rivolta tra gli Inca, guidata da Manco II. Egli era il governatore di Cuzco, che gli spagnoli avevano eletto per governare quella regione, in virtù dei servigi a loro resi. I soprusi subiti però dai fratelli del governatore superarono la misura e Manco progettò la vendetta. La rivolta scoppiò improvvisa e sconvolse tutto il Perù. I primi a subire l'odio degli indigeni furono i coloni spagnoli isolati che vennero trucidati a decine, ma ben presto una moltitudine in armi si presentò di fronte a Cuzco e a Lima. Le due città restarono isolate e dovettero fronteggiare un assedio lungo e prolungato. Pizarro da Lima temeva per i suoi fratelli, che tutti davano per morti e si privò di quante truppe poteva per cercare di aiutarli.

Gli Inca, però, avevano appreso le tattiche di combattimento degli europei e le colonne di soccorso furono tutte distrutte. Centinaia di Spagnoli perirono nel fondo di oscure gole schiacciati da massi fatti rotolare dall'alto, senza poter sfruttare la terribile arma dei cavalli che fino ad allora aveva fatto la differenza. Ciò nonostante gli Inca non riuscirono ad avere ragione dei due nuclei spagnoli stretti in assedio a Cuzco e a Lima. La difesa offerta dalle mura fu determinante, permettendo a pochi di opporsi a molti e, in più, il travolgente impeto della cavalleria giocò sempre una parte determinante, nelle numerose sortite che caratterizzarono il conflitto. Inoltre, come per Cortés, a favore degli spagnoli ci fu l'ostilità delle etnie ostili agli Inca.

Pizarro, che nel frattempo era stato nominato "Marchese della conquista", avrebbe potuto dedicarsi alla organizzazione dei territori sotto la sua giurisdizione, ma prima voleva renderli sicuri dalle violenze degli indigeni ribelli che compivano ancora cruente incursioni. Dapprima tentò di accordarsi con l'Inca fuggitivo, ma ogni speranza di pacificazione venne frustrata dalla reciproca sfiducia ed allora mise in atto una feroce politica di repressione.

Decisivi negli ultimi anni della vita di Pizarro furono i "Cileni". Così venivano chiamati gli spagnoli che erano stati al seguito di Diego de Almagro, un avventuriero affiliato della spedizione. Per problemi di accordi e di rivendicazioni (soprattutto nei territori vicini a Cuzco) Pizarro preferì allontanare Almagro perché non scoppiasse una guerra tra i suoi, e lo mandò alla ricerca del favoloso regno del Cile, che, secondo le storie che venivano raccontate, era ricchissimo. Se fosse riuscito nell'impresa avrebbe tenuto sotto il proprio controllo, altrimenti sarebbe tornato e avrebbe preso possesso dei teritori che gli spettavano dall'inizio.

Mentre la ribellione degli Inca guidata da Manco, stava per essere sedata definitivamente, accadde che Almagro tornò dal Cile senza risultati reclamando ovviamente Cuzco. Hernando Pizarro, fratello di Francisco, però, su ordine del re di Spagna, aveva preso possesso di quelle terre. Almagro puntò decisamente su Cuzco e catturò i propri nemici. L'intervento di Francisco permise di raggiungere un accordo: Almagro avrebbe rilasciato Hernando Pizarro, dietro giuramento di questi di tornare in Spagna, mentre il possesso di Cuzco sarebbe rimasto provvisoriamente ai "cileni" in attesa che la Corte spagnola chiarisse meglio la portata delle sue disposizioni. Ma fu Hernando che non riconobbe quello che era concordato e il 26 aprile del 1538 nella pianura di Las Salinas, nelle adiacenze di Cuzco sconfisse Almagro lo giustiziò lui stesso. Francisco si rinchiuse a Lima e fece finta di non vedere. L'ignominia di Hernando sarebbe costata oltre venti anni di prigione al suo autore, ma il governatore Francisco restò immune da ogni accusa anche se l'opinione pubblica lo ritenne il vero responsabile.

La politica di repressione attuata da Pizarro a questo punto, non colpì direttamente i "Cileni", ma nei loro confronti vennero esercitate delle misure repressive che li portarono all'esasperazione. Furono progressivamente privati di tutte le fonti di entrate e finirono ridotti sulla soglia di povertà. Fieri ed orgogliosi rifiutarono comunque di piegarsi e preferirono vivere nell'indigenza piuttosto che accettare l'elemosina di quello che ritenevano il carnefice del loro capo. L'annuncio dell'arrivo di un emissario del potere regale suscitò un comprensibile entusiasmo tra le file dei reietti, ma la loro soddisfazione fu di breve durata perché giunse la notizia che l'incaricato governativo era scomparso in mare. Tra le file dei Cileni esasperati corse invece la voce che fosse stato fatto uccidere da Pizarro e che la stessa sorte stava per toccare a tutti i suoi oppositori. I Cileni avevano venduto ogni loro bene, ma avevano conservato le spade ed ora, convinti che fosse giunta la loro ultima ora, decisero di attaccare per primi.

Il 26 luglio del 1541, in quindici o sedici si diressero verso la casa del Marchese e irruppero senza difficoltà all'interno. Pizarro che non si aspettava quell'attacco riuscì a guadagnare le sue stanze con l'intenzione di vestire la corazza e resistere in attesa di aiuto. Lo accompagnavano il fratellastro Martín de Alcantara e due paggi a cui si accodò il capitano Francisco de Chavez che rimase a guardia dell'entrata.

L'attacco fu ovviamente devastante e Pizarro venne colpito a morte, ma non morì sul colpo, ma ebbe appena il tempo di fare un segno di croce sul pavimento e di invocare il nome di Gesù prima di spirare. I Cileni si resero solo allora conto della portata della loro azione. Non era più possibile ormai tornare indietro e decisero di giocare la carta dell'insurrezione. La notizia della morte di Pizarro corse rapidamente per tutta la città seminando sgomento tra i suoi seguaci e grida di giubilo tra gli altri fedeli di Almagro.

Un maturo capitano, Juan de Rada si mise a capo dei rivoltosi, ma da veterano accorto e sagace comprese che era necessario un capo carismatico in cui si riconoscessero tutti gli insorti. Il potere fu offerto al figlio di Almagro, Diego di nome come il padre. Era un giovane di poco più di venti anni, ma il suo nome garantiva per lui e, tra acclamazioni generali, venne nominato governatore dalle tremebonde autorità regie. Pizarro venne calato in una fossa frettolosamente scavata, ma il suo corpo, si trova, attualmente a Lima, nella cattedrale, sotto l'altare maggiore.