tag:blogger.com,1999:blog-88496396989089117442024-03-14T12:55:17.145+01:00Garghi spaceIl fatto che gli uomini non imparino molto dalle lezioni della storia<br>
è l'insegnamento più importante che la storia può offrire (A. L. Huxley)Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comBlogger136125tag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-91944334934937194302011-11-12T00:54:00.001+01:002011-11-12T11:27:51.584+01:00L'evoluzione delle uniformi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1e/Velazquez-The_Surrenderof_Breda.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="262" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1e/Velazquez-The_Surrenderof_Breda.jpg" width="320" /></a></div>
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L’origine delle uniformi militari, si perde nella notte dei tempi (si pensi alle Legioni dell’Impero Romano: Roma aveva eserciti enormi, con diversi corpi e ognuno di essi indossava una propria tenuta ed un armamento particolare). Nell’antichità la presenza ed il riconoscimento delle forze che componevano gli schieramenti in battaglia, erano affidate ancora alle grandi insegne che sventolavano sul campo, recanti emblemi e colori di sovrani e di principi; orifiamma, stendardi, bandiere e vessilli, che indicavano con i loro colori la posizione degli eserciti.<br />
Ma per molto tempo l'uomo non ha avuto una tale necessità, in quanto in principio erano sufficienti le armi e la prestanza fisica di chi le portava, per identificare la figura di un combattente. Con il tempo, però, questo non soddisfaceva più determinati bisogni, venendo man mano ad essere necessario individuare i combattenti, allo scopo di avere una visione globale della situazione in campo.<br />
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Da sempre nella chiesa i monaci, ed anche il basso clero, hanno uniformità di abito, per motivi pratici o per devozione. I Templari adottano una completa tenuta bianca, candida con croce rossa, simbolo di purezza nell'assoluta devozione a Dio, al Cristo e al Suo sacrificio per l'Umanità.<br />
A questi si uniscono tanti altri Ordini e Confraternite altamente gerarchizzate ed organizzate, che cercano, in genere, la più umile uniformità, in quanto al servizio di nostro Signore Iddio, che la vanità di vesti ricche e colorate, allontana. Tutta una serie di colori negli abiti, nei mantelli, nelle croci e la loro stessa forma, consente di identificare cavalieri e sergenti, servi e preti, Gran Maestri e schiavi dei vari ordini monastico-militari. Sono vere e proprie uniformi, divise di Fede e di sacrificio.<br />
Ma con le crociate, la situazione cambia e si avverte la necessità di identificare bene i combattenti; comunque si rimane sempre nel campo dell'araldica; così una croce rossa identifica i crociati inglesi, azzurra gli italici, bianca i francesi, verde i fiamminghi. E’ una distinzione solo indicativa e mutevole; in effetti, spesso i feudatari, o anche singoli cavalieri, facevano vestire i propri armati di una vera e propria uniforme. Questo aveva diversi risvolti pratici: riconoscibilità, prestigio e di conseguenza potere, ma anche costi e, per questo, prestigio, in quanto indice di potere economico. Ma si trattava di forze molto limitate.<br />
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Le uniformi nella loro concezione attuale, fecero il loro primo apparire (pur se tale datazione a molti studiosi sembra decisamente dubbia), attorno al 1422, con l'incoronazione di Carlo VII re di Francia e l'evidente "uniformità" delle sue guardie del corpo, che indossavano sulla corazza una sorta di corsaletto o brigantina a bande verdi-rosse-bianche e pennacchi sull'elmo, nella stessa alternanza di colori. Inizialmente quindi, l'interesse per le uniformi militari, si limitava soprattutto agli aspetti coreografici, quasi che si trattasse di un fenomeno retto solo da esigenze di ordine estetico.<br />
Nella Guerra dei Trent'anni (1618-1648), l'abbigliamento dei militari dei vari eserciti in lizza, era ancora diversificato e l'unico valido segno di riconoscimento, tra i membri di un determinato reggimento o reparto, era il colore della sciarpa da portare alla vita o sulla spalla. Una forma economica, pratica e anche discretamente valida, per quello che riguardava la riconoscibilità delle proprie truppe, ma assolutamente inadeguata per molti altri versi. Comunque un notevole passo in avanti era compiuto con l'introduzione di livree a forma di stola, che andavano indossate su abiti civili.<br />
Ma l'uniforme vera è propria è cosa ben diversa, non serve solo a farsi riconoscere immediatamente. Una uniforme vuol dire anche essere parte di un'organizzazione e comunque, essere vestiti alla stessa maniera, oltre ad avere molte ricadute pratiche sulle prestazioni dei soldati, anche disciplinari, perciò non deve essere confondibile con nessun altro abito civile. Con l'uniforme si indossa una nuova pelle, che la disciplina, spesso spietata, non di rado abbietta ed ingiusta, rende impossibile togliersi di dosso.<br />
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Nel 1670 Luigi XIV decide che la Francia debba vestire le proprie truppe con un'uniforme, oltre che le classiche guardie personali di tutti i regnanti, affinché identificassero i reparti degli eserciti in campo e che questi fossero caratterizzati da una spiccata identità nazionale, che poteva manifestarsi solo attraverso le diverse uniformi indossate; tutto ciò tendeva anche a limitare le devastazioni provocate dai mercenari che combattevano al servizio dei vari feudatari: questi, infatti, al loro passaggio, depredavano il paese in cui si trovavano, disseminando morte e devastazione.<br />
In realtà questi Stati sono poveri ed approssimativi come strutture; in essi è del tutto assente il concetto di servizio del Popolo e della Nazione; prevale l'orgoglio e la rapacità di classe ed individuale, di monarchi, nobili e grandi mercanti.<br />
Ma l’inizio della storia dell’uniforme militare, a buona ragione, può essere collocata in Francia sul finire del secolo XVII, con la duplice esigenza di identificare gli eserciti amici e nemici, distinguendone i vari reparti ed agevolando così le manovre delle proprie truppe.<br />
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Assertori di queste nuove dottrine militari, furono strateghi e soldati passati alla storia, primi fra tutti il grande generale sabaudo principe Eugenio di Savoia (Parigi, 18 ottobre 1663 - Vienna, 21 aprile 1736), oltre a Raimondo Montecuccoli, il Gran Condé, il Turenna, John Churcill 1° duca di Marlborough, Gustavo Adolfo di Svezia ed altri.<br />
Il re svedese Gustavo Adolfo, allo scopo di creare un esercito ben disciplinato e regolarmente pagato, con delle distinzioni d'immediato impatto visivo, che non fosse temuto dai civili come una banda di briganti, introdusse la prima uniforme militare. Poi, nel 1670, Luigi XIV ordinò uniformi omogenee per le parate delle sue truppe, il cui colore, materiale e taglio dei vestiti, numero dei bottoni, insegne e guarnizioni furono prescritte con esattezza.<br />
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Per volere del Re Sole, infatti, furono emanate le prime norme che disciplinavano la materia. Questa volontà venne espressa con la pubblicazione di alcune ordinanze e fra il 1674 ed il 1690, per opera del Louvois, ministro della guerra di Luigi XIV, veniva stabilito il colore base del giustacorpo - indumento usato anche dai civili - ed i colori per ogni reggimento; nonché la foggia dell'abito stesso, l'introduzione specifica delle varie buffetterie e dell'equipaggiamento militare in genere. Sommariamente possiamo dire che i colori della nazioni belligeranti dell' epoca vennero standardizzati, infatti il blu venne adottato dalle truppe reali francesi, dalle guardie del Duca Vittorio Amedeo II, così come dalle truppe tedesche; i reggimenti irlandesi, inglesi e alcune formazioni spagnole adottarono vestiti rossi; le truppe svizzere erano solite vestire con abiti blu o rossi; i reggimenti nazionali di grigio. La differenza consisteva nel colore diverso dei paramani, dei pantaloni o dei calzetti, la disposizione delle tasche del giustacorpo e l' orlo alle falde del cappello; che però in molti casi era identico tra i diversi ed opposti schieramenti. Nonostante questi "inconvenienti" l'uso distintivo dei colori per i vari reggimenti, si rivelò il primo metodo efficace sul campo di battaglia per distinguere ed individuare le proprie truppe.</div>
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Il motivo di questa nuova problematica va ricercato sui campi di battaglia dell' epoca, dove il denso e stazionante fumo, prodotto dell'impiego ormai consolidato e sempre più massiccio delle armi da fuoco, diminuivano la visione delle scontro fra le armate ed impedivano agli stessi comandanti di osservarlo in modo nitido e chiaro. Occorreva un sistema per individuare i reparti e l'adozione dei colori distintivi fu la soluzione ideale. Nonostante le modifiche e gli accorgimenti poc'anzi nominati, l'abito militare sul finire del 1600 non differiva molto da quello civile e l'impegno e sforzi dei vai sovrani dell'epoca per uniformare le proprie truppe non sempre veniva corrisposto, Prova ne è che gli ufficiali, di qualsiasi nazione presa in esame, provenendo per la maggior parte da famiglie nobili ed illustri si sentivano autorizzati ad indossare capi di taglio civile riccamente orlati di merletti, pizzi e galloni dorati o argentati. Solo verso la metà del XVIII secolo la regolamentazione del vestiario militare subì un irrigidimento ed un controllo più attento ed oculato, in modo particolare sulle stravaganze degli ufficiali, che vennero codificate e con il reiterato obbligo di vestire l' uniforme del proprio reggimento. Per capire quanto fosse radicata l'idea in questi gradi di non essere vincolati alle disposizioni vigenti per l'esercito, basti pensare che lo stesso Carlo Emanuele III, ancora nel 1750, dovette emanare un regolamento ad uso esclusivo degli ufficiali per la regolamentazione e la disciplina dell'uniforme.</div>
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L'esperienza maturata col tempo - ma soprattutto sui campi di battaglia - fece maturare l'uso e la disciplina di un'altro importante simbolo prettamente militare: i gradi. Siamo ormai ai primi decenni del 1700 e la simbologia dei gradi venne così codificata e determinata dalla quantità e qualità dei galloni da apporre sul cappello, sui paramani, sull' abito e alle gualdrappe dei cavalli. Questa simbologia fu estesa anche ai sottufficiali, ai quali vennero assegnati, in base al grado, galloni in lana di colore giallo o bianco; in base ad una codificazione reggimentale molto più complessa, che variava da nazione a nazione. In questo periodo si può asserire che le differenze tra l'uniforme e l'abito civile sono ormai evidenti e definitive, tanto che a seguito delle già citate esperienze acquisite durante gli interminabili scontri che sconvolsero l'Europa di quegli anni, l'abito militare iniziò un' evoluzione dettata dalla praticità nei movimenti e la riduzione dei costi di approvvigionamento - considerato il numero sempre crescente di uomini in armi. Le migliorie apportate al pesante e abbondante giustacorpo, scomodo durante le marce e tanto più nei combattimenti, venne sviluppato "involontariamente" dagli stessi soldati impegnati nei conflitti, i quali presero come abitudine quella di ripiegarne le falde per avere maggiore mobilità e meno ingombro.</div>
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Nacquero così i risvolti. Il motivo economico citato poc'anzi, cioè di equipaggiare e mantenere consistenti armate sul piede di guerra, portò a ridimensionare il volume e metraggio delle uniformi; i giustacorpi vennero ridimensionati e si fecero più attillati, mentre i paramani diventarono più piccoli e meno abbondanti. Stessa sorte subirono i pantaloni, che vennero diminuiti in ampiezza e ristretti. Precursore di queste innovazioni fu all'inizio del 1700 il padre di Federico il Grande, Federico Guglielmo I - Grande Elettore di Brandeburgo. Questo, infatti, fu uno tra i primi sovrani europei a fare indossare alle proprie truppe una redingote stretta in vita e aperta sulla parte inferiore del petto. Con l'adozione di questo nuovo capo di vestiario nacquero i risvolti al petto, che altro non erano che dei prolungamenti del bordo superiore della redingote, abbottonati durante la bella stagione sia a destra che a sinistra della stessa, in modo da mettere in vista la fodera, solitamente del colore reggimentale, e chiusi durante la brutta stagione. Con questo indumento la parte anteriore del soldato era svincolata dalle ampie falde del giustacorpo di qualche decennio prima, gli arti inferiori erano finalmente liberi di muoversi con agilità e comodità.</div>
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Le falde furono limitate alla parte posteriore - formando una coda di rondine - e i risvolti vennero orlati con i colori reggimentali. Questo capo di vestiario dominò i combattimenti e gli scontri degli eserciti europei fino, e ben oltre, l'epoca napoleonica, beninteso con qualche ulteriore modifica, peraltro poco sostanzialePer quanto riguarda il copricapo, bisogna distinguere il diverso uso e, quindi, la diversa trasformazione subita durante gli anni. La fanteria calzava alla fine del 1600 un cappello a larghe falde, di foggia tipicamente civile, in alcuni casi nemmeno orlato. Anche in questo frangente le esigenze pratiche portarono ad innovazioni in merito. La necessità di portare il fucile a tracolla, durante le lunghe marce, nonché le numerose azioni per armarlo, caricarlo e sparare durante gli scontri, fecero si che le falde a poco a poco venissero rialzate e fissate e nacque il tricorno. Questo con gli anni venne dotato di una ganza, solitamente di metallo, chiusa da un bottone anch'esso di metallo e di una coccarda di colore diverso in base alla nazione. Questo copricapo venne usato per tutto il XVIII secolo e fu il precursore del bicorno. Diverso discorso fa fatto per i reparti di granatieri e guastatori, i quali già all'atto della loro costituzione adottarono un copricapo più pratico e consono alle proprie esigenze operative, cioè una berretta, quella usata solitamente nei servizi di casermaggio, che col tempo fu progressivamente abbellita dando origine a due fogge differenti: il berretto di pelo d'orso, tipico dei Francesi, Italiani, Austriaci e Inglesi; e la mitra in uso particolarmente in Russia e Prussia.</div>
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Un accessorio che col passare del tempo divenne sempre più importante, e lo è tuttora, sotto l'aspetto pratico e decorativo fu l'introduzione delle spalline. Anche la nascita di questo particolare "accessorio" fu dettato dalla praticità. Per evitare che il fucile portato appeso alla spalla, mediante cinghie di cuoio, scivolasse continuamente arrecando fastidio, disagio ed imbroglio, si pensò di cucire sulla spalla, solitamente la destra all'inizio, un pezzo di stoffa fermato da un bottone che permettesse al fante di non doversi più preoccupare dello scivolamento della propria arma. Da accessorio, le spalline, si trasformarono col tempo in un vero e proprio capo d'abbigliamento militare, regolamentato e portato con orgoglio dai soldati. Passiamo ora alle calze, di chiara provenienza civile, l'uso di questo capo serviva come protezione alle gambe ed in campo militare ebbe un uso massiccio e globale. Nel XVII E XVIII secolo il fante tipo indossava lunghe calze che arrivavano fin sotto il ginocchio e che andavano a sovrapporsi alla parte finale dei pantaloni. Le calze venivano assicurate da lacci o da giarrettiere. Col tempo, ma questa circostanza non è contemplata nel periodo a cui ci si riferisce, le calze vennero sostituite dalle ghette a protezione dei polpacci e delle caviglie , solitamente di pelle conciata di colore nero o bianco. I pantaloni, penso che a questa affermazione vi siano poche obiezioni, furono l'unico indumento che subì le minori modifiche, rimanendo quasi invariato. Le uniche variazioni furono quelle apportate per seguire la sorte degli altri capi di vestiario, cioè vennero sempre più ridimensionate e ristrette, diventando alla fine del XVIII secolo vere e proprie culottes. Il caso vuole che il colore predominante sia stato quasi sempre il bianco. Stessa sorte ebbero le scarpe, variarono solamente nella foggia, a fine secolo acquisirono una forma più tondeggiante, ma la fattura, la chiusura ed il modello fu sostanzialmente sempre quello adottato dai fanti di fine '600, inizio '700.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-68318409496594612022011-11-10T02:20:00.000+01:002011-11-10T02:20:34.705+01:00Mohandas Karamchand Gandhi<div style="text-align: justify;">
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/03/MKGandhi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/03/MKGandhi.jpg" width="264" /></a></div>
Il nome Gandhi significa "droghiere" perchè la sua famiglia dovette esercitare per un breve periodo del piccolo commercio di spezie. Nelle ultime generazioni tale famiglia ricopriva alcune cariche importanti nelle corti del kathiawar. Il padre Mohandas Kaba Gandhi era stato il primo ministro del principe rajkot. I Gandhi erano di religione vaishnava, appartenevano cioè ad una setta hindy con particolare devozione per vishnu.</div>
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Mohandas Karamchand Gandhi tra i dieci e i diciassette anni frequentò la "high school" del kathiawar. Compiuti tredici anni, dopo due precedenti fidanzamenti sfumati per la morte precoce delle fanciulle prescelte dai suoi genitori, e da lui neppure conosciute, venne sposato ad una sua coetanea. All'età di trentasette anni, d'accordo con la moglie, decise di prendere il voto di castità, andando contro ai principi della sua religione. Ebbe un periodo di crisi , in cui egli credette di esser ateo, che si risolse con una confessione scritta al padre. Terminata la "High school" andò al college, dove seguì alcuni corsi, ma senza profitto. Così il 4 Settembre 1888 Gandhi si imbarcò a Bombay per raggiungere Londra, dove cercò di inserirsi nella società, diventando un gentleman, purtroppo senza i risultati che si era preposto. Perso l'interesse per la società londinese, egli si dedicò alla lettura di vari testi, anche di altre religioni, dai quali capisce che la rinuncia a la forma più alta di religiosità che un uomo possa esprimere. I tre anni trascorsi a Londra da Gandhi furono per lui di lenta ed inconscia maturazione. Ottenuta l'abilitazione alla professione legale, scopo della sua vita a Londra, nel 1891 ritornò in India. A Bombay lo attendevano delle cattive nuove: la madre era morta da qualche mese, e la professione che lui esercitava non rendeva abbastanza per sdebitarsi con i fratelli che avevano sostenuto le spese per i suoi studi. Spinto dalle suddette ragioni, decise di partire per il Sud Africa per sbrigare un complicato affare legale per conto di una casa di commercio indiana, in modo da estinguere una buona parte del debito contratto con i fratelli. Arrivato in Sud Africa ebbe subito le prime esperienze personali, sul treno che doveva portarlo a destinazione, benchè munito di biglietto, venne allontanato dallo compartimento di prima classe perchè riservato ai bianchi. A Johannesburg a causa della sua natura, Gandhi non trovava albergo. Queste umiliazioni da lui subite non erano dirette soltanto a lui, ma a tutti i suoi simili. Spinto da un forte orgoglio convocò una riunione con la colonia indiana d'Africa, per far sì che tale gente fosse accettata dalla collettività, esorta i commercianti ad essere il più onesti possibile, ad avere più cura della pulizia personale e a dimenticare le differenze di casta. Si offre per impartire lezioni di inglese gratuitamente, in modo da istruire gente poco colta. Successivamente prende contatto con le autorità ferroviarie con le quali raggiunge un patto per cui gli indiani, ben vestiti ed ordinati, potranno usufruire del servizio ferroviario di prima o seconda classe. Dopo un anno di permanenza in Sud Africa, ed ormai risolta la questione legale per cui vi si era recato egli decide di reimbarcarsi per tornare in India, ma la gente che aveva conosciuto lo esorta a restare ancora per almeno un mese in modo da far da guida per gli analfabeti di colore; egli accetta pur non sapendo che quel mese diventeranno poi vent'anni. </div>
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Nel maggio 1894 fonda il "Natal indian congress" una associazione per la difesa degli interessi indiani nell'unione sudafricana. Nel 1896 torna in India per cercare appoggi alle sue teorie. Al suo ritorno in Sudafrica viene aggredito e malmenato e sfugge a stento al linciaggio. Durante la guerra boera organizza un corpo volontario per assistere i feriti; finita la guerra scoppia a Johannesburg una epidemia di peste ed egli si prodiga per assistere i colpiti, esponendo con gioia la vita per i suoi persecutori. Nel 1904 sull'esempio di Tolstoj fonda a Phoenix, nei pressi di Durban, una colonia agricola, dove trasferisce la tipografia del giornale "Indian Opinion" fondato sempre nello stesso anno : in essa Gandhi riserva per se i lavori più umili e faticosi. In questa colonia egli divide il terreno in appezzamenti di poco più di un ettaro, e vi insedia i suoi compagni di lotta; la regola della comunità è che ognuno deve guadagnarsi la vita con il lavoro dei campi. Durante la guerra degli zulu, scoppiata in quel periodo, e dove Gandhi si presenta con un corpo di ambulanza volontario che cura, e soccorre bianchi e neri, compie su di si esperimenti di una pratica che diverrà poi familiare e cara: il digiuno, come mezzo di purificazione e di autodominio. Comincia da qui la satyagraha, ovvero la forza della verità, che diverrà l'arma dei deboli; basato su idee che Gandhi enunciò in un solenne comizio tenuto il 10 Settembre 1906. Nell'agosto dello stesso anno il governo obbligò tutti gli asiatici a munirsi di scheda di identità, a fornire le impronte digitali e a sottostare ad altre umilianti misure di polizia che li ponevano a livello di comuni criminali. Gandhi consigliò ai satyagrahi di rifiutare di farsi schedare: se multati, non dovevano pagare l'ammenda, se processati dovevano deliberatamente dichiarare di aver violato le leggi ed andare in carcere senza opporre resistenza. <br />
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Facendo così in breve le prigioni del Transvaal furono piene. Nel 1907 fu arrestato anche Gandhi, che ricevette l'intimazione di lasciare il paese entro 48 ore; avendo disobbedito fu processato e chiese al giudice di accusarlo in modo tale da avere una pena superiore ai suoi compagni. Nel 1914 finalmente il satyagraha prevalse sulla forza delle armi e delle leggi. Gandhi potè ritornare finalmente nella sua patria che ormai gli era divenuta straniera; ma prima volle trascorrere qualche settimana in Inghilterra la quale aveva appena dichiarato guerra alla Germania. Anche qui Gandhi non perse l'occasione per mettere in pratica le sue teorie, ed organizzò subito un corpo di volontari indiani residenti in Inghilterra per curare gli inglesi feriti. La fatica ed il freddo lo fanno ammalare di pleurite così, avendo bisogno di un clima caldo come quello dell'India per curarsi, il 9 gennaio 1915 Gandhi sbarca a Bombay. Anche qui le occasioni per manifestare le idee della non violenza e della disobbedienza civile non mancarono affatto, infatti il 30 marzo 1919 ebbe inizio, a Delhi, la prima grande campagna di satyaghara su scala nazionale per protestare contro le misure restrittive che gli inglesi imponevano sulla libert` personale degli indiani, e che intendevano mantenere anche dopo la guerra. Gli aderenti furono invitati a firmare una formale dichiarazione redatta dallo stesso Gandhi, in cui si impegnavano a "disobbedire" nel caso in cui queste leggi venissero applicate. Successivamente Gandhi assunse la direzione di un settimanale in lingua inglese "YOUNG INDIA" e di un mensile, lo "NAVAJIVAN", per diffondere le sue idee. Nel novembre 1921 Gandhi vene condannato a trascorrere 2 anni di carcere per avere ripreso i moti della non violenza contro il governo inglese. Quando venne rilasciato la situazione politica era profondamente mutata, e il movimento di non collaborazione aveva perduto ogni vigore. Gandhi propose una nuova campagna di disobbedienza civile basata sulla legge del monopolio del sale che incideva negativamente sopratutto sui poveri. La mattina del 12 marzo 1930 seguito da degli studenti si diresse, a piedi, verso la costa per fabbricare qualche grammo di sale in spregio al monopolio.</div>
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Per ogni villaggio in cui egli passava si aggiungeva sempre più gente, per lo più contadini. Il 5 aprile Gandhi raggiunse il mare a Danni dove in mezzo ad una folla che lo acclamava raccolse qualche grammo di sale; da qui iniziarono i moti del sale: i contadini non pagarono più l'imposta terriera; il boicottaggio dei tessuti stranieri divenne generale: i funzionari legislativi furono colpiti da ostracismo. I negozianti si rifiutavano di vendere i loro generi più necessari. I tribunali divennero deserti. Gli inglesi cercarono dapprima di reagire facendo caricare i dimostranti dalla polizia e arrestare i violati della legge. Gandhi fu arrestato e la direzione della campagna fu assunta dalla moglie, ma venne arrestata anch'essa; succedettero a quest'ultima molti altri capi ma vennero tutti arrestati ed in poco tempo le prigioni furono di nuovo piene. Il 25 gennaio 1931 Gandhi ed altri membri dell'esecutivo del congresso vennero liberati senza condizioni; e al termine di una serie di colloqui tra il Vicerè e Gandhi, nel febbraio-marzo 1931 fu raggiunto un accordo definito " patto Irwin-Gandhi " per cui il Governo britannico modificava le leggi sul monopolio del sale, liberava i detenuti politici e revocava le ordinanze speciali ed i procedimenti pendenti ed il Congresso in cambio accettava di partecipare alla Conferenza della "Tavola Rotonda", nella quale fu raggiunto un vago accordo sulle linee generali della nuova costituzione. Con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale Gandhi riprese i contatti con il movimento indipendentista, per dichiarare così allo scoppio della guerra l'India come paese che condannava il nazismo e il fascismo e come paese che non si sarebbe mai alleato ad una guerra mirante alla difesa dello status quo, avrebbe collaborato alla difesa della democrazia se questa sarebbe stata applicata anche all'India. Nell'agosto 1940 il governo Churchill, dopo il crollo della Francia oppose la richiesta di un trasferimento immediato dei poteri ad un governo provvisorio indiano. Non avendo ottenuto ciò che voleva, Gandhi riprese la disobbedienza civile. Questa situazione era molto delicata per il governo britannico che non poteva affrontare anche il problema dell'India visto che la maggior parte delle forze erano impegnate nel conflitto mondiale. Nessun tentativo di riprendere colloquio fu tentato fino alla fine della guerra, intanto la moglie di Gandhi morì in carcere dopo un digiuno di protesta. <br />
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La svolta decisiva si ebbe nel 1945 quando i musulmani esposero le loro tesi nelle quali essi auspicavano la creazione di uno stato musulmano separato, formato con le province in maggioranza musulmane. Queste tesi prevalsero e il 15 agosto 1947 l'India si spaccò in due Stati distinti: il Pakistan e L'Unione Indiana. Per definire i confini vennero istituite due commissioni miste ma che stentavano a raggiungere un accordo. Questa situazione tesa e complicata scatenò una guerra tra musulmani ed hindy che alla fine di quel fatale 1947 causò circa un milione di morti e circa 5 milioni di profughi. In questa situazione Gandhi ormai vecchio e solo, lottò con tutte le sue forze, pure quando l'India divenne indipendente, rischiando anche di morire di fame, ma riuscendo a portare la calma almeno a Calcutta. Si recò di nuovo a Delhi, dove le violenze degli estremisti hindy erano molto più accese; qui egli si recava ogni sera per pregare all'aperto, in quiete, ma la sera del 30 Gennaio 1948 un giovane fanatico militante lo seguì e lo uccise con colpi di pistola a ripetizione. Così si chiudeva la vita di Gandhi all'età di 78 anni dopo aver lottato per tutta la vita per affermare un ideale di non violenza e di amore, ed era caduto vittima di quelle stesse passioni che aveva cercato di esorcizzare. </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-84307536271034299522011-11-10T02:15:00.003+01:002011-11-12T01:01:56.315+01:00Nelson Mandela<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.julienews.it/upload/photogallery/413/4410.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://www.julienews.it/upload/photogallery/413/4410.jpg" width="230" /></a></div>
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Era decisamente diverso il Sud Africa dei primi anni del secolo quando a Mvezo, un piccolo villaggio sulle rive del fiume Mbashe nel Transkei, nacque Rolihlahla, "porta guai" nel linguaggio Xhosa, Nelson Mandela, per l'anagrafe bianca. </div>
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Era il 18 luglio 1918. Si erano appena spenti gli echi della Prima Guerra Mondiale. A Versailles, alla conferenza di pace, era stata invitata anche una delegazione dell'Anc, African National Congress, per dare voce alle lamentele della popolazione nera del Sud Africa. Ma Mvezo era lontano anni luce dai grandi eventi che facevano la storia del mondo. Situato a 1200 chilometri a est di Città del Capo, 800 chilometri a sud di Johannesburg, era uno dei centri della popolazione Thembu, parte della nazione Xhosa. Il padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, era il capo del villaggio, per eredità. La conferma del ruolo veniva dal Re della tribù Thembu, ma necessitava della ratifica del governo. </div>
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Quando Nelson era ancora un bambino, il papà perse il titolo di capo di Mvezo. Alla convocazione del magistrato locale per una questione riguardante un bue, egli aveva risposto con questo messaggio: "Non verrò, mi sto preparando a lottare", facendo emergere così quella testardaggine e quel coraggio che sarebbero stati tipici anche del figlio Nelson. Questo atto di ribellione, accompagnato dalla ferma convinzione che sulle questioni tribali prevaleva il "diritto thembu" a quello inglese, portò alla sua deposizione. In poco tempo perse il suo titolo e gran parte delle sue terre. Fu così che la madre di Nelson decise di trasferirsi con il figlio a Qunu, a nord di Mvezo, dove c'erano amici e parenti che avrebbero potuto dare una mano alla famiglia Mandela e dove il piccolo Nelson passò alcuni tra i più bei anni della sua infanzia, preso in consegna dalla famiglia reale. Ma fu a Qunu che Nelson, quando aveva solo 9 anni, perse il papà, morto per una grave malattia ai polmoni. Il piccolo crebbe con due punti di riferimento ben precisi: il capo tribù e la Chiesa. </div>
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Al futuro leader della lotta all'apartheid le due cose sembravano perfettamente compatibili. C'era in lui una forte ammirazione per il lavoro missionario fatto dai prelati in Africa, mentre lo stretto contatto che ebbe con la leadership del popolo Thembu lo spinse ad interessarsi alla storia del popolo africano. Ma l'impostazione degli studi era tipicamente britannica e anche Nelson, come tutti i sudafricani, si formò sulla storia della Gran Bretagna e sulla letteratura inglese. La presa di coscienza della situazione di inferiorità del popolo nero sarebbe stato un processo lento e sviluppatosi negli anni.</div>
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L'età di sedici anni segnò due tappe fondamentali della vita di Nelson Mandela. Come voleva la tradizione Thembu, fu circonciso. Dopo la dolorosa cerimonia, venne deciso il suo futuro. Mentre tutti i suoi coetanei erano destinati al lavoro nelle miniere d'oro lungo il Reef, per lui era prescritto un futuro da consigliere del re. Venne così mandato a istruirsi al Clarkebury Boarding Institute nel distretto di Engcobo. Il Clarkebury era allora il più importante istituto per la formazione degli Africani nel Thembuland. Fu il primo contatto di Nelson con il mondo esterno e con i bianchi. L'inserimento non fu difficile. La scuola imponeva una certa disciplina, quasi militare. Ma Mandela si seppe adattare bene a quelle regole e si distinse sia nello studio che nello sport. </div>
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Nel 1937, all'età di 19 anni, Nelson si iscrisse a Healdtown, al Wesleyan College di Fort Beaufort, 300 chilometri a sud ovest di Umtata. Rinomatissimo istituto, anche qui le regole erano ferree ma Mandela non ebbe grossi problemi ad adattarvisi. Nell'ultimo anno a Healdtown il grande poeta Xhosa Krune Mqhayi visitò il college. Mqhayi era un imbongi, una sorta di cantastorie. Fece una grande sensazione tra gli studenti, bianchi e negri che fossero, quando dalla porta dell'aula magna dove di solito compariva l'arcigno Dr. Wellington, rettore a Healdtown, spuntò un nero, vestito di un kaross (tipico vestito Xhosa) di pelle di leopardo e una lancia in mano. Era come se l'universo si fosse capovolto. Un nero entrava dalla stanza del rettore e poi saliva sul palco dell'aula magna a tenere una conferenza! L'impatto che questo evento ebbe su Mandela e sugli altri studenti neri fu enorme. Ma anche ciò che disse Mqhayi fu importante: "...vi sto parlando della brutale sfida tra ciò che è indigeno e buono e ciò che è straniero e cattivo. Non possiamo permettere che questi stranieri che non si preoccupano della nostra cultura si impadroniscano della nostra nazione. Predico che un giorno le forze della società africana vinceranno l'intruso. Per troppo tempo abbiamo ceduto di fronte ai falsi beni dell'uomo bianco".</div>
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Uscì dall'aula con una gran confusione in testa. Come fu possibile che quel poeta nero avesse potuto dire certe cose davanti a un impassibile Mr. Wellington? Ma non era stato troppo nazionalista Mqhayi, troppo filo Xhosa e poco incline alla creazione di una società multirazziale? Un altra scuola intanto aspettava Nelson. Era l'Università di Fort Hare ad Alice, poco lontano da Healdtown, il più importante ateneo per neri in Sud Africa.</div>
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Se c'è una cosa che Nelson non ha mai accettato è quella di farsi incatenare dalle tradizioni, dalle consuetudini, dallo stato di fatto. Se Mandela riteneva una cosa ingiusta faceva di tutto per cambiarla, non la subiva passivamente. Fu questo spirito ribelle a spingerlo a lottare contro il sistema dell'apartheid. Ma prima ancora di prendere coscienza della situazione dei neri e di iniziare la lotta contro l'uomo bianco, Nelson attaccò le tradizioni del suo popolo. Successe quando il re Thembu scelse, come voleva appunto la tradizione, le future mogli per Mandela e per il suo amico d'infanzia, Justice. I due ragazzi ritennero la cosa inaccettabile e decisero di fuggire. Andarono a Johannesburg, la città della luce, dell'elettricità, dei grattaceli, della ricchezza, delle grandi occasioni. Per attraversare le varie regioni del Sud Africa i neri dovevano possedere un pass. Loro non ce l'avevano ma riuscirono in modo avventuroso ad aggirare l'ostacolo. </div>
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Ora erano soli in una grande metropoli. Nelson non aveva mai visto in vita sua così tante automobili nello stesso momento. Spaesato, cominciò a lavorare presso una miniera d'oro a Crown Mines.</div>
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Il suo e quello di Justice erano lavori d'ufficio, ma potevano comunque vedere i negri quasi schiavizzati lavorare in condizioni pietose nella miniera. In seguito Nelson riprese gli studi e per poterseli pagare cominciò a lavorare come praticante in qualche studio legale. L'ambiente di lavoro e la città di Johannesburg furono per Nelson un mix esplosivo che diede vita al freedom fighter, il combattente che avrebbe vinto il potere bianco. Non ci fu un momento particolare in cui Nelson decise di fare politica. Ci capitò quasi per caso, mentre prendeva coscienza che la vita dei neri era in mano ai bianchi. Decisivo comunque fu l'incontro con Walter Sisulu, esponente di spicco della Anc, che poi finì con l'ospitarlo per mesi nella propria casa. Fu così che a Pasqua del 1944 Mandela e altri praticanti, quasi tutti provenienti dall'Università di Fort Hare, decisero di fondare la Lega giovanile della Anc (Youth League). Tra i nomi di spicco figuravano Anton Lembede e Oliver Tambo. </div>
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Il 1946 fu l'anno del grande sciopero nelle miniere. Lungo il fiume Reef i neri lavoravano in condizioni difficili percependo un salario da fame di soli due scellini al giorno. Decisero quindi di scioperare. Erano in 70.000, chiedevano dieci scellini al giorno e una casa. La risposta del governo fu dura. I leaders della protesta furono arrestati (J.B. Marks, Dan Tloome, Gaur Radebe), gli uffici del Amvu (African Mine Workers' Union), il sindacato, saccheggiati. La polizia intervenne con il pugno di ferro durante una dimostrazione e uccise dodici manifestanti. Lo sciopero durò una settimana, ma questa partita la vinse ancora il governo. Sempre nel 1946 il governo di Smuts emanò l'Asiatic Land Tenure Act, altrimenti conosciuto come Ghetto Act, che circoscrisse l'area entro la quale i cittadini di origine indiana potevano risiedere e lavorare.</div>
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La protesta della comunità indiana fu massiccia. Per due anni vennero occupate terre dei bianchi, ci furono picchetti, manifestazioni, disobbedienza civile. Più di 2000 volontari andarono in galera. La Anc, che diede il suo appoggio alla causa degli indiani, rimase sorpresa e ammirata dalla grande organizzazione degli asiatici.</div>
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"I negri al loro posto", "Gli indiani fuori dal paese", "Attenti al pericolo negro". Erano questi gli slogan del National Party di Daniel Malan durante la campagna elettorale del 1948. Il partito nazionalista durante la seconda guerra mondiale aveva esplicitamente criticato la scelta dello United Party, allora al potere, di schierarsi a fianco degli Alleati, mostrando una chiara simpatia per i nazisti. Seppure non votassero, i negri non potevano non appoggiare il partito di Smuts, che non era certo amico loro, ma che sicuramente era meno pericoloso del National Party. Avrebbe però vinto quest'ultimo. </div>
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Malan cominciò così a costruire l'apartheid, che non era altro che la sanzione de jure di una situazione di discriminazione che già esisteva. Malan l'avrebbe semplicemente resa più efficiente e più crudele. Il partito di Malan fece subito capire di che pasta era fatto con tre significative leggi nei primi tre anni di governo: il Suppression of Communism Act, che vietava la costituzione del partito comunista; il Population Registration Act, che classificava i sudafricani a seconda della razza; e il Group Areas Act, che recludeva le varie razze nelle loro zone di appartenenza. La risposta all'apartheid fu immediata e vide uniti nella lotta neri, colored e indiani. Mandela, fortemente nazionalista, non era d'accordo. Voleva che gli Africani conducessero una battaglia per conto loro. Ma se ne fece una ragione.</div>
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Iniziò la cosiddetta Defiance Campaign (campagna di disobbedienza). Solo il primo giorno più di 250 volontari violarono sistematicamente le leggi considerate ingiuste. Nei successivi cinque mesi 8500 persone presero parte alla protesta all'urlo di "Hey Malan, apri le porte delle prigioni. Vogliamo entrare". La campagna fu un grande successo che preoccupò non poco il governo. Malan vedeva nella Defiance campaign non una semplice protesta, ma una vera e propria minaccia al potere bianco e queste azioni venivano viste come un reato. Fu così che nel 1953 passò la Public Safety Act, che diede al governo il potere di decretare la legge marziale e di arrestare persone senza processo e la Criminal Laws Amendment Act, che autorizzava punizioni corporali per i manifestanti. Nell'ottobre dello stesso anno J.B. Marks fu "bandito" in quanto comunista. Mandela divenne così il nuovo presidente della Lega giovanile della Anc. Nel frattempo si istituì il processo contro i leaders della Defiance Campaign. Una folla di dimostranti seguì attentamente il dibattimento e diede il suo apporto alla causa. Ma i leaders, compreso Mandela, furono condannati a 9 mesi di prigione (sentenza sospesa per due anni) per comunismo, anche se ben pochi di loro professavano quella fede.</div>
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ALTO TRADIMENTO - Nel 1952 il peso di Nelson Mandela nell'organigramma della Anc crebbe ulteriormente. Con l'elezione alla presidenza di Albert Luthuli, Nelson divenne uno dei vice presidenti. Ma al di là di quelle che erano le cariche formali all'interno del movimento anti-apartheid, Nelson Mandela per carisma, coraggio, capacità di leadership cominciò lentamente a divenire il simbolo della Anc. Il Congresso del Popolo convocato dalla Anc e dai gruppi indiani e colored nel 1955 fu decisivo non solo perchè portò alla formulazione del Freedom Charter, il manifesto per un Sudafrica libero e interrazziale, ma determinò la più prevedibile e prevista delle risposte da parte del governo: la messa al bando dell'African National Congress. Il gruppo lo sapeva e già si stava preparando alla clandestinità, una condizione che per forza di cose sconvolse anche la vita di Nelson Mandela.</div>
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Cominciava ad essere seguito dalla polizia, interrogato, scrutato. Il "grande fratello bianco" non lo perdeva certo d'occhio. Fino alla notte del 5 dicembre 1956. Bussarono alla porta con violenza. Nelson capì subito che non si trattava di amici. Alla porta c'era l'ufficiale della polizia Rousseau accompagnato da due agenti. Perquisirono la casa, seguiti dagli sguardi spaventati dei bambini, i figli avuti dalla prima moglie, Evelyn. Poi Rousseau disse: "Mandela, abbiamo un mandato d'arresto per te. Seguimi". L'imputazione: alto tradimento. Fu portato in centro a Johannesburg, alla prigione di Marshall. Lì ci trovo molti dei suoi compagni. In totale gli arrestati furono 156. Quasi tutta la leadership della Anc fu messa in cella. Il folto gruppo fu trasferito al Fort per due settimane, poi al Drill Hall, dove si svolse l'udienza preliminare di quello che divenne famoso come il Treason Trial (processo per tradimento). Una massa di simpatizzanti bloccarono per ore Twist Street facendo sentire la loro solidarietà agli arrestati. L'accusa era di alto tradimento e cospirazione con l'uso della violenza per rovesciare il governo e sostituirlo con un regime comunista. La pena per l'alto tradimento era la morte. Iniziò un lungo dibattimento, che attirò l'attenzione del paese. Solo nell'agosto del 1958 iniziò la prima vera udienza. Il giorno di Nelson Mandela giunse il 3 agosto, tre anni e 8 mesi dopo il primo arresto. Era il suo turno in qualità di testimone. Il suo fu un grande intervento, nel quale emerse tutta la saggezza e la moderazione di un vero capo.</div>
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Mandela non spaventò il nemico con minacciosi discorsi vendicativi né tantomeno inneggiando al comunismo. Nelson spiegò il perché della disobbedienza civile e degli scioperi. La Anc voleva il dialogo con il governo. Avrebbe accettato anche una fase di transizione, con un lento e graduale ingresso dei neri nelle istituzioni, in modo da salvaguardare le conquiste e i diritti della comunità bianca. Fece seguito un appello alle democrazie occidentali, affinchè si accorgessero della battaglia della Anc. Fu un discorso alto e civile, una vera lezione.</div>
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C'era una folle strabocchevole il 29 marzo 1961 quando il giudice Rumpff lesse la sentenza: sì, l'African National Congress aveva operato per sostituire il governo con una radicalmente e fondamentalmente differente forma di stato; sì, l'African National Congress aveva usato mezzi illegali di protesta durante la Defiance Campaign; sì, alcuni leaders della Anc avevano, nei loro discorsi, incitato alla violenza; sì, c'era stata un'ala di estrema sinistra nella Anc che aveva rivelato la sua anima anti capitalista. Il patibolo sembrava ormai vicino. Ma il giudice Rumpff concluse: "L'accusa non è riuscita a provare che la Anc fosse un'organizzazione comunista nè che la Freedom Charter prospettasse una sociertà comunista". Dopo quaranta minuti di discorso la conclusione fu: non colpevoli!</div>
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Il verdetto scatenò la gioia nei ghetti neri e nelle famiglie dei leaders della Anc. Ma Mandela sapeva che il governo avrebbe potuto colpire ancora. Trascorse una notte insonne a Johannesburg, svegliandosi di soprassalto ogni qualvolta sentiva un rumore insolito. L'organizzazione doveva darsi una struttura clandestina per far fronte al bando del governo. La sentenza aveva salvato Mandela e gli altri da una condanna a morte, ma la situazione politica non era cambiata poi molto. Mandela cominciò a vivere di notte. Viaggiava dopo il tramonto, si rifugiava in casa di amici dove organizzava incontri clandestini con i compagni della Anc, girava il Paese per tenere le fila di un movimento che non voleva arrendersi. Fu battezzato il "Black Pimpernel", dal nome di un personaggio della letteratura che evitò la cattura durante la Rivoluzione Francese. Non c'era poliziotto in tutto il Sud Africa che non desiderasse di essere "colui che aveva catturato il Black Pimpernel". </div>
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La vita di Mandela era appesa ad un filo. Ogni angolo di una via, ogni casa, ogni incontro poteva essere quello fatale. Un pomeriggio si trovava a Johannesburg vestito da operaio, uno dei suoi mille travestimenti da film per sfuggire alla cattura. Stava aspettando all'angolo della strada che lo passassero a prendere, quando vide un poliziotto nero venirgli incontro, con decisione. Si guardò attorno in cerca di una via d'uscita, ma era troppo tardi, l'agente era ormai troppo vicino. Era spacciato. Il poliziotto lo guardò in faccia e sorrise, mostrandogli il pollice, il saluto della Anc. Episodi come questo riempivano il cuore di speranza. I giorni della clandestinità furono anche caratterizzati da due scelte sofferte da parte di Mandela. La prima fu quella, resa quasi inevitabile dalle condizioni della lotta all'apartheid, di fondare la struttura militare della Anc, la Umkhonto we Sizwe, la Spada della Nazione. Era una struttura flessibile, composta di pochi, fidati uomini. I primi attentati non intendevano essere che dimostrativi. Si voleva evitare a tutti i costi di spargere sangue innocente. C'era comunque bisogno di un addestramento militare e di armi. E fu per questo che Mandela, ormai uomo simbolo della Anc, dovette rinunciare al voto che aveva fatto di lottare senza lasciare il proprio Paese e intraprese un lungo viaggio in visita da tutti i grandi leaders africani in cerca di un sostegno logistico e finanaziario. Ormai era diventato un leader mondiale. Ma sarebbe tornato presto a casa.</div>
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Quando attraversò il confine per rientrare in Sud Africa respirò a fondo. L'aria di casa è sempre più dolce. Era una chiara notte invernale. Stava lasciando un mondo libero per tornare in quello dove era costretto a fuggire, ma era comunque felice. Quella era comunque la sua casa. Ma la sua libertà sarebbe durata troppo poco. Era notte. Stava attraversando in auto Howick, 48 chilometri a nord ovest da Pietermaritzburg, quando una Ford lo affiancò intimandogli di fermarsi. Altre due auto seguivano. Fu arrestato. Iniziò il Rivonia Trial, l'ultimo processo a cui fu sottoposto. Mandela si difese da solo e concluse con una strepitosa arringa. Tra le altre cose, disse: "Sono pronto a pagare la pena anche se so quanto triste e disperata sia la situazione per un africano in un carcere di questo paese. Sono stato in queste prigioni e so quanto forte sia la discriminazione, anche dietro le mura di una prigione, contro gli africani...In ogni caso queste considerazioni non distoglieranno me né altri come me dal sentiero che ho intrapreso. Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l'apice delle proprie aspirazioni. Niente può distogliere loro da questa meta. Più potente della paura per le terribili condizioni della prigione è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigione, in questo paese...non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza a che i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa corte sono i membri del governo". La sentenza era quella prevista: tre anni per incitamento allo sciopero e due per aver lasciato il paese senza passaporto.</div>
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Iniziò il calvario nelle prigioni dello stato, mentre in un secondo processo contro i leaders della Anc Mandela ricevette l'ergastolo e fu trasferito nella prigione di Robben Island, la più dura del Sud Africa, situata in un'isola al largo di Città del Capo. Furono ventotto anni pieni di amarezze e dolore. Robben Island era difficilmente raggiungibile. Winnie, la seconda moglie di Mandela, potè visitare il marito solo poche volte. I prigionieri politici erano rinchiusi in una sezione distaccata, perchè non si mischiassero con i detenuti comuni e non propagassero il virus della rivoluzione. Erano costretti a lavori umilianti. Ma riuscirono comunque a continuare la loro battaglia politica, mentre all'esterno la lotta dell'Anc non cessava. Combattere l'apartheid era diventata una parola d'ordine nel mondo. Erano cominciate anche le sanzioni economiche contro il Sud Africa. Aggiunte all'attività della Anc in esilio e all'impegno di numerosi gruppi umanitari all'estero contribuirono a esercitare una pressione sul governo di Pretoria sempre più insostenibile. Il cambiamento della situazione internazionale, con il crollo del comunismo, fece il resto. Le cose finalmente dovettero cambiare e quando il governo decise il dialogo scelse come interlocutore Nelson Mandela. Non era facile trattare con il nemico stando in prigione, tanto più senza avere contatti con il resto dell'organizzazione. Quando infatti il governo di Botha cominciò le trattative, Mandela, ormai trasferito nel carcere di Pollsmoor, fu messo in isolamento. Era così costretto a prendere delle decisioni di grande responsabilità senza potersi consultare con nessuno, con il rischio di scatenare malumori se non accuse di tradimento, qualora avesse fatto concessioni eccessive al governo. I primi contatti del governo con Mandela furono molto cauti e prudenti.</div>
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Erano i preparativi per il primo, storico incontro tra Botha e Mandela. Avvenne il 4 luglio 1989. Era un Botha sorridente e cordiale quello che strinse la mano a Mandela. Ma quei sorrisi nascondevano l'imbarazzo di un leader costretto a venire a patti con il nemico. Anche Mandela era imbarazzato e non era solo per la mancanza di abitudine ai protocolli tipici degli incontri politici di alto livello. In lui c'era un misto di rabbia, gioia, incredulità. Non gli sembrava vero di poter finalmente stringere la mano al grande nemico, di poter trattare e, entro certi limiti, dettare le condizioni. Ma non poteva dimenticare di colpo tutte le sofferenze di quegli anni. L'incontro, segretissimo, durò poco più di mezz'ora e non portò a concreti risultati ma servì per rompere il ghiaccio. Da lì in avanti si susseguirono vari summit, soprattutto con il successore di Botha, P.W. De Clerk, colui che smantellò definitivamente l'apartheid. Il resto è storia d'oggi, delle difficoltà di governare un paese difficile, di vincere i problemi di razzismo ancora esistenti, di far sviluppare economicamente anche quelle zone nere più arretrate e di difendere la minoranza bianca. Il giudizio su Mandela presidente del Sud Africa lo si darà tra qualche anno, quello di Mandela combattente per la libertà è già scritto a caratteri d'oro nel libro della storia dei grandi personaggi di questo secolo. Ci piace concludere questa sintetica biografia con le parole che chiudono "Long walk to freedom", l'autobiografia scritta dallo stesso Nelson Mandela:</div>
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"<i>Quando sono uscito di prigione, questa era la mia missione, liberare sia gli oppressi che l'oppressore. Qualcuno dice che lo scopo è stato raggiunto. Ma io so che non è questo il caso. La verità è che noi non siamo ancora liberi; abbiamo soltanto conquistato la libertà di essere liberi, il diritto a non essere oppressi. Non abbiamo ancora compiuto l'ultimo passo del nostro viaggio, ma il primo di un lungo e anche più difficile cammino. Per essere liberi non basta rompere le catene, ma vivere in un modo che rispetti e accresca la libertà degli altri. Il vero test della nostra fedeltà alla libertà è solo all'inizio. Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho compiuto passi falsi. Ma ho scoperto il segreto che dopo aver scalato una collina, si capisce che ce ne sono ancora molte altre da scalare. Mi sono preso un momento di riposo, per dare un'occhiata alla vista che mi circonda, per guardare indietro alla strada che ho fatto. Ma posso riposare solo per un momento, perché con la libertà vengono anche le responsabilità, e mi preoccupo di non indugiare, perché il mio lungo cammino non è ancora finito.</i>"<br />
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di PAOLO AVANTI </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-45940508719890986792011-11-10T01:37:00.002+01:002011-11-12T01:02:12.889+01:00Giovanna d'Arco<a href="http://www.libercogitatio.org/wp-content/uploads/image/storia/giovanna_darco_miniatura.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://www.libercogitatio.org/wp-content/uploads/image/storia/giovanna_darco_miniatura.jpg" width="211" /></a><a href="http://www.libercogitatio.org/"></a><br />
Giovanna d’Arco, la figlia più piccola di una famiglia di contadini del villaggio di Domrémy (Lorena), in Francia, nacque nel 1412, in un periodo in cui la nazione era sotto la dominazione inglese a seguito della sanguinosa Guerra dei Cent’anni.<br />
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Inoltre, la regione era stravolta da una guerra civile che vedeva gli Armagnacchi, partigiani del re, schierati contro i Borgognoni alleati degli inglesi. Uno dei fattori decisivi di questo conflitto interno era rappresentato dal controllo della città di Orléans, situata in posizione strategica sulla riva della Loira. Una sola cosa avrebbe potuto salvare la Francia e farle superare il suo periodo più oscuro… un miracolo.</div>
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Alla morte dei re Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, avvenute entrambe nel 1422, gli inglesi proclamarono Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. L’erede legittimo al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ribadendo i suoi diritti di successione al trono, ma non potè far celebrare la sua incoronazione secondo il rito ufficiale che avrebbe dovuto tenersi nella città di Reims, allora sotto il dominio inglese.</div>
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Nel frattempo, nel villaggio di Domrémy, la tredicenne Giovanna d’Arco trascorreva la sua adolescenza in preghiera. La giovinetta non solo era solita confessarsi più volte al giorno, ma spesso udiva "voci" celesti e aveva strane e sorprendenti visioni.</div>
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Sin dall’inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Delfino Carlo VII, erede legittimo al trono. Per portare a compimento quanto le era stato comandato avrebbe dovuto indossare abiti maschili, brandire le armi e condurre un esercito.</div>
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Un giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi, Giovanna scopre che gli inglesi hanno invaso il suo villaggio. Nascosta in una credenza, assiste alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati inglesi. In seguito a questo tragico evento, Giovanna viene mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino. Può sembrare alquanto improbabile che questa giovane ragazza innocente, che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né scrivere, avrebbe un giorno condotto l’esercito francese alla vittoria sulla grande potenza inglese. Eppure nel maggio del 1428, Giovanna, eliminato ogni dubbio sulla sua chiamata divina in aiuto del re, scende in campo.</div>
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Dopo aver lasciato per sempre l’unica casa che avesse mai conosciuto, Giovanna si reca a Chinon per incontrare il Delfino. In un primo momento, il re e i suoi sudditi non sanno cosa pensare delle parole di Giovanna. Informato sulle presunte "visioni" della ragazza, ma nutrendo al tempo stesso dei sospetti sulle sue intenzioni, Carlo incarica il suo migliore arciere, Jean D’Aulon, di prendere il suo posto. Arrivata al castello, Giovanna si accorge dello scambio e lo rivela apertamente, suscitando lo stupore del re che le concede un colloquio privato.</div>
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Persuaso a credere alle parole di Giovanna, Carlo la mette a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l’incoronazione. Nonostante siano molti a ritenere che la ragazza sia, nella migliore delle ipotesi, un’isterica innocua e, nella peggiore, una vera e propria minaccia non solo al trono, ma alla stessa vita del re, tutti percepiscono in lei un’aurea magica e un’irresistibile capacità di persuasione.</div>
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Giovanna d’Arco si presenta sul campo di battaglia con indosso un’armatura bianca e con un proprio vessillo. L’apparizione impressiona profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. Schierata nelle trincee al fianco dei suoi uomini, la Pulzella d’Orléans conduce alla vittoria i francesi, rinvigoriti e ispirati dal loro nuovo comandante. Ma la battaglia non è ancora finita: Giovanna d’Aarco, determinata a sferrare un altro attacco, raduna nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il valore con cui viene condotto l’attacco, gli uomini del suo esercito, già esausti, perdono ogni speranza quando la ragazza viene colpita in pieno petto da una freccia. I francesi si ritirano e si prendono cura della giovane donna ferita.</div>
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Gli eserciti di Francia continuano a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma, ben presto, alla vista della carneficina causata dai numerosi scontri, Giovanna d’Arco inizia a provare un profondo rimorso. Sopraffatta dall’entità del massacro, la Pulzella contatta gli inglesi proponendo loro di ritirarsi. </div>
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Un estratto della lettera inviata da Giovanna al re d’Inghilterra nel 1429 ce la mostra come una paladina della fede: </div>
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<i>Sovrano d’Inghilterra, rendete conto delle vostre azioni al Re dei Cieli che vi ha conferito il vostro sangue reale. Restituite le chiavi di tutte quelle care città che avete strappato alla Pulzella. Ella è stata inviata dal Signore per reclamare il sangue reale ed è pronta alla pace se le darete soddisfazione rendendo giustizia e restituendo quanto avete preso.<br />
Sovrano d’Inghilterra, se non agirete in siffatta maniera, io mi porrò a capo dell’esercito e, ovunque sul territorio di Francia trovi i vostri uomini, li costringerò a lasciare il paese, anche contro la loro stessa volontà. Se non dovessero obbedire a questo ordine, allora la Pulzella comanderà che vengano uccisi. Ella è inviata dal Signore dei Cieli per scacciarvi dalla Francia e promette solennemente che se non lascerete la Francia, ella, al comando delle truppe, solleverà un clamore quale non si è mai udito in questo paese da mille e mille anni. E confidate che il Re dei Cieli le ha conferito un potere tale da rendervi incapaci di nuocere a lei o al suo coraggioso esercito.</i></div>
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Come per miracolo l’esercito inglese si ritira. Si tratta di una vittoria sorprendente che consente l’incoronazione di Carlo a Reims.</div>
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Una volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto Giovanna, che decide di continuare a combattere. Le sue truppe, ridottesi ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, sono stanche e affamate. Aulon la informa che non soltanto Carlo ha abbandonato l’intenzione di continuare la guerra, ma sta ordendo dei piani per tradirla. Rinnovando la sua fede in Dio, la giovane si sente obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le "voci" non le ordinino altrimenti.</div>
<div style="text-align: justify;">
Contro ogni parere, la Pulzella fa volta verso Compiègne dove ha luogo una battaglia durante la quale viene fatta prigioniera dai Borgognoni, un gruppo di mercenari che sostengono gli inglesi. Venduta al suo nemico, Giovanna d’Arco si risveglia in una cella insieme alla sua Coscienza, che le appare nelle vesti di un misterioso uomo incappucciato. L’uomo incrina la volontà ferrea della giovane e le pone delle domande che la spingono a mettere in dubbio la veridicità delle sue visioni.</div>
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Abbandonata da tutti, Giovanna viene accusata di eresia e di stregoneria. Ha quindi inizio il processo per dimostrare che è una strega. Più e più volte le vengono poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica. Fra una seduta e l’altra, la giovane conferisce con la Coscienza, che critica la sua fiducia in lui e la sua ingenuità.</div>
<div style="text-align: justify;">
Giovanna ne è devastata e comincia a perdere le speranze.</div>
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Poco prima che il processo si concluda, viene chiesto alla Pulzella di rinunciare ai suoi intenti passati e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna d’Arco acconsente e viene condannata alla prigione a vita. All’ultimo momento, però, la giovane donna si rifiuta di sottomettersi al giudizio di una corte inglese. La sua decisione fa di lei un’eretica impenitente e la destina a morte certa.</div>
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Nel maggio del 1431, Giovanna d’Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.<br />
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Tratto da questo sito: <a href="http://www.libercogitatio.org/">www.libercogitatio.org</a> </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-6038784570313922212011-11-07T23:15:00.003+01:002011-11-08T12:31:34.576+01:00Charles de Batz-Castelmore d'Artagnan<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d8/D_A.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d8/D_A.jpg" width="232" /></a><div style="text-align: justify;">Era il settimo e ultimo figlio di una modesta famiglia di origine più comune che per mezzo secolo pretese di appartenere alla "gentilhommerie". Quando il giovane Charles de Batz Castelmore partì per Parigi intorno al 1630, e decise, come i suoi tre fratelli, di impegnarsi nella professione delle armi, prese in prestito il nome della madre, Françoise de Montesquiou d'Artagnan. Infatti, la famiglia di Montesquiou era meglio introdotta alla Corte che la famiglia di suo padre Bertrand de Batz (proprietario di un piccolo maniero in Castelmore). Si unisce ai cadetti della Guardia francese, la scuola militare al momento. M. de Treville, capitano della Compagnia di moschettieri del re, lo assegna alla Compagnia di Essarts della Guardia francese di Fontainebleau. Partecipò a 1640-1642 alle operazioni militari di Arras, Bapaume, Collioure e Perpignan. Il suo ingresso nei moschettieri del re (di cui faceva già parte il fratello Paolo) con la protezione di Mazarino, è datata al 1644, contemporanea a quella del suo amico Francesco Montlezun, Signore del Besmaux vicino a Auch e futuro governatore della Bastiglia.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">La compagnia dei moschettieri venne sciolta da Mazarino nel 1646. Durante la Fronda, il Cardinale incaricò d'Artagnan una serie di missioni di capi militari. Luigi XIV, che lo conobbe in quegli anni, quando era un bambino, gli diede poi la sua piena fiducia, affidandogli molte impegnative missioni chiedendo diligenza e discrezione. Durante l'esilio di Mazarino nel 1651 a Brühl, d'Artagnan accompagnò il ministro. Questa fedeltà verrà poi ricambiata: nel 1652, d'Artagnan era un tenente della Guardia francese, sollevando scalpore in questa unità di fanteria: Nel 1653, Mazarino gli accordò la carica di "Capitano custode della voliera del re" che era ambito dal ministro delle finanze Colbert. Nel luglio del 1655, acquistò un carico di capitano delle guardie nella compagnia di Fourilles, grazie al denaro ottenuto dalla rivendita delle sue precedenti cariche e ai soldi prestati dai seguaci di Mazzarino, tra cui Colbert, allora all'inizio della sua carriera.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Nel 1657, la prima compagnia di moschettieri, conosciuta come i "grandi moschettieri" o "moschettieri grigi" (a causa del colore della loro cavalli), venne ripristinata. D'Artagnan ne diventò membro con il grado di tenente, ma si assicurò il comando vero e proprio (il capo nominale, il capitano-tenente, era il duca di Nevers, nipote di Mazzarino). Ebbe il suo palazzo personale (ora distruttto) al numero 1 dell'attuale Rue du Bac, all'angolo del Quai Voltaire nel 7° distretto di Parigi.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Frequentò i salotti letterari di Marais, dove incontrò una ricca vedova, Anne Charlotte de Champlecy, Signora di Sainte-Croix. Il 5 marzo 1659, un contratto con le firme di Luigi XIV e Mazarino gli diede il permesso di prenderla in moglie e convolò a nozze lo stesso anno, il 3 aprile 1659, a St-André-des-Arts, a Parigi. Dal matrimonio nacquero due figli nel 1660 e 1661. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Nel 1660, Luigi XIV sposò l'Infanta di Spagna. La cerimonia si tenne il 9 giugno in Saint-Jean-de-Luz. Il viaggio verso i Paesi Baschi durò un anno e in quell'occasione Luigi poté visitare le province meridionali del suo regno. D'Artagnan accompagnò la processione. Il passaggio nelle città suscitò l'ammirazione del popolo: i moschettieri precedevano la carrozza reale tirata da sei cavalli bianchi. Il giorno della tappa a Vic-Fezensac, 26 aprile 1660, D'Artagnan cavalcò verso Castelmore per vedere la sua famiglia e visitare la tomba dei suoi genitori, nella cappella.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il 5 settembre 1661, il re ordinò a D'Artagnan di portare a termine la delicata missione di fermare Nicolas Fouquet (sovrintendente delle finanze) in occasione del Consiglio a Nantes. Questa missione avrebbe dovuto essere affidata al comandante della guardia del corpo del re, il duca di Gesvres, ma era un cliente di Fouquet. Il Re mostrò così di avere piena fiducia in D'Artagnan.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Cominciò un lungo periodo durante il quale inizia il moschettiere, convertito in carceriere, accompagnò il suo prigioniero famoso nei suoi successivi luoghi di detenzione: tre mesi nel castello di Angers, al castello di Amboise poi a Vincennes. Il 20 giugno dell'anno successivo alla Bastiglia, infine a Pinerolo. Per tre anni, d'Artagnan, che si occupò personalmente del suo prigioniero, rendendo conto scrupolosamente di tutti i dettagli della del prigioniero con il quale, nonostante i rigori della detenzione, costruì un rapporto quasi amichevole. </div><div style="text-align: justify;">Nel 1666 fu nominato capitano "des petits chiens courant le chevreuil" (con il quale salario si garantisce un alloggio a Versailles), dalla quale si dimise nel 1667 per diventare capitano-tenente della prima compagnia di moschettieri.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">D'Artagnan divenne governatore della città di Lille (grande città di 50.000 abitanti, dal ruolo strategico nel 1667), in sostituzione del maresciallo d'Humières, caduto in disgrazia. Questo governatore impopolare pensò solo al ritorno sul campo di battaglia. Ha l'opportunità di partecipare alla feroce repressione della rivolta nel 1670 di Roure e quando Luigi XIV iniziò la guerra olandese contro le Province Unite nel 1672. Trovò eroicamente la morte il 25 giugno 1673 durante l'assedio di Maastricht: il re si mise alla testa di un esercito di 40.000 uomini, d'Artagnan fu chiamato in rinforzo e venne ucciso da una palla di moschetto ricevuto in gola piena, secondo alcuni testimoni, sulla fronte secondo altri. Avrebbe voluto in effetti aiutare dei giovani ufficiali (tra cui il Duca di Monmouth), che stavano subendo un contro-attacco su un rivellino che i suoi uomini avevano preso il giorno prima. Quattro moschettieri della sua compagnia vengono uccisi per andare a trovare il suo corpo troppo avanti nelle linee olandesi. Luigi XIV, all'insaputa di tutti, fece celebrare una Messa nella sua cappella privata e ha scrisse alla regina: "Ho perso il D'Artagnan, nel quale avevo la massima fiducia e mi servì in tutto. D'Artagnan e la gloria sono nella stessa bara".</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il luogo della sua sepoltura è sconosciuto. Tuttavia, storico Odile Bordaz pensi di aver individuato la tomba di D'Artagnan nella Chiesa di San Pietro e Paolo di Wolde, nei pressi di Maastricht (sud-ovest della città sul confine belgo-olandese). E' in questo villaggio che Luigi XIV e i suoi moschettieri avevano stabilito il loro quartier generale. Ed è da qui che D'Artagnan e i suoi uomini sono dovuti partire per attaccare le mura della città dove morì.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-26850958005258546162011-11-07T15:22:00.002+01:002011-11-12T01:02:36.363+01:00I Longobardi<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/thumb/6/68/Arte_longobarda,_lastrine_dello_scudo_di_stabio,_cavaliere,_vii_secolo,_bronzo_dorato,_berna,_historisches_museum.jpg/220px-Arte_longobarda,_lastrine_dello_scudo_di_stabio,_cavaliere,_vii_secolo,_bronzo_dorato,_berna,_historisches_museum.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/thumb/6/68/Arte_longobarda,_lastrine_dello_scudo_di_stabio,_cavaliere,_vii_secolo,_bronzo_dorato,_berna,_historisches_museum.jpg/220px-Arte_longobarda,_lastrine_dello_scudo_di_stabio,_cavaliere,_vii_secolo,_bronzo_dorato,_berna,_historisches_museum.jpg" /></a></div>
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Da questo sito: http://www.alfamodel.it Autore: M. Colombelli </div>
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L’Italia del VI secolo era oramai profondamente diversa dall’Italia dell’Impero Romano. Le incursioni dei barbari nei decenni precedenti e le guerre gotiche (535-553) avevano stremato la penisola italiana: le città erano dissanguate dagli assedi e dai saccheggi, la popolazione decimata dalle epidemie e dalle carestie, le infrastrutture, simbolo della grandezza e della prosperità dell’Impero Romano, distrutte o seriamente danneggiate.</div>
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Anche se la storiografia ha addolcito il quadro delle invasioni barbariche non descrivendole più come una calamità, va detto che quella fu comunque un’epoca difficile in cui soprattutto le popolazioni soffrirono i cambiamenti di regime, e anche senza considerare gli assedi, le guerre o i saccheggi, lo stanziamento dei barbari fu un evento molto duro.</div>
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I Longobardi attraversarono le Alpi nel 568 e occuparono prima l’Italia del Nord e poi dilagarono verso Sud percorrendo la dorsale appenninica, e rinunciando spesso ad attaccare gli insediamenti costieri occupati dai bizantini; qui trovarono un territorio stremato, spopolato e scarsamente difeso.</div>
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Nei primi anni del V secolo i loro rapporti con i bizantini erano stati ottimi combattendo come alleati per sconfiggere i reciproci nemici; molti furono i contingenti arruolati al fianco degli eserciti di Giustiniano, eserciti che erano sempre più numericamente esigui e minati da una cronica indisciplina degli ufficiali e dei soldati. I guerrieri longobardi erano invece ottimi soldati, ma rappresentavano anche un flagello per le popolazioni civili, bruciando le case, violentando le donne, seminando ovunque morte e distruzione. Con la morte di Giustiniano mutò la percezione dei bizantini nei loro confronti ed essi individuarono nell’Italia la possibile meta di una nuova migrazione. E se questa sia avvenuta su invito del generale bizantino Narsete o su chiamata dei Goti, o semplicemente perché attirati dalle ricchezze delle città italiane, dalle fertilità dei campi e soprattutto dalla debolezza politica e militare della penisola, poco importa in questo contesto.</div>
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Qui vogliamo descrivere l’organizzazione della gens longobarda e il loro impatto nella società romana italiana.</div>
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La struttura sociale dei Longobardi era molto diversa da quella di altre popolazioni di stirpe germanica che avevano attraversato l’Impero Romano. L’istituto principale era costituito dalla fara, un esteso gruppo familiare (diverso quindi dalla tribù), “un’associazione in marcia” di guerrieri, donne, gente senza armi, schiavi, e il cui compito non erano solo quello di combattere, ma anche quello di garantire all’interno la pace e un’organizzazione civile efficiente. Insomma la fara rappresentava una comunità di una società in movimento.</div>
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Ma a contatto con l’ambito civile romano, i Longobardi, svilupparono forme di vita e di stanziamento che, pur preservando l’antica tradizione, si adattavano alla nuova realtà ambientale. Le singole comunità si insediarono come truppe di combattimento e unità militari indipendenti, occupando gli importanti punti strategici e utilizzando soprattutto le strutture preesistenti: i castelli limitanei bizantini e goti, le città fortificate, le valli e i passi, i ponti e gli snodi stradali. I Longobardi estesero a poco a poco la loro presenza occupandoli uno a uno.</div>
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Questi castelli e queste case fortificate in pietra costituirono il primo centro nevralgico dello sfruttamento del territorio da parte dei longobardi. Tutto questo è ampiamente dimostrato dai numerosi scavi archeologici.</div>
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Visto che essi si sentivano innanzi tutto soldati, per il sostentamento, ogni fara divenne “ospite” di un certo numero di famiglie contadine (tributarii), che dovevano loro un terzo (tertia) del raccolto o fornire lavoro. Allo stesso modo requisirono un terzo delle terre o delle case per destinarle ai guerrieri. Stessa sorte toccò ai nobiles che non erano stati scacciati, uccisi o fuggiti. I longobardi che avevano abbandonato le impervie zone nord europee avevano mutato così il loro modo di vivere, da contadini foederati dell’Impero Romano, in conquistatori, costringendo le popolazioni sottomesse a lavorare le terre per loro conto. Le singole guarnigioni si divisero la terra e i contadini, che consideravano, in base alle leggi di conquista, come loro possedimenti. Da comandante militare, il dux, dopo che la fare si era saldamente insediata nella città o nel castello, divenne il signore del territorio che era controllabile da quel centro che si trasformava nel fulcro del potere sostituendo la civitas tardoantica. Questa nuova organizzazione e suddivisione del territorio non ricalcava più quella dei municipi romani ma si adeguava alle nuove esigenze militari e strategiche del momento. Era un mondo dove era molto più difficile di prima gestire i grandi commerci internazionali e spostarsi per lunghi tragitti, ma per il resto la società romana era la stessa: vi era sempre l’aristocrazia senatoria con i loro latifondi e gli schiavi e coloni che la coltivavano. E al nuovo potere essi si piegarono e fecero riferimento.</div>
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I Longobardi che alla fine del VI secolo (vedi foto a lato) conquistarono parte dell’Italia, provenivano dalle regioni pannoniche, molto differenti soprattutto per cultura. Come detto, essi si sostituirono ai possidenti romani, sulle cui terre si insediarono, impadronendosi dei palazzi cittadini dei nemici fuggiti o sconfitti, o occupando le guarnigioni dei castelli romani in quanto successori delle truppe bizantine, e diventando parte di un mondo che ereditava le infrastrutture dell’alta cultura romana. Il passaggio dalla conquista bellica all’esercizio continuativo del potere aveva portato questo fiero popolo a contatti sempre più serrati con l’ambiente romano-bizantino e a una importante modifica dei propri usi e costumi. Nei territori che confinavano con le regioni bizantine i Longobardi poterono osservare in maniera ravvicinata il funzionamento di questa civiltà altamente sviluppata e non ancora caduta. Con grande semplicità non si sostituirono ma si adeguarono a questo patrimonio culturale a loro non familiare, per poi appropriarsene. Questo adattamento si realizzò in quasi tutti gli ambiti in maniera più o meno profonda, gia pochi anni dopo l’ingresso in Italia. Cambiarono la lingua, le abitudini insediative, il modo di vestirsi, le acconciature delle capigliature. Mentre prima erano soliti tumulare i morti in tombe a schiera fuori dagli accampamenti, cominciarono a farsi seppellire vicino a chiese all’interno delle città, magari facendosi immortalare su lapidi con epitaffi o facendosi seppellire in sarcofagi di stile romano.</div>
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Ma nei primi anni, l’incontro tra queste due culture fu difficile poiché, nonostante i numerosi contatti, i Longobardi erano fra i popoli meno romanizzati e più impregnati di germanesimo dell’epoca. Anche costituendo una piccola minoranza, non nutrivano alcun timore reverenziale nei confronti dei romani che venivano trattati come un popolo vinto; per questo assumevano importanza tutte le forme simboliche attraverso le quali si esprimeva l’appartenenza etnica. Alla prevalenza numerica dei romani si univa anche la loro superiorità culturale e civilizzatrice, ancora molto forte, ma si contrapponeva l’assoluto predominio militare e politico dei conquistatori. Con il passare del tempo le barriere che dividevano le due comunità vennero a cadere, processo facilitato anche dall’adesione al cristianesimo dei Longobardi.</div>
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La penetrazione della lingua latina e il progressivo avvicinamento alle forme di vita dei romani, i contatti sempre più intensi, i matrimoni misti, fecero sì che i padri longobardi dessero sempre più nomi romanici ai loro figli e viceversa, anche se la nobilitas longobarda perseverò nella difesa delle tradizioni e dei costumi propri, ancora a lungo. Curiosamente assistiamo ad un assorbimento dei tratti biologici (fino al loro annullamento) da parte delle popolazioni residenti e, all’opposto, all’identificazione con l’etnia dominante da parte della popolazione sottomessa, che con il tempo smise di considerarsi “romana”.</div>
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La struttura sociale tra i longobardi, era molto semplice: vi erano tre classi, la prima delle quali era quella degli uomini dell’esercito, gli arimanni (dal germanico herr-mann), gli autentici rappresentanti del popolo longobardo, quelli che avevano il diritto di portare le armi, condizione che determinava lo status di uomo libero, e di conseguenza, l’accesso ai diritti giuridici e politici: infatti gli invalidi di qualsiasi genere ne erano privi. La seconda classe era costituita dagli aldi, semiliberi senza diritti giuridici, di solito prigionieri di guerra, che vivevano in una condizione simile al vassallaggio. L’ultima classe era quella dei servi, che considerati come oggetti, potevano essere venduti o scambiati.</div>
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Mano a mano che la conquista si stabilizzava, anche la struttura sociale tendeva a solidificarsi. Il persistente contatto con il mondo bizantino ne aveva modificato anche l’organizzazione militare.</div>
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I comandanti militari, duces, dalle città fortificate dove risiedevano e che avevano trasformato nei loro centri di potere, si diressero verso il centro sud Italia. I capi di queste vere e proprie bande di predoni subivano la costante pressione dei loro guerrieri interessati solo al saccheggio e al bottino.</div>
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Ma con il tempo, grazie anche all’opera del re Alboino, i comandanti, pur mantenendo la funzione militare, divennero gli amministratori dei territori occupati. Questi duces (duchi), nella gerarchia militare subito sotto il re, vennero messi a capo di ampi territori, dal quale ramificavano il loro potere, risiedendo in una città o in un castello. La struttura militare longobarda venne completamente trasferita nella gestione del territorio. Così il ducato venne diviso in sculdascie amministrate dai sculdahis, ufficiali superiori, e queste in decanie, amministrate da decani (probabilmente comandanti di unità minori a base decimale). La gerarchia militare si rifletteva così sul territorio. Talvolta veniva nominato anche un funzionario di espressione diretta del re, il gastaldo, che svolgeva funzioni amministrative dei beni della corona e di controllo dell’operato dei duchi, spesso ribelli all’autorità centrale e con velleità autonomiste.</div>
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Il vecchio limes romano non aveva mai costituito un’autentica linea Maginot e proprio per questo i romani avevano costruito all’interno del territorio delle varie province, fortini ed accampamenti fortificati, cingendo di mura molte città. Strutture edificate per contenere piccole unità il cui compito era pattugliare il territorio assegnato ed in caso di attacco, resistere fino all’arrivo dei rinforzi. Furono costruiti a protezione degli incroci stradali, degli sbocchi fluviali, sui ponti, vicino i magazzini alimentari; furono costruite infrastrutture difensive anche intorno alle fattorie. Questi centri fortificati, spesso isolati gli uni dagli altri, nella visione strategica del tempo, erano un elemento essenziale per garantire la difesa del confine, il controllo del territorio o, in subordine, la sicurezza delle popolazioni. Allo stesso modo costituivano un’eccellente base di appoggio e di partenza durante le operazioni offensive. Allo stesso modo l’occupazione delle piazzeforti consentiva di estendere l’occupazione senza rischiare scontri campali di fronte e forze numericamente superiori o di costituire una pericolosa spina nel fianco di fronte a truppe che avanzassero lasciandosela dietro.</div>
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Fu Teodorico ad avvertire l’importanza delle cinte murarie a difesa delle città, curandone la manutenzione, la riparazione e costruendone di nuove, e Giustiniano, a far costruire nei castelli enormi cisterne di raccolta dell’acqua. E anche del cibo veniva ogni anno realizzata un’adeguata scorta nei granai. La maggior parte dei centri aveva quindi solide difese. E furono queste ad essere occupate dai longobardi.</div>
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L’occupazione e l’utilizzo sapiente dei centri fortificati fu determinante soprattutto nella prima fase dell’occupazione e nel successivo insediamento dei Longobardi. L’occupazione di centri fortificati sul mare, a ridosso dei passi montani, di importanti vie di comunicazione, nelle vicinanze degli acquedotti, rivestirono un’importante funzione logistica. Le fortezze assumevano così una funzione di rifugio e di resistenza e quindi un ulteriore elemento di forza nella strategia longobarda.</div>
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Gli attacchi diretti alle mura erano infatti un’ipotesi alla quale ogni valido comandante si sottraeva ben consapevole delle alte perdite che poteva subire, anche per la scarsa capacità e preparazione delle proprie milizie, mentre la possibilità di resistere ad un assedio variava in rapporto a vari elementi, primo dei quali proprio la solidità delle mura. Le posizioni inaccessibili presentavano naturalmente maggiori possibilità di difesa; ma anche i terreni ripidi impedivano l’utilizzo di alcune macchine da assedio come l’ariete. Erano sconsigliate invece fortezze che avevano intorno alture, pascoli o corsi d’acqua, perché fornivano un vantaggio per gli assedianti. Sulle torri e sulle mura ci si difendeva con onagri e balliste: i primi erano macchine che consentivano il lancio di grosse pietre, mentre le seconde erano macchine che consentivano il lancio contemporaneo anche di quattro grosse frecce a grande distanza.</div>
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I Longobardi dominarono in Italia per circa due secoli, segnandone profondamente lo sviluppo successivo.<br />
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Da questo sito: <a href="http://www.alfamodel.it/">http://www.alfamodel.it</a> Autore: M. Colombelli </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-13095570293267648312011-11-07T15:12:00.001+01:002011-11-12T01:03:10.647+01:00I giochi nell'antica Roma<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.verve-italy.com/data/imgservizio/207.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://www.verve-italy.com/data/imgservizio/207.jpg" /></a></div>
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L’importanza che gli spettacoli arrivarono ad assumere per il mondo romano, si può facilmente dedurre dai calendari appositamente predisposti.</div>
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Dei 77 giorni destinati ai ludi durante la Repubblica, si arrivò ad averne ben 177 durante l’Impero. Nel IV secolo, 101 giorni contemplavano spettacoli teatrali (ludi scaenici), 66 le corse nel circo (ludi circenses) e 10 i combattimenti (munera) nell’arena.In origine collegati alle celebrazioni religiose, questi spettacoli con il gradimento sempre maggiore che riscuotevano tra la popolazione, divennero sempre più un semplice divertimento per i cittadini e un mezzo di propaganda politica per chi li organizzava (editor), tanto da perdere così nel tempo la loro funzione legata al culto propiziatorio o commemorativo che fosse, per divenire semplicemente degli spettacoli.</div>
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Questo interesse non sfuggì agli occhi degli aristocratici e soprattutto degli imperatori i quali, per imbonirsi le masse, si prodigarono per offrire spettacoli sontuosi immortalati nei versi degli scrittori latini del tempo: Svetonio, Tito Livio, Giovenale, Marziale ed altri ancora. L’imperatore Traiano arriverà ad offrire festeggiamenti con 10.000 gladiatori. Con la ricerca di spettacolarità aumentarono anche le spese necessarie per organizzare i giochi a tal punto che il Senato si trovò costretto a regolamentarne lo svolgimento con rigide leggi che riguardavano sia la loro organizzazione, sia le somme da destinarvi. Gli spettacoli potevano essere offerti a spese dello Stato, organizzati dai magistrati allo scopo preposti, Edili, Duoviri, Pretori ai quali era affidata la cura ludorum, o da privati previa autorizzazione del Senato, o ancora con la partecipazione di entrambi. I giochi, naturalmente, si diffusero in tutto l’impero romano.</div>
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“Panem et circenses”, scrive Giovenale nel I secolo dopo Cristo, sono le cose che più interessano ai romani: distribuzione gratuita di cibo e spettacoli pubblici.</div>
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LE ORIGINI DEI LUDI GLADIATORI</div>
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Il ritrovamento di alcune decorazioni parietali in tombe a Capua e a Paestum in Campania, fanno risalire con molta probabilità l’origine dei munera (dono votivo, tributo, offerta funebre) alle popolazioni sannitiche. A Roma arrivarono nel III secolo A. C., qui giunti attraverso gli Etruschi. Il primo munera in Roma, si svolse nel 264 a. C. presso il Foro Boario. I combattimenti erano organizzati in occasione dei funerali di personaggi illustri o per la loro commemorazione, a spese dei familiari, allo scopo di immolare vittime agli Dei.</div>
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Il crescente interesse che questo genere di spettacoli riscosse praticamente in ogni ceto sociale, trasformò, come abbiamo detto, la loro originaria valenza religiosa in giochi veri e propri (munera gladiatoria). La loro popolarità divenne tale che anche l’oggettistica di uso quotidiano risentì di questa nuova passione (vasellame, mosaici ecc.).I combattimenti si svolgevano in prossimità delle tombe dei defunti da commemorare o nelle piazze dei Fori, ma questi spazi ad un certo punto non furono più sufficienti a soddisfare le richieste della popolazione che sempre in maggior numero assisteva ai munera. Questo comportò necessariamente la costruzione di edifici adatti allo svolgimento degli spettacoli. Gli architetti concepirono perciò delle costruzioni estremamente funzionali allo scopo: gli anfiteatri (theatron = spazio destinato agli spettatori, e amphi = che corre tutto intorno), dapprima in legno poi in muratura. Il più famoso e il più grande di tutti fu l’Anfiteatro Flavio (il Colosseo) a Roma, i cui lavori di edificazione iniziati sotto l’imperatore Vespasiano nel 72 d. C., furono terminati dal figlio Tito nell’80 d. C., che per l’inaugurazione offrì giochi che durarono 100 giorni con notevole impiego di gladiatori e animali.</div>
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Ottanta ingressi (vomitoria) numerati consentivano l’accesso a circa 50.000 spettatori paganti, i più fortunati usufruivano di tessere per l’ingresso gratuito. La cavea, era divisa in settori riservati alle varie fasce sociali. Uomini e donne non potevano assistere insieme ai giochi, alle donne erano riservate le gradinate più in alto dell’anfiteatro.</div>
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I GLADIATORI</div>
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I gladiatori (da gladio = spada) erano per lo più prigionieri di guerra, schiavi, liberti, criminali condannati a morte, ma anche uomini liberi che, attratti dalla possibilità di enormi guadagni, decidevano di diventare gladiatori (auctorati). Scarse notizie si hanno circa le donne che scendevano nell’arena. Questi uomini appartenevano al lanista (impresario), il quale traeva il proprio profitto affittandoli per gli spettacoli. Il prezzo variava a seconda della qualità dei combattimenti e al grado di preparazione fisica richiesta. L’editor si impegnava inoltre al risarcimento di quei gladiatori che fossero morti nel combattimento.</div>
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Vivevano in apposite caserme, dove formavano delle familiae gladiatoriae, che oltre agli alloggi avevano una piccola arena per gli allenamenti svolti con gli istructores (allenatori). A Roma esistevano quattro caserme: il Ludus Dacicus, il Ludus Gallicus, il Ludus Matutinus (dove risiedevano i venatores e i bestiararii , gladiatori specializzati nei combattimenti con animali) e il Ludus Magnus le cui rovine, vicine al Colosseo, sono ancora oggi visibili.</div>
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La tradizione popolare e la cinematografia classica ci hanno rappresentato i combattimenti come qualcosa di estremamente truculento e dall’esito sempre mortale, ma la realtà doveva essere sicuramente ben diversa visti i costi sostenuti per mantenere e allenare i morituri, e ancor più per i costi sostenuti dagli editores per offrirli al pubblico. E’ perciò probabile ritenere che la loro morte nell’arena non fosse così frequente, eccezione fatta per quei combattimenti denominati munera sine missione cioè all’ultimo sangue, la folla che accorreva per vedere i propri beniamini ne voleva poter ammirare la bravura e la prestanza fisica. Nei mosaici rappresentanti le pugnae (combattimenti) compaiono sovente scritti i soprannomi dei gladiatori, questo a significare l’affezione del pubblico durante tutta la carriera dei propri campioni. I più famosi arrivarono a combattere circa quaranta volte nell’arena. La loro prestanza fisica inoltre non sfuggiva alle nobildonne romane, meritandosi l’appellativo di suspiria puellarum. Un episodio che ben sintetizza il fanatismo dei sostenitori verso i propri idoli è dato dalla rissa che scoppiò nel 59 a. C. nell’anfiteatro di Pompei tra “tifosi” locali e nocerini. Gli incidenti iniziati durante un combattimento tra gladiatori, provocarono morti e feriti cosicché lo stadio fu squalificato per 10 anni.</div>
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LE CATEGORIE</div>
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Non tutte le classi gladiatorie sono esistite contemporaneamente, alcune scomparvero già in età repubblicana come i Samnites, altre si</div>
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modificarono come i Galli poi Murmillones, altre ancora come i Thraeces giunsero immutate sino all’età imperiale. Il vestiario era diverso a seconda della classe di appartenenza. Attraverso le fonti storiche a disposizione si possono identificare all’incirca una dozzina di categorie, non condivise però tra tutti gli studiosi, non essendo a volte facile legare i nomi con le iconografie a disposizione. Il perizoma (subligalicum), la cintura (balteus), l’elmo (galea), la protezione metallica per il braccio (manica), gli schinieri per proteggere le gambe (ocreae e cnemides), facevano parte del vestiario di uso comune a tutte le categorie.</div>
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Ecco le più note:</div>
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Thraeces: portavano un elmo a tesa larga sormontato da un cimiero a forma di grifone e ornato di piume, una manica al braccio destro, un piccolo scudo (parma) una spada ricurva (sica) e alte protezioni alle gambe (cnemides);</div>
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Retiarii: ispirati al Dio Tritone, avevano una placca metallica a protezione della spalla sinistra (galerus), erano privi di elmo, armati di tridente, rete e una corta spada;</div>
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Murmillones (o Myrmillones): simili ai Traci si differenziavano da questi per avere un pesce (murmo) sull’elmo al posto del grifone, un grande scudo rettangolare ed una spada dritta (gladio), ocrea alla gamba sinistra;</div>
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Provocatores e Secutor: simili tra loro avevano un elmo ovoidale liscio per impedire la presa della rete del Reziario, loro antagonista nell’arena, un pettorale in cuoio con al centro una testa di gorgone in metallo, schiniere sulla gamba sinistra e bende in stoffa (fasciae) in quella destra, scudo e spada;</div>
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E poi ancora: Oplomachi che usavano un grande scudo (hoplon), Essedari che combattevano su carri (esseda), Sagittarii che usavano arco e frecce, Equites che, armati di lancia, combattevano a cavallo, Dimachaerus che combattevano con due spade, Velites armati di giavellotto, Laquearius armati di lazo (laqueus) con il quale cercavano di strangolare l’avversario. Di altre si conoscono solo i nomi.</div>
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Le coppie nell’arena erano determinate in base al tipo di armamentario che ogni categoria aveva, le armi di offesa e di difesa dovevano bilanciarsi con quelle dell’avversario. Una categoria a parte era formata dai Venatores che si cimentavano contro le belve (venationes), questi gladiatori di solito avevano solo una tunica e armi di offesa.</div>
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Questi giochi, la cui origine viene fatta risalire al centinaio di elefanti che Scipione l’Africano portò a Roma dopo aver sconfitto Annibale, mostrati alla folla nel Circo Massimo e poi abbattuti perché non era più possibile mantenerli, richiedevano una organizzazione molto complessa e dispendiosa che riguardava la cattura degli animali, richiesti sempre in quantità maggiore, il trasporto in città, luoghi per la loro stabulazione (vivarium) il mantenimento e misure di sicurezza all’interno dell’arena per evitare incidenti agli spettatori. Alte reti con alla sommità zanne d’elefante rivolte verso l’arena e rulli per impedire agli animali di arrampicarsi, poste tutt’intorno alla cavea e arcieri proteggevano gli spettatori da eventuali pericoli.</div>
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LO SPETTACOLO</div>
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L’organizzatore dei giochi (editor o se a Roma il Procurator imperiale), rendeva noti alla cittadinanza mediante iscrizioni sui muri delle case, il motivo per cui offriva il munera, i nomi dei gladiatori che sarebbero scesi nell’arena e la loro specializzazione, in oltre precisava se avrebbero avuto luogo aspersioni profumate (sparsiones), distribuzione di cibo o denaro, se nel circo era previsto il velarium a protezione della calura o della pioggia e se lo spettacolo prevedeva anche le venationes. La sera prima veniva offerto un banchetto (coena libera) dove i cittadini potevano incontrare da vicino i gladiatori.</div>
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I giochi cominciavano di mattina e seguivano un cerimoniale prestabilito: un corteo rituale (pompa) rendeva gli onori alle autorità o all’Imperatore se presente. Aprivano lo spettacolo le venationes (se in programma), che si protraevano fino all’ora di pranzo. Queste cacce potevano prevedere lotte tra uomini e animali o tra animali anche legati tra di loro. Complesse scenografie riproducevano ambienti esotici o mitologici. Nell’intervallo avevano luogo le esecuzioni dei condannati a morte, molto gradite dal pubblico, dove persone inermi venivano fatte sbranare dalle fiere (damnatio ad bestiam) o immolate nei modi più barbari, crocifisse, arse vive e così via. Alla ripresa pomeridiana avevano luogo i ludi gladiatores veri e propri. Un combattimento con armi inoffensive serviva al riscaldamento dei gladiatori. L’editor dava quindi inizio ai combattimenti tra le urla della folla entusiasta e il baccano dei musici che accompagnavano lo svolgersi dei giochi. I primi gladiatori a scendere nell’arena erano gli equites. Più coppie si affrontavano contemporaneamente (gladiatorum paria). Se qualche gladiatore non si batteva con sufficiente impegno, veniva sollecitato a colpi di frusta (lora) dai loraii presenti nell’arena.</div>
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La vita del gladiatore sconfitto dipendeva dall’editor, il quale valutava l’impegno messo nel combattimento ascoltando gli umori del pubblico presente e tenendo conto delle spese sostenute per l’affitto dei gladiatori e che per questo spesso graziava. In ginocchio davanti al vincitore, lo sconfitto attendeva il verdetto offrendo la gola e la propria spada, se si era battuto male la folla gridava: “iugula” (sgozzalo), se si era battuto alla pari riceveva la grazia (missio) con il famoso pollice levato in alto. I morti venivano portati in una sala denominata spoliarum attraverso la porta libitinaria da inservienti mascherati da Caronte. Al termine il vincitore riceveva la palma della vittoria oltre a doni preziosi. Ma il premio più ambito era la spada di legno (rudis) che significava la fine della carriera e quindi la riconquistata libertà.</div>
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Con il declino dell’impero e il Cristianesimo che portò cambiamenti nei costumi della società, questo genere di divertimento era destinato ad aver fine, l’ultimo spettacolo di gladiatori si ebbe nel 438 d. C., vietati definitivamente dall’imperatore Valentiniano III, dopo fasi alterne il sipario calò così anche sul Colosseo, nel 523 d. C. si svolsero le ultime venationes.<br />
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Da questo sito: <a href="http://www.alfamodel.it/">www.alfamodel.it</a>, Autore: M. Mazzuccato </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-60467998525383992792011-11-07T14:50:00.000+01:002011-11-12T01:19:57.893+01:00Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia<div style="text-align: right;">
-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe e Richelieu</span></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-i-primi-anni-e-la.html">Padre Giuseppe, i primi anni e la predicazione</a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-lascesa-di-richelieu.html">Padre Giuseppe, l'ascesa di Richelieu </a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-la-rochelle.html">Padre Giuseppe, La Rochelle</a></div>
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-Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia</div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, il Cardinale mancato</span></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, l'uomo religioso</span></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJBoHle1yuz48ybEerP08PU6AQRJWSzeEmBXzp88vf8mA2xnMdSJdVfE1rjbA_DJiZ73HTjR1kjMale208ZCOlu1kqiKSwuaAywrbcTYyR0RELwuL-JMdsg6WVk7tel-0iw-IC6yxC/s1600/pe%25CC%2580rejosephjerome.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="220" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJBoHle1yuz48ybEerP08PU6AQRJWSzeEmBXzp88vf8mA2xnMdSJdVfE1rjbA_DJiZ73HTjR1kjMale208ZCOlu1kqiKSwuaAywrbcTYyR0RELwuL-JMdsg6WVk7tel-0iw-IC6yxC/s320/pe%25CC%2580rejosephjerome.jpg" width="320" /></a></div>
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<u>La successione di Mantova </u></div>
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Nel 1627 le attenzioni delle principali potenze europee, che allora erano coinvolte nella guerra che si stava combattendo sui territori tedeschi, si rivolsero verso la penisola italiana. In quell'anno il duca di Mantova, Vincenzo II Gonzaga morì senza eredi, estinguendo così il ramo principale della famiglia. Le leggi di successione prevedevano che il diretto discendente del defunto duca fosse l'ormai conosciuto Carlo Gonzaga, duca di Nevers, che apparteneva ad un ramo collaterale della dinastia. Carlo aveva forti interessi alla Corte di Parigi e la sua ascesa al trono di Mantova avrebbe inserito il ducato nella sfera d'influenza francese. Questa eventualità scatenò reazioni da parte di chi da un secolo controllava la politica peninsulare, la Spagna, la quale vedeva negativamente l'intromissione di un esponente al servizio di Luigi XIII nei suoi interessi. Un altro regnante che era interessato alla questione mantovana era Carlo Emanuele I di Savoia. Egli non vedeva di buon occhio una successione, chiunque ne avesse benficiato, siccome le sue mire espansionistiche già da tempo si erano mosse verso il ducato di Monferrato. Questo territorio, stretto tra la Savoia, il ducato di Milano, e la Repubblica di Genova, apparteneva dal 1575, per concessione imperiale al ducato di Mantova, ma i due territori non avevano continuità e risultava difficile, per chiunque sedesse sul trono di Mantova, gestire i due possedimenti. La morte di Vincenzo II era, per Carlo Emanuele, una possibilità per mettere le mani sul Monferrato, ma un legittimo discendente a Mantova lo avrebbe, nel migliore dei casi trascinato in una guerra. Carlo Emanuele cercò quindi di ostacolare la legittima successione unendo i propri propositi a quelli spagnoli: si accordò affinché alla Savoia andassero i territori del Monferrato, nel caso in cui il pretendente di un altro ramo della famiglia Gonzaga, Ferrante II Gonzaga, duca di Guastalla, appoggiato dagli spagnoli, fosse riuscito ad arrivare sul trono mantovano. A venire in aiuto agli interessi di Madrid fu l'Imperatore, il quale, essendo Mantova feudo imperiale, si arrogò il diritto di decidere chi avrebbe dovuto guidare il ducato e non concesse la necessaria investitura a Nevers. Fu a questo punto che il Nevers chiese l'aiuto della Francia, che, però, si era da poco impegnata nell'assedio a La Rochelle e le sarebbe risultato difficile intervenire oltralpe senza procurare problemi al proprio interno. O'Connell nel capitolo XI del suo libro, descrive molto bene i passaggi della diplomazia che precedettero gli scontri. Non è il caso di ripercorrerli qui, anche perché gli sforzi di Richelieu per ritardare qualsiasi intervento spagnolo nella valle del Po furono pressocché inutili, ma si può cominciare dall'interesse di Carlo Emanuele per Casale, la capitale del ducato di Monferrato, e alla sua cittadella. Casale era, insieme alla Valtellina, una tappa importante di quella via che, da Genova alle Alpi, permetteva agli spagnoli le comunicazioni con l'Impero e il nord Europa. Uno dei principali alleati del re savoiardo era Gonzalo de Córdoba, governatore spagnolo di Milano, il quale aveva buone ragioni per appoggiare il suo vicino nella conquista del piccolo ducato: sei anni prima Gonzalo aveva comandato le truppe che avevano preso parte alla conquista del Palatinato, scacciando Mansfeld col suo esercito, costringendolo in Alsazia; il Nevers, che all'epoca era governatore della Champagne, gli consentì di riparare nei suoi territori e, dopo aver marciato sul Belgio, piombare alle spalle di Gonzalo e sconfiggendolo, liberando dall'assedio la città di Bergen-op-Zoom. Il governatore spagnolo vedeva Nevers come un pericolo nell'Italia settentrionale, oltre che un segno evidente del declino del potere spagnolo nella penisola, ma per mesi Madrid non rispose. Quando, morto Vincenzo II, il Nevers fu sul punto di insediarsi senza i titoli legali, ottenibili solo dall'imperatore, di cui Mantova era feudo, si rivolse a Carlo Emanuele, che non esitò ad accettare. All'inizio del 1628, intorno a marzo, iniziarono le operazioni congiunte dei savoiardi e dei milanesi e Casale venne messa sotto assedio. Richelieu stesso, bloccato a La Rochelle, si ritrovò a dover difendere la posizione di Nevers: scrisse ad Olivares, primo ministro del re spagnolo Filippo IV, accusandolo di non aver mantenuto gli impegni presi per l'assedio a La Rochelle e, considerando i movimenti di Gonzalo de Córdoba in Italia la parte di un piano antifrancese degli Asburgo, rammentò al primo ministro spagnolo che la pace di Monzon e il trattato di alleanza tra Francia e Spagna, rendevano obbligatoria la negoziazione della questione mantovana e, in attesa dei negoziati, a fermare le operazioni militari. Oltre a questo Richelieu ricordò, tramite l'ambasciatore francese a Madrid, che Spinola, quando visitò il campo di Luigi XIII durante l'assedio a La Rochelle, aveva dato il pieno appoggio spagnolo contro i protestanti. L'unica cosa che ottenne fu che la Spagna aumentò il suo esercito in Italia. A fronte di questa risposta, il Cardinale non trovò altra soluzione che appoggiare i diritti di Nevers alla sua successione, ma finché fosse durato l'assedio de La Rochelle i francesi erano bloccati. I due assedi, quelli a La Rochelle e quello di Casale divennero protagonisti di una "corsa al termine": se i francesi fossero riusciti a prendere la Rochelle prima che gli spagnoli facessero altrettanto con Casale, avrebbero potuto intervenire in Italia, in caso contrario la Spagna avrebbe assestato un duro colpo alle pretese di Nevers a Mantova. </div>
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Le difficoltà aumentavano per Gonzalo, che riceveva, per le falle del sistema amministrativo spagnolo, le briciole dei finanziamenti che arrivavano da Madrid per reclutare forze fresche, e la città non dava segni di cedimento. Le difficoltà e la, nonostante tutto, poca collaborazione ed entusiasmo madrileno per questa guerra, convinsero, nel frattempo, Carlo Emanuele a sondare le posizioni francesi. Richelieu, tutto preso dall'assedio, accondiscese alle richieste savoiarde: egli avrebbe abbandonato la Spagna se la Francia gli avesse promesso che avrebbe potuto mantenere parte delle conquiste fatte. Egli rimase, però, almeno formalmente un alleato spagnolo. </div>
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La situazione per Richelieu non era rosea, dovendo organizzare probabilmente una campagna invernale per liberare Casale (liberazione che diventava sempre più necessaria per i francesi) se non si fosse voluto che gli interessi spagnoli dominassero completamente il nord della penisola. Un altro problema che assillava il Cardinale e il suo entourage era Luigi. Bisognava convincere il re, uomo pio, che la guerra contro la Spagna era necessaria non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello religioso, altrimenti non avrebbe acconsentito, aizzato probabilmente dalla madre filospagnola, a mettersi contro alla più grande potenza cattolica d'Europa. Al Consiglio del 13 gennaio 1629, Richelieu espose il problema mantovano come cardine per la sicurezza francese e, soprattutto, per la sua grandezza e la sua autorità. Un altro fattore spingeva Richelieu a concentrare le fatiche francesi all'estero: aveva bisogno di qualcosa che unificasse il regno concentrando gli sforzi all'esterno, la chiamata alla guerra avrebbe attirato sotto le bandiere del re persino i nobili protestanti che non avrebbero esitato a battersi contro la Spagna. </div>
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Gli eserciti francesi, una volta caduta La Rochelle, si diressero verso est, mentre Richelieu, senza fare parola di questo, scriveva ad Olivares che immaginava fosse contento della caduta della città protestante. La marcia dell'esercito francese continuava e il re si mosse da Parigi il 16 gennaio 1629 in un viaggio trionfale che, attraverso la Champagne, la Borgogna e il Delfinato, fino a Grenoble, portò l'offensiva a ridosso dei territori italiani. Père Joseph era al seguito del re durante questo viaggio. </div>
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Il piano francese era complicato quanto rischioso: l'esercito avrebbe dovuto dirigere tre attacchi simultanei, il primo imbarcandosi alla foce del Rodano si sarebbe diretto verso le coste liguri per poi marciare verso Casale, il secondo avrebbe tenuto impegnate le truppe piemontesi, il terzo, guidato dal re stesso e da Richelieu, avrebbe varcato le Alpi dal Delfinato e marciato direttamente su Casale. Contemporaneamente le truppe di Mantova e Venezia, alleata per l'occasione contro gli odiati Asburgo, avrebbero dovuto convergere su Casale attraverso il Milanese. L'unico ramo dell'esercito che concluse qualcosa fu quello guidato da re, che, però, trovò difficoltà all'altezza del passo del Monginevro. </div>
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Nessuno sapeva ancora da quale parte stesse effettivamente Carlo Emanuele. Egli faceva di tutto per rimanere neutrale almeno formalmente, ma non aveva ancora rotto l'alleanza con la Spagna. Richelieu era convinto che si sarebbe avvicinato alla Francia, anche in virtù delle ambasciate negoziali che gli erano arrivate da Torino, quando era a La Rochelle. Una volta che l'esercito francese fu entrato in territorio savoiardo, venne inviato al cospetto di Luigi XIII Vittorio Amedeo, il figlio di Carlo Emanuele, a proporre uno scambio tra una città piemontese e una francese per facilitare la collaborazione. Richelieu, stanco delle richieste del Savoia, ritenendo impraticabile la strada del negoziato su quelle basi ritenne fosse sciocco continuare a fidarsi di lui e programmò l'attacco a Susa. I piemontesi non opposero eccessiva resistenza e, dato che la Savoia era ormai alla mercé della Francia, Carlo Emanuele, che non poteva fare altro che cercare di volgere la situazione a proprio vantaggio, propose a Luigi di aiutarlo a prendere Genova, poi di appoggiarlo per un attacco nel Milanese, infine, propose allo stesso Richelieu di prendere Genova per lui. Come si sarà capito i francesi rifiutarono tutte le offerte e Carlo Emanuele non riuscì ad ottenere altro che la firma a Susa di un trattato che dava l'accesso delle truppe francesi nel territorio savoiardo fino al Monferrato in quella e in qualsiasi occasione futura e che gli imponeva di approvvigionare Casale adoperandosi perché il governatore di Milano levasse l'assedio. In cambio egli avrebbe ricevuto quindicimila corone d'affitto in cambio di ogni rinuncia sul Monferrato. Questo trattato mise in difficoltà sia la Spagna che la Francia, dovendo avere a che fare con un terzo elemento che, pur essendo alla mercé delle due potenze europee, faceva i propri interessi senza alcuno scrupolo. Richelieu nel frattempo, tornava in Francia con l'esercito. Il Cardinale si mosse per schiacciare una rivolta di Ugonotti in Linguadoca e nella valle del Rodano, una delle ultime sacche di resistenza dei protestanti francesi. Insieme all'esercito viaggiavano un gregge di missionari diretti dal cappuccino. In breve tempo moltissimi centri abitati della zona vennero riconquistati al cattolicesimo e anche la nobiltà ritornò sotto l'ala della Chiesa, ma spesso ad un certo prezzo: molti nobili, i più influenti, promettevano di convertirsi e di portare con sé la piccola nobiltà locale, chiedendo però una gratifica pecuniaria. Anche i nobili cattolici si impegnarono in ugual modo, inviando i propri missionari o pagando quelli di père Joseph, il quale, dal canto suo, consacrava chiese, fondava conventi e, nel giro di tre mesi, ne rese operanti venti in altrettante città della zona. Vennero anche applicate delle pressioni amministrative per limitare il culto ugonotto e le sovvenzioni reali per l'istruzione e il mantenimento del clero protestante vennero sospese; vennero nominati commissari regi adibiti al ripristino di tutti i beni della Chiesa e fu vietata la presenza di pastori stranieri in Francia. Queste manovre, seguite alla sconfitta di La Rochelle, fecero sì che il culto protestante diminuì sensibilmente, e cessò l'esistenza di quello Stato dentro lo Stato, che da tempo era uno dei fattori di destabilizzazione dell'ordine interno. Uno degli obiettivi del Cardinale e del suo.</div>
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Alla fine di agosto del 1629, Richelieu era di ritorno a Parigi pronto a trattare le questioni diplomatiche riguardanti Mantova. Carlo Gonzaga, a dispetto dei benefici che gli vennero accordati da Susa, si lamentava frequentemente per essere stato costretto a pagare annualmente Carlo Emanuele. Altre notizie, ancora più preoccupanti, giungevano da due delle principali capitali del tempo, Vienna e Madrid. La Spagna aveva preso molto male la fine dell'assedio a Casale, ritenuta un forte colpo alla capacità di controllare la penisola italiana. Filippo IV di Spagna, si lamentava spesso del fatto che ovunque la sua attenzione si volgesse, trovava sempre i francesi ad ostacolarlo. Il 29 aprile, al Consiglio di Stato in seduta straordinaria per discutere sulla situazione nella pianura padana, lo Spinola sostenne che era impossibile accettare le condizioni francesi così come si presentavano, ma consigliò che Filippo chiedesse, in cambio della sua rinuncia agli interessi sul Mantovano, il ritiro dei francesi da Susa. Olivares, invece, argomentò che i diritti che la Spagna accampava sulla città padana si basavano sulla difesa della Fede: essendo la Spagna il braccio destro della Chiesa, tutto ciò che potesse nuocere a Madrid nuoceva a Roma. Il Consiglio di Stato decise per una dimostrazione di forza nel Milanese, finanziata attraverso la requisizione di oro portato in Spagna da galeoni privati. Subito dopo lo Spinola venne investito del comando in Italia e Gonzalo, il governatore di Milano, venne processato per il suo fallimento, ma dopo l'insuccesso che anche Spinola otterrà, gli venne concessa la clemenza e fu mandato nelle Fiandre. A questo punto l'Imperatore prese l'iniziativa, infastidito dal rifiuto di Nevers di sottomettersi alla giurisdizione del commissario imperiale. Decise così di inviare un esercito in Italia che mise sotto assedio Mantova. </div>
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Spinola cominciò a preparare l'assedio a Casale quando gli imperiali stavano ancora assediando Mantova. Il 29 dicembre dello stesso anno Richelieu partì per l'Italia, deciso a difendere quelle che oramai erano le posizioni francesi nella penisola, oltre che al controllo su Mantova. La politica di Carlo Emanuele era da sempre ambigua, ma quella francese, agli occhi del duca piemontese era ancora più ambigua: da una parte gli venivano fatte concessioni, dall'altra i francesi lo attaccavano. Decise così di seguire ancora una volta la via spagnola. In casa francese, Richelieu si trovò estremamente in difficoltà, questa volta, perché la campagna era decisamente osteggiata dalla regina madre, soprattutto per i soliti rancori verso il Cardinale, ma anche per la sua conosciuta simpatia per la Spagna. Il re in tutta questa situazione, oscillava tra le opinioni della madre e quelle del suo primo ministro, e la primavera del 1630 verrà sprecata non riuscendo Luigi a decidersi se continuare la guerra oppure finirla lì. La scena si ripeté per tre volte: guidare gli eserciti gli faceva bene al morale e alla salute, ma prima o dopo le lettere della madre lo riportavano al solito nervosismo e chiedeva a Richelieu di tornare indietro a Lione, dove erano alloggiate Maria e Anna, le due regine. Il Cardinale spiegava i motivi che rendevano necessaria la continuazione della guerra, il Consiglio approvava le richieste del porporato e Luigi si sentiva rinfrancato. </div>
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Carlo Emanuele, pretese ora che il trattato di Susa venisse rispettato: voleva che le sue pretese sul Monferrato fossero giudicate per via legale, ottenendo probabilmente l'appoggio dell'Imperatore, e che la Francia gli pagasse seimila soldati che, disse, avrebbe utilizzato per assediare Genova. Richelieu, come al solito, non si fidò di queste richieste e fece varcare il Moncenisio al suo esercito, marciando, nel marzo del 1630, su Torino, ma inaspettatamente le truppe piemontesi si ritirarono, chiudendosi dentro le mura della capitale. Toccò al Cardinale fare una mossa inattesa attaccando e conquistando Pinerolo che avrebbe funzionato da avamposto francese nella Pianura del Po. Cominciarono subito le danze della diplomazia con l'arrivo di un rappresentante del papa, che chiedeva la restituzione di Pinerolo alla Savoia. L'uomo in questione era un italiano della Curia, si chiamava Giulio Mazarino e questo fu il primo passo che lo avrebbe portato alla successione del Cardinale. Le trattative si prolungarono, mentre il re occupava Chambéry e Annecy e le truppe imperiali costrinsero i francesi a cambiare i loro piani, facendosi vive alle porte della Lorena. Per contrastare i francesi che si facevano strada in Piemonte il comandante delle truppe cattoliche in Germania, Wallenstein, si mosse, mentre il suo secondo, Collalto, era già in Italia.</div>
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Il 18 luglio 1630 Mantova cadde in mano alle truppe imperiali e venne saccheggiata, Nevers catturato e il generale imperiale, Piccolomini, insieme a Collalto, raggiunse lo Spinola sotto le mura di Casale, che ancora resisteva. A questo punto, mentre le difese di Casale erano sempre più in difficoltà, Carlo Emanuele morì. A succederlo fu il figlio Vittorio Amedeo, che era sposato con la sorella di Luigi XIII, Cristina. Ovviamente schierata a favore degli interessi francesi, Cristina convinse il marito a mettersi dalla parte della pace. Intanto anche le condizioni climatiche giocarono il loro ruolo: la calura estiva che prendeva in una morsa la pianura e la peste che infuriava a Milano resero difficile qualsiasi operazione, mentre gli soldati si ammalavano, sia dalla parte francese, sia da quella ispano-imperiale. Spinola, nel frattempo, era morto vicino a Castelnuovo Scrivia, forse proprio a causa della peste. Un probabile stallo militare convinse Richelieu a rafforzare gli sforzi diplomatici e venne aiutato dal segretario del nunzio pontificio a Torino, Mazarino. Riuscì ad ottenere un armistizio che prevedeva la cessione di Casale agli spagnoli e agli imperiali, mentre la cittadella rimaneva sotto il controllo francese. Se quest'ultima avesse ottenuto soccorsi allo scadere dell'armistizio, la città si sarebbe arresa. Nel frattempo gli ambasciatori francesi cercavano di ottenere dall'Imperatore stesso l'investitura di Nevers per il ducato. </div>
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L'occasione più propizia per rovinare i piani degli Asburgo si presentò a Richelieu e a père Joseph quando l'Imperatore, nel giugno del 1630, organizzò una Dieta degli elettori a Ratisbona.</div>
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<u>Ratisbona </u></div>
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Fino ad ora è stata trattata la politica francese, anche quella estera, ma solo quella inerente a fatti che coinvolsero direttamente i principali personaggi della potenza europea. È arrivato, però, il momento in cui è necessario ampliare gli orizzonti e inserire le decisioni di Richelieu e dei suoi collaboratori in un più ampio quadro, oltre a delineare gli avvenimenti che, dal 1618, coinvolgevano il continente e che sono stati fino ad ora solamente accennati.</div>
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Dopo il 23 maggio 1618, l'Europa precipitò in una guerra da cui sarebbe uscita solo trent'anni più tardi e notevolmente diversa rispetto a prima. Questo evento, considerato l'ultimo conflitto a sfondo religioso nel Vecchio Continente, causò anche il rovesciamento delle egemonie politiche spostando l'asse del potere da Madrid a Parigi. Questo è come, in sintesi, si potrebbe definire la guerra che andò dal 1618 e si chiuse con la pace di Westfalia nel 1648. Fu una guerra tra due, o anche più, confessioni religiose, il protestantesimo e il cattolicesimo; uno scontro tra l'Imperatore, che voleva imporre una volta per tutte il suo potere sulla Dieta, e i suoi elettori e tra gli elettori stessi; una lotta di potere tra una forza in declino, ma ancora detentrice di uno degli eserciti più efficienti, oltre che padrona del più grande impero esistente, la Spagna, e un'altra fortemente decisa a sfidarne il primato, la Francia; erano in gioco gli interessi di Madrid nel mantenere forte il potere imperiale per poter portare a termine le guerra contro le ribelli Province Unite, che sarebbe ripresa nel 1621 allo scadere della pace stipulata dodici anni prima; gli interessi francesi erano invece rivolti verso il sabotaggio di qualunque piano asburgico per evitare di rimanere schiacciata tra i due rami dei discendenti di Carlo V. </div>
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Perché si arrivò alla defenestrazione di Praga? I motivi furono puramente religiosi: la Pace di Augusta del 1555 regolava le questioni fondamentali tra la confessione cattolica e quella protestante. Essa dirimeva, non solo gli aspetti inerenti al culto dei cittadini, il cosiddetto cuius regio, eius religio, ma anche la complicata questione riguardante la proprietà dei beni e le confische dei beni, soprattutto quelli immobili, con il reservatum ecclesiasticum.</div>
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La situazione peggiorò nel momento in cui, nella seconda metà del XVI secolo, si diffuse in Germania anche il Calvinismo, che non era contemplato nei regolamenti di Augusta.</div>
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Come è stato detto, però, i risvolti religiosi si mescolarono a quelli politici e presto divennero secondari. Questo si può ben intuire dal momento in cui potenze cattoliche, come la Francia, si allearono con protestanti come gli svedesi, oppure quando, la stessa Francia, entrò in guerra contro quelli che, seguendo un ragionamento basato sulla religione, avrebbero dovuto essere suoi alleati, la Spagna e l'Impero. Una ulteriore prova della natura non esclusivamente confessionale del conflitto dovrebbe venire dal fatto che molti osservatori contemporanei parlarono di truppe imperiali, bavaresi, svedesi o boeme, non cattoliche o protestanti, che sono distinzioni anacronistiche usate per convenienza dal XIX secolo per semplificare le descrizioni. Un altro avvenimento che fece precipitare gli eventi fu la disputa tra l'Imperatore e i principi. L'Imperatore, infatti, cercò di portare avanti il progetto di farsi eleggere Re dei Romani, fatto che lo avrebbe promosso, da figura elettiva e secondaria nella politica imperiale, a un vero re, creando una propria dinastia e consegnando l'Impero in mano alla famiglia Asburgo, riducendo i poteri della nobiltà tedesca. Con queste premesse, e tenendo conto della radicalizzazione delle appartenenze alle varie confessioni, non c'è da stupirsi se, nel 1618, quando l'Imperatore Mattia nominò re di Boemia Ferdinando II, gli animi si infiammarono. La Boemia, regione a prevalente confessione protestante, si ritrovava come guida un nobile cattolico intransigente. Nel suo nuovo regno, Ferdinando e i suoi collaboratori, portarono avanti una serie di misure provocatorie tra cui l'introduzione della censura per i libri, il rifiuto di usare sussidi ecclesiastici per pagare i ministri protestanti e la proibizione per coloro i quali non fossero cristiani, di accedere alle cariche pubbliche. Inoltre intimarono la cessazione del culto protestante in due città, Broumov e Hroby. La situazione precipitò quando, prima l'Imperatore, poi Ferdinando II, non presero nemmeno in considerazione la Lettera di maestà, stilata nel 1608 da Rodolfo II e che concedeva ai boemi la libertà di culto senza interferenze da parte dell'Impero, e impedirono la riunione dei rappresentanti della Boemia che volevano discutere delle cessioni di territori regi a rappresentanti cattolici. La richiesta dell'Imperatore, a marzo, venne accolta, accordandosi per riunirsi due mesi più tardi. Al contrario, l'interruzione dell'assemblea da parte del cattolico re di Boemia, a maggio, dopo soli due giorni di discussione, esasperò i rappresentanti boemi che si diressero al palazzo di Praga e gettarono dalla finestra i delegati imperiali. Dopodiché i boemi crearono un governo provvisorio. </div>
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Questi fatti diedero il via al conflitto. Ma quale ruolo ebbe la Francia durante il periodo di scontri? Per capirlo bisogna partire da una data che conosciamo già, il 1628, anno in cui La Rochelle cadde sotto i colpi dell'esercito regio. Fino ad allora, e quindi per i primi dieci anni di guerra, Luigi XIII non riuscì a volgere lo sguardo al di fuori dei propri confini. La partecipazione francese, fino a quel momento, si limitò ai finanziamenti nei confronti dei propri alleati e la strategia che guidò Richelieu per la decisione delle proprie alleanze fu quella vòlta a indebolire la casa d'Asburgo sia che si trattasse del ramo tedesco, sia che fosse quello spagnolo. Per questo la Francia appoggiò la Danimarca, nelle sue rivendicazioni sul mar Baltico, o la Svezia che fu provvidenziale per il proseguimento della politica di cui sopra. Avendo le mani libere, come si è visto, una volta eliminato il dissidio interno, Richelieu si rivolse verso l'Italia, non intervenendo, di fatto, nel conflitto tedesco, ramo centrale della guerra, ma allargando, ovviamente, il fronte delle ostilità. </div>
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I tentativi di Richelieu per rovinare i progetti della casa d'Asburgo si mossero anche attraverso le maglie della diplomazia. Le numerose vittorie conseguite fino al 1629, fecero sì che l'Imperatore Ferdinando II si sentisse tanto forte da emanare l'Editto di Restituzione, con il quale stabiliva che tutti i beni ecclesiastici che fossero finiti in mano a protestanti o laici dal 1552, venissero restituiti alla Chiesa. Questo provvedimento incontrò grosse resistenze da parte dei principi, sia protestanti, sia cattolici, perché in primo luogo era stato emanato senza il consenso della Dieta, inoltre avrebbe creato grossi cambiamenti nei diritti di proprietà definitisi da più di un secolo, dopo la pace di Augusta. Inoltre i principi vennero esasperati dalle concessioni fatte da Ferdinando II al boemo Wallenstein, generale imperiale, e mal sopportavano che un avventuriero straniero usurpasse diritti che erano prerogativa di nobili tedeschi da secoli. In ultimo luogo l'arroganza e la sicurezza spinsero l'Imperatore a chiedere che il figlio ottenesse il titolo di re dei Romani. Questi attriti tra Ferdinando e i principi tedeschi, permisero alla Francia di intavolare trattative vòlte alla costituzione di un'alleanza, che comprendesse anche i cattolici dell'Impero. Le difficoltà nel trovare un accordo, anche a causa dell'ambigua politica francese, che di lì a poco si alleerà con il protestante Gustavo Adolfo di Svezia, restrigeranno il campo a un accordo con la Baviera, che, però, nella figura del duca ed Elettore Massimiliano I, rappresentava la principale esponente della Lega Cattolica tedesca. Père Joseph venne coinvolto in queste trattative. Nel marzo del 1630, Ange de Mortagne, segretario del cappuccino dal 1619, redasse dei progetti di trattato per il nunzio apostolico Bagni che aveva proposto la sua mediazione con la Baviera. Quest'ultimo redasse gli Articuli secretiores observandi intra regem Franciae et Electorem Bavariae, per il trattato stesso. Père Joseph scrisse un lungo dispaccio che chiariva punto per punto gli articoli dell'accordo e una lettera, indirizzata sempre a Bagni, in cui esponeva ciò che il nunzio avrebbe dovuto riferire a Wilhelm Jocher, consigliere segreto di Massimiliano di Baviera. In questi dispacci, i francesi, cercarono di concludere un accordo difensivo con Massimiliano, inoltre dovettero dissipare i suoi dubbi nei confronti dell'intervento svedese: Gustavo Adolfo non avrebbe attaccato la Baviera e i suoi interessi erano rivolti all'indebolimento dell'Imperatore e di Wallenstein; se mai gli svedesi avessero attaccato Massimiliano, la Francia sarebbe accorsa in suo aiuto, purché non fosse la stessa Baviera a scatenare le ostilità. Gli accordi portarono alla firma a Fontainebleau dell'alleanza, che, però, non venne rispettata dalla Francia, la quale non intervenne quando, nel 1631, Gustavo Adolfo attaccò la Baviera, facendo riavvicinare così l'Elettore all'Impero. </div>
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Nel giugno del 1630, Ferdinando II riunì a Ratisbona la Dieta. Ferdinando II non convocò mai una Dieta imperiale, ma governò solo promulgando editti lui stesso, o solo dopo essersi consultato con gli Elettori o altri principi a lui solidali. Questo sarebbe stato il corso normale delle cose, sempre secondo Parker, se la sua politica non avesse avuto modo di creare tensioni e divisioni all'interno dell'Impero, cosa che così non fu, come si è visto. A riconferma di ciò, la Dieta convocata nel 1630 non fu imperiale, bensì composta dai soli Elettori. </div>
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Molto utili, al fine di capire come si mosse père Joseph alla dieta, sono l'articolo di Fagniez La mission du père Joseph à Ratisbonne en 1630 e il libro di Paolo Galli I comprimari, tre storie diplomatiche. Richelieu, non aspettò la convocazione della Dieta perché si muovesse per dividere le intenzioni tra l'Imperatore e gli Elettori. Nel 1629 Charnacé, Marcheville e Masson avevano lavorato in questo senso, come anche Ceberet, ambasciatore francese residente a Vienna. </div>
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L'ambasciatore ufficiale della delegazione francese era Charles Brulart de Léon, un piccolo nobile che aveva fatto fortuna come ambasciatore prima a Venezia, durante la guerra di Gradisca e la congiura di Bedmar (1611-19), poi in Svizzera (1628-30). Sebbene debba essere presa con la dovuta cautela, l'opera di Galli ci può dare un'idea dello stato d'animo di un ambasciatore che, secondo l'Autore, si considerava il principale esponente della delegazione francese, ma che poi scoprirà di essere solamente una facciata, davanti al frate che portava istruzioni segrete affidategli direttamente da Richelieu. Père Joseph aveva una posizione singolare: egli non era né un plenipotenziario, né certamente, un semplice esperto affiancato a Brulart, perché era stato accreditato presso l'Imperatore; il cappuccino poteva parlare a nome del re, ma non aveva l'autorità per impegnarlo. La sua reputazione e il conosciuto rapporto che intercorreva tra lui e il Cardinale, rendevano il cappuccino una persona ambigua. Allo stesso tempo, però, conferivano alle sue parole un'autorità senza pari, rispetto alla posizione subordinata che ufficialmente ricopriva. </div>
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Gli appunti personali dei due delegati spiegano il ruolo che ognuno di loro doveva ricoprire durante la Dieta. Già il solo fatto che, secondo Fagniez, i dispacci per Brulart vennero scritti dallo stesso cappuccino, rende l'idea di chi avesse in mano le operazioni. Le indicazioni generali erano l'insieme di argomentazioni che potevano essere sollevate al cospetto del collegio elettorale. I due ambasciatori avrebbero dovuto promettere agli Elettori l'appoggio della Francia nel momento in cui Ferdinando avesse imposto proprie condizioni alla Dieta. Père Joseph aveva dettato per Brulart anche delle informazioni segrete che regolavano il comportamento che l'ambasciatore avrebbe dovuto tenere nei confronti dei singoli elettori. </div>
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Ciò che risulta tralasciato dai dispacci dei due delegati, anche in quelli segreti, è la questione sulla successione di Mantova, che era il motivo, agli occhi di tutti, per cui i francesi fossero presenti a Ratisbona. I due infatti non erano autorizzati ad avanzare nuove proposte in merito per non creare un doppione delle negoziazioni che avvenivano in Italia e che avrebbero portato al trattato di Cherasco. Père Joseph aveva anche istruzioni lasciate direttamente da Richelieu, che rimasero segrete per Brulart, che autorizzavano il cappuccino a concludere un'alleanza con Massimiliano di Baviera </div>
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Secondo la ricostruzione di Fagniez, Père Joseph si separò da Richelieu a Grenoble il 2 luglio, raggiungendo Brulart a Soleure una settimana dopo. Da lì si mossero verso Costanza dove arrivarono il 18 luglio e da qui scrissero a Wallenstein, generale imperiale, per ottenere un salvacondotto, per rendere più sicuro il loro viaggio fino a Ratisbona. Il generale mandò loro incontro il suo primo ciambellano che li portò fino a Memmingen dove si trovava il quartier generale di Wallenstein. Huxley parla di quell'incontro: nella calda giornata di luglio il condottiero tedesco andò incontro all'ambasceria francese con diciotto cocchi carichi di nobili ungheresi e boemi. Al momento dell'incontro gli emissari che viaggiavano da una carrozza all'altra per decidere le complicate problematiche delle precedenze, infine i saluti, con il cappuccino, scalzo, che osservava la scena in disparte, chinando la testa e alzando la mano destra a benedire quando veniva coinvolto. Quando Wallenstein fece per invitare Brulart a sedere nella propria carrozza, chiese di père Joseph, che sapeva essere in quella legazione e che avrebbe avuto il piacere di conoscere. Père Joseph cercò di rifiutare un invito tanto sontuoso, contrario alle proprie regole, eppure alla fine si fece convincere e salì. Dei due incontri che ci furono a Memmingen tra père Joseph e il generale tedesco nulla rimase nelle corrispondenze a parte l'accenno che fece Wallenstein all'arciduca Leopoldo sulle intenzioni di pace che il cappuccino gli riferì. Quello che su cui tutti gli studi sembrano concordare sono gli argomenti che si sarebbero trattati durante quei colloqui. Wallenstein era un uomo estremamente ambizioso e i successi da lui ottenuti contro le forze protestanti fomentavano la sua mania di grandezza. Père Joseph scoprì a poco a poco che gli interessi di quell'uomo collimavano con i suoi, anche se spinti da motivazioni ben diverse: entrambi volevano la liberazione di Costantinopoli e la sconfitta dei Turchi, ma Wallenstein mirava a costituire un principato, retto da lui in persona, che si estendesse dal Baltico al Bosforo fino alla Siria; Huxley, nel suo tentativo di sovrapporre gli eventi del XX secolo, con il periodo di cui tratta, afferma che il generale tedesco prendeva a pretesto la crociata del cappuccino per realizzare il Drang nach Osten. Il termine tedesco, coniato nel XIX per giustificare l'espansione tedesca verso Oriente, risulta però essere anacronistico. È credibile pensare che le aspirazioni di Wallenstein si inserissero in una cultura di allargamento delle frontiere tedesche verso est, che già dal Medioevo era presente nell'Europa centrale (non a caso la Prussia, futuro stato nazionale tedesco, affonda le sue radici negli spostamenti delle popolazioni germaniche verso est), ma è probabile che le intenzioni di Wallenstein non facessero capo ad un grande progetto di espansione germanica, bensì ad un semplice progetto personale, influenzato da una cultura diffusa da tempo. I due a Memmingen discussero anche della questione di Mantova: Wallenstein, con stupore di père Joseph, non era d'accordo con la politica degli Asburgo in Italia e riteneva incomprensibile entrare in guerra con la Francia per un piccolo ducato. Era favorevole, dunque, a lasciare a Carlo di Gonzaga la sua eredità, tanto più che, come ultimo discendente dei Paleologi di Costantinopoli, quell'uomo avrebbe potuto tornargli utile nella realizzazione dei suoi progetti. Fu a questo punto che i doveri di père Joseph e le sue ambizioni si scontrarono: da una parte egli trovava quest'uomo utilissimo per portare a termine il sogno della sua crociata, dall'altro aveva ricevuto istruzioni affinché Wallenstein fosse destituito, eliminando un ostacolo a Gustavo Adolfo, re di Svezia e alleato della Francia, che si trovava già in territorio tedesco. </div>
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In questi giorni, presumibilmente, giunse alle loro orecchie la notizia della caduta di Mantova, del 18 luglio, e la presa di Saluzzo da parte dei francesi, due giorni dopo, ma l'esercito era in difficoltà a causa della peste che imperversava nella pianura. La questione mantovana, da risolvere durante i negoziati, si faceva quindi più complicata e, soprattutto, di primaria importanza rispetto a quando si erano congedati da Richelieu. Le istruzioni lasciate a Brulart dal Cardinale erano di concludere una "pace in Italia", lasciandolo, però, senza alcuna ulteriore informazione più specifica. </div>
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Il 25 luglio, père Joseph e Brulart proseguirono il viaggio, congedandosi da Wallenstein, e si recarono a Ulm, da cui si imbarcarono sul Danubio, fermandosi a Donauverth. Il 29 luglio arrivarono a Ratisbona. Père Joseph non era un ambasciatore, ma non era neanche, nelle intenziondi di Richelieu, un semplice osservatore. Egli aveva la possibilità di parlare al nome del re, ma non l'aveva per impegnarsi, essendo ufficialmente subordinato all'ambasciatore. Nonostante questo, il suo legame con il Cardinale, la sua reputazione, il suo ruolo nella direzione degli affari esteri francesi, rendevano le sue parole un'autorità senza pari, rendendolo un membro del governo francese. </div>
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Ratisbona, all'arrivo dei due delegati, era una città in fermento. Si possono immaginare aggirarsi tra le sue vie, oltre alle legazioni di molti Paesi, e il seguito dovuto, c'erano principi tedeschi, piccoli e grandi proprietari, molti di questi venuti a chiedere soluzioni alla catastrofica situazione portata dalla guerra; le strade brulicavano, come accadeva in queste occasioni, di mercanti, mendicanti, chierici, e molto altro, dando "l'impressione di una fiera gigantesca". Il 2 agosto i rappresentanti francesi aprirono le danze con un colloquio al cospetto dell'Imperatore, al quale cercarono di spiegare che le voci che gli arrivavano dalla Francia, secondo le quali Richelieu voleva ribaltare l'ordine del potere tedesco: le voci che giravano erano state messe in giro da nemici del Cardinale, i quali volevano screditarlo. In questa occasione père Joseph venne invitato a tornare il giorno dopo. Il 3 agosto, dunque, il cappuccino si trovò di nuovo in presenza dell'Imperatore accompagnato dal suo confessore, il gesuita Wilhelm Lamormaini. Questo era risaputo fosse contrario alla guerra in Italia e père Joseph sollevò subito la questione della successione di Mantova. Gli venne chiesto quali fossero i poteri dati ai due ambasciatori per trattare e il cappuccino rispose con una mezza verità per avere libertà di manovra nei futuri negoziati, rispondendo che Brulart aveva pieni poteri per trattare condizioni ragionevoli, ma che fosse necessaria una approvazione del re. Nelle successive assemblee le discussioni verterono principalmente sul problema dei poteri dell'ambasciatore francese e sulla necessità di dover comunque continuare i negoziati, seppur senza prendere alcun impegno. La situazione si mantenne, però, complicata per i due ambasciatori, dato che, l'Imperatore spingeva per una pace in Italia e venne aggravata dalla presenza del re svedese, che si proclamava guida di una coalizione di cui faceva parte la stessa Francia, creata con lo scopo di contrastare Ferdinando. I due ambasciatori, ovviamente, negarono e affermarono che la presenza di Charnacé presso Gustavo Adolfo, non avallava l'ipotesi della coalizione anti-imperiale, ma che il francese era stato trattenuto dal sovrano svedese a causa dell'aiuto che aveva portato in occasione della pace con la Polonia e della stima che ne era conseguita. </div>
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Queste poche righe possono solo rendere l'idea di come i due ambasciatori dovettero muoversi in un terreno, minato. Essi, infatti, non avrebbero dovuto in alcun modo nominare Mantova (cosa a cui evidentemente sarebbero stati costretti, prima o dopo, per le pressioni imperiali), senza far notare che non era la ragione per cui si trovavano a Ratisbona. Dovevano invece concentrarsi, sempre senza dare nell'occhio, nel trovare un accordo con gli Elettori, per allontanare i loro interessi da quelli di Ferdinando.</div>
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Non sarebbe produttivo addentrarsi in una descrizione minuziosa degli avvenimenti, giorno per giorno, dei negoziati. L'importante qui è capire quale ruolo ebbe, effettivamente, père Joseph nell'indirizzare e governare i negoziati. </div>
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L'attività di père Joseph a Ratisbona, molto facilmente, sfugge a qualsiasi ricostruzione, trattandosi, come di consueto, di colloqui informali, non riportati nemmeno nelle corrispondenze. Le istruzioni, gli appunti personali, di cui si è parlato prima, scritte per sé e per Brulart, contengono informazioni che avrebbero reso la presenza dei delegati francesi inutile. Perché inviare père Joseph per convincere gli Elettori a giungere a delle conclusioni a cui erano già arrivati? Gli Elettori erano ben consapevoli dei loro interessi, erano nobili tedeschi, ancor prima di uomini credenti, e le loro convenienze erano indirizzate verso il rovesciamento dei piani di Ferdinando II. In questo senso, père Joseph non fu né un burattinaio, né fu succube di ciò che avvenne in Germania. Gli Elettori raggiunsero i loro successi solo grazie alla presenza di père Joseph alla Dieta e al conseguente appoggio francese, che solo grazie al cappuccino si manifestava concretamente a loro. Père Joseph, dunque, fece da collante tra i nobili tedeschi, permise loro di prendere coraggio e, non solo di porre richieste all'Imperatore, ma anche di osare oltre. Ferdinando cedette di fronte alle richieste della Dieta (licenziare Wallenstein, dismettere parte dell'esercito, non sciogliere la Lega Cattolica, rinunciando a fondere l'armata di quella in quella imperiale) convinto di poter così imporre le proprie decisioni. Invece gli Elettori non acconsentirono all'elezione del figlio a Re dei Romani, nella convinzione che, una volta ceduto su quel punto, l'Imperatore si sarebbe rimangiato tutto ciò che aveva concesso. Il merito dell'unanimità di queste decisioni venne dall'intervento dei delegati francesi, che assicurarono ai singoli elettori che non sarebbero rimasti soli nell'opposizione all'Imperatore. </div>
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Il problema sorse nel momento in cui la delegazione francese cominciò a ricevere le pressioni sulla questione di Mantova. Fu a questo punto che i due ambasciatori cominciarono a ricevere sempre meno informazioni da Richelieu. Le ultime notizie che ricevettero risalivano al 22 settembre, in cui si diceva che il re era stato colpito da febbre e si temeva per la sua vita, tanto che gli vennero amministrati i sacramenti. Richelieu, però, non rispose alle richieste di Brulart perché gli fossero date maggiori istruzioni su come risolvere le insistenti richieste di una risoluzione della questione mantovana. Presi tra due fuochi senza notizie dalla Francia e pressati dall'Imperatore, temendo che il re morisse, anche gli ambasciatori francesi accelerarono le operazioni. Lo fecero per il timore che anche la loro posizione fosse compromessa nel caso in cui, morto Luigi XIII, il nuovo re attuasse una politica filo imperiale e tutti i loro sforzi venissero resi vani. Lo stesso Richelieu temette per la propria vita ora che la regina madre e i suoi, con il re in fin i vita, tornarono a minacciare la sicurezza del Cardinale. Il 3 ottobre i due ambasciatori seppero che il re si era un po' ripreso, ma che stava subendo le pressioni di Maria de' Medici e della regina Anna. La sera stessa, Brulart e père Joseph, decisero di tentare di resistere finché avessero potuto e inviarono un corriere a Parigi con la richiesta di avere l'autorizzazione a procedere per la firma del trattato, minuziosamente descritto, che veniva loro proposto. Le condizioni sembravano accettabili per la Francia, una pace generale, che avrebbe salvato anche Richelieu, accusato di aver coinvolto la Francia nella guerra. Il 12 ottobre fu chiaro che non avrebbero potuto tergiversare oltre. Il 13 ottobre 1630, dopo che père Joseph impose a Brulart di firmare, per salvare Richelieu. I francesi si sarebbero ritirati dall'Italia tranne che da Susa e Pinerolo, mentre Carlo Gonzaga di Nevers avrebbe preso possesso di Casale senza fortificarla. Le truppe francesi e quelle imperiali avrebbero dovuto lasciare contemporaneamente l'Italia, a parte alcune piazzeforti, da abbandonare solo dopo che i patti fossero stati rispettati. Inoltre il l'accordo avrebbe legato le mani alla Francia, mettendola in cattiva luce nei confronti degli alleati con cui si stava trattando, come la Svezia. L'Imperatore obbligò anche père Joseph di ratificare il trattato, nonostante le resistenze del cappuccino, che continuò a sostenere di essere un semplice osservatore. Alla fine anche la firma dell'Eminenza grigia venne posta in calce all'accordo. </div>
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Fagniez fa notare come sia emblematico il silenzio di Richelieu nei confronti dei suoi inviati a Ratisbona proprio nel momento in cui loro avevano più bisogno di una sua opinione. Ciò, secondo l'Autore, scarica sul Cardinale tutti i problemi che l'accordo stesso porterà. Richelieu abbandonò in qualche modo i suoi ambasciatori perché doveva occuparsi di mantenere la propria posizione a Corte, oltre al fatto che, ormai, erano in corso due trattative parallele (proprio quello che lui si auspicava non accadesse). Egli doveva fare attenzione a cosa veniva deciso in Italia, fronte che lui riteneva più importante, dal punto di vista diplomatico, per la risoluzione della successione mantovana. Questo apparente disinteresse, inoltre, rende vano ogni tentativo di giustificare il Cardinale nella decisione che prese, una volta che venne a conoscenza dell'accordo. La notizia della pace contenuta nel Trattato di Ratisbona si diffuse velocemente, scatenando la gioia di tutti. Nel momento in cui arrivò al Cardinale il testo, il 19 ottobre, andò su tutte le furie, stracciò il foglio che aveva in mano e disse che gli ambasciatori erano andati oltre le istruzioni ricevute, che il trattato era inservibile e che non sarebbe stato ratificato. Il lavoro fatto per salvargli la vita era stato vano. Questo fu un atto decisamente coraggioso da parte del Cardinale: egli attirava su di sé tutte le ire di una pace mancata. Proprio nel momento in cui il re era più facilmente influenzabile, inoltre, Richelieu avrebbe dovuto spiegare, portando motivazioni molto convincenti, i motivi del suo rifiuto. Maria de' Medici nel frattempo, non perdeva l'occasione per fare pressioni sul figlio affinché il ministro, che aveva ripudiato una pace onorevole e sperperato il denaro francese per la sua politica senza capo né coda, fosse messo da parte da Luigi. Avendo ricevuto una prima risposta interlocutoria, la regina madre riuscì a parlare con il figlio nelle proprie stanze al Palais du Luxembourg, il 10 o l'11 novembre, cercando nuovamente di convincere il figlio a destituire l'Eminenza rossa e dando l'ordine che nessuno entrasse. Richelieu, però, avvertito della cosa e preoccupato sempre più dell'insistenza di Maria nei confronti del re, si recò anch'egli al Luxembourg e riuscì ad entrare nella stanza in cui si teneva il colloquio. È difficile dire cosa accadde nella stanza, i resoconti sono diversi e in modo diverso raccontano gli avvenimenti. Tutti concordano nell'affermare che, nel momento in cui Maria vide entrare Richelieu, spostò l'attenzione delle sue invettive dal re al diretto interessato, aggredendo verbalmente in modo violento il Cardinale. Richelieu, già preoccupato per quello che stava accadendo, venne scosso dall'attacco della regina e si gettò in ginocchio piangendo. La rabbia della regina, però, si rivolse anche verso di lui, nonostante Luigi non avesse fatto alcun gesto a favore di Richelieu. Il re, che aveva seguito la scena con apparente impassibilità, fu disgustato da quello spettacolo. Luigi fece cenno a Richelieu di ritirarsi e quindi, se ne andò anche lui, ritirandosi a Versailles. La regina madre fu visibilmente soddisfatta e così tutti i suoi collaboratori devoti. Tutti erano convinti che ormai la sorte del Cardinale fosse segnata, e forse lo pensava lui stesso se è vero, che, pronto a partire, cominciò a far impacchettare i quadri affinché non fossero saccheggiati dalla plebe. La sera stessa Richelieu venne convocato a Versailles. Il Cardinale, arrivato nelle stanze reali, si mise in ginocchio davanti a Luigi, affermando che lui era il migliore dei giudici, rimettendo nelle sue mani il proprio avvenire. Il re lo descrisse come il servitore più fedele e affezionato, garantendogli che la sua posizione era sicura e che aveva già ordinato l'arresto di Marillac, l'uomo che Maria avrebbe voluto al posto del Cardinale. La "Journée des Dupes", la giornata degli ingannati, si era consumata e tutti rimasero stupiti del suo esito, in primis la regina madre. </div>
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Facendo un passo indietro, père Joseph e Brulart ricevettero un dispaccio da Luigi XIII, il quale dava istruzioni per alcune modifiche al trattato firmato dai due. Il cappuccino, per cercare di soddisfare le richieste arrivate da Parigi, chiese l'appoggio dell'Imperatrice, ma Ferdinando fu irremovibile. da Ratisbona era stato richiamato in Francia dopo la firma del trattato. Egli aveva seguito da lontano le vicende del "suo" cardinale, aveva sicuramente temuto per la sua sorte e gioito quando seppe che era stato riconfermato, ma sapeva che la sua scelta di concludere un accordo con l'Imperatore non era stata approvata dall'Eminenza rossa. Dopo aver fallito nel modificare il testo modificato, i due ambasciatori si misero in viaggio verso la Francia. Arrivati quasi al confine, nuove disposizioni li raggiunsero e li divisero: Brulart venne inviato a Vienna, per continuare la revisione del trattato, mentre père Joseph venne richiamato in Francia. Il cappuccino proseguì il viaggio e, al suo arrivo a Parigi, intorno al 19 dicembre, risentito di alcune parole con le quali Richelieu aveva ripreso il suo operato, si recò nel suo convento di rue Saint-Honoré senza voler vedere il Cardinale. Richelieu non se la prese per quest'atto di fierezza, ma gli fece avere i suoi complimenti il giorno successivo e gli fece visita due volte, convincendolo a tornare a Rueil e agli affari di Stato. Il trattato in fin dei conti non aveva creato troppi danni, le trattative con Gustavo Adolfo continuavano e, anzi, l'operato di père Joseph a Ratisbona era stato utilissimo: Ferdinando non era riuscito a far eleggere suo figlio Re dei Romani, l'esercito imperiale era stato indebolito e gli Elettori si voltavano sempre di più verso la Francia.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-89491218876159709242011-11-07T14:39:00.000+01:002011-11-12T01:20:44.963+01:00Padre Giuseppe, La Rochelle<div style="text-align: right;">
-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe e Richelieu</span></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-i-primi-anni-e-la.html">Padre Giuseppe, i primi anni e la predicazione</a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-lascesa-di-richelieu.html">Padre Giuseppe, l'ascesa di Richelieu </a></div>
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-Padre Giuseppe, La Rochelle</div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-leminenza-grigia.html">Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia</a></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, il Cardinale mancato</span></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, l'uomo religioso</span></div>
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3b/Siege_of_La_Rochelle_1881_Henri_Motte_1846_1922.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="197" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3b/Siege_of_La_Rochelle_1881_Henri_Motte_1846_1922.jpg" width="320" /></a></div>
La Francia si dimostrava essere profondamente divisa. Le due ribellioni della regina madre avevano mostrato non solo quanto fosse precario il potere reale, ma anche come fosse difficile per il sovrano controllare il territorio. Chiunque avesse un briciolo di potere era in grado di utilizzarlo a proprio vantaggio esautorando colui che gli aveva consegnato quello stesso potere. I governatori di province, come fu per Carlo Gonzaga Nevers, potevano in qualsiasi momento utilizzare le risorse a loro momentanea disposizione per muovere contro i propri avversari politici.</div>
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Le divisioni nel paese, però, non si fermavano qui. Come già detto, infatti, esistevano, disseminate sul territorio francese, piazzeforti o città sotto il controllo ugonotto. Soprattutto nella Francia meridionale esse godevano di un'indipendenza che nessun altro Stato europeo tollerava e la minaccia di tendenze separatiste era sempre in agguato, per questo Richelieu definì i protestanti un vero e proprio Stato nello Stato. L'Editto di Nantes, nonostante tutte le premesse e gli scopi che si prefiggeva, aveva creato una situazione completamente opposta ai risultati sperati, e dato vita a una sorta di ceto privilegiato rispetto al resto della nazione. La questione religiosa divenne presto una questione politica, tanto più che molti passavano al calvinismo solo per interesse. </div>
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Gli eventi della campagna contro gli Ugonotti dei primi anni venti risultarono molto favorevoli al cappuccino e al suo amico vescovo. Nel tentativo di reprimere le forze protestanti in giro per la Francia, Luynes pose sotto assedio Montauban una delle principali roccaforti protestanti. L'assedio durò alcuni mesi e senza risultati, dimostrando le scarse capacità militari del protetto del re. Luigi XIII che dopo qualche tempo perse entusiasmo per la questione preferì dedicarsi alla caccia, lasciando l'incombenza al nobile. Tempo, uomini e mezzi vennero sprecati in quantità per l'assedio che non solo non permise la conquista della città, ma nel dicembre del 1621, portò alla morte di Luynes per un attacco di tifo. Le porte si spalancarono per gli interessi di Richelieu, il quale attese con pazienza il lavoro del più influente amico cappuccino a Corte.</div>
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La pace di Montpellier, firmata nel 1622, aveva lasciato gli Ugonotti con circa la metà delle città che avevano due anni prima, ma rimanevano in alcune zone battaglieri, soprattutto nel sud-ovest, e dove si erano arresi, pronti a riprendere le armi. Fu poco prima della firma del trattato che Richelieu riuscì ad avere il proprio cappello cardinalizio: il re, non avendo più l'opposizione di Luynes, cedette alle pressioni del giovane vescovo, il quale approfittò anche della tradizione della Francia di avere quattro cardinali, e che fosse appena morto quello di Retz. Il nuovo cardinale si fece subito notare concedendo i suoi servigi a Maria de' Medici, organizzando un ricevimento a cui parteciparono la regina madre e i principi e lasciando Luçon, comprando il castello di Rueil, vicino a Parigi. Se Richelieu fosse convinto che la sua nuova carica avrebbe smosso immediatamente a suo favore le torbide acque della politica di Corte non lo sappiamo, ma è certo che se così fosse stato, rimase molto deluso. La sua posizione era di quelle più influenti e più ascoltate seppur indirettamente, ma il re non ne voleva sapere della presenza di quell'uomo al suo fianco. Richelieu, mediante Maria, riusciva sempre a mettere la sua opinione nel piatto del Consiglio della Corona, la quale opinione spesso riusciva più a genio di molte altre. Per tenerlo lontano dalle assemblee più importanti si cercava spesso di affidargli missioni diplomatiche all'estero, che erano sempre rifiutate con la scusa di voler condurre una vita privata. Le intenzioni di Richelieu erano infatti quelle di rimanere alle costole della regina madre, su cui aveva più influenza, per ottenere di nuovo un posto nel Consiglio. Nonostante questo, egli sapeva che il suo potere o la sua ascesa sarebbero dipesi solamente dal re e non dal Consiglio o da Maria de' Medici, dato che bastava una semplice indicazione dalla corona perché tutta la fatica fatta risultasse vana. L'imprevedibile personalità del re, che già si era fatta notare in alcuni episodi descritti in cui aveva inciso particolarmente sugli eventi, era stata influenzata dai sempre duri rapporti con la madre. Luigi era un personaggio malato, afflitto dalla tubercolosi già a circa vent'anni e logorato dalla nevrastenia. Era capace di grande gentilezza, ma per via di una grande gelosia era portato a sospettare delle motivazioni di tutti. Certamente i numerosi salassi che era costretto a subire e le medicine che doveva assumere non aiutavano, ma era di suo uno spirito vendicativo e nomade tanto che aveva spesso bisogno di svaghi, stufandosi presto di ciò che si stava occupando e lasciandone ad altri le incombenze. Egli odiava la felicità e i successi altrui, tanto che spesso si trovò ad allontanare coloro i quali, con i loro successi, rendevano più grande la sua immagine. Nonostante tutti i difetti che aveva riuscì a trasmettere al figlio un acuto senso del destino reale (che lui pensava come qualcosa di mistico) e la capacità nello scegliere i più validi collaboratori. Era chiaro che non era facile riuscire a fare breccia nell'animo di questo sovrano, ma ben presto il re si rese conto, nonostante tutte le gelosie e le ritrosie nei confronti di quel cardinale malato tanto quanto lui, che era l'uomo adatto con cui collaborare. Cedendo alle costanti pressioni che muovevano contro di lui, vinse la sua avversione nei confronti del Cardinale e lo ammise al Consiglio il 29 aprile 1624. La prima mossa che Richelieu fece fu quella di depositare sul tavolo un lungo documento in cui rivendicava i privilegi dovuti in Consiglio a un cardinale esasperando il capo di tale istituzione, il marchese di Vieuville, che venne esautorato dal suo incarico dal re. A questo punto il re chiese pareri a Richelieu su cosa si dovesse fare con il Consiglio e la risposta che ricevette fu quella di non causare un avvicendamento di ministri, dato che il paese era già in ginocchio economicamente. Una volta fatto da parte Vieuville e riunito il Consiglio, il re diede a Richelieu la parola e lui spiegò al Consiglio le sue idee in politica interna e estera, tutti gli errori fatti fino ad allora e anche che il re avrebbe dovuto comportarsi in modo che tutti sapessero che si occupava in persona dei propri affari. Il re rimase colpito dal suo discorso e brevemente riconobbe che l'amministrazione Luynes era stata disastrosa e volle che da allora gli affari di Stato fossero gestiti nel miglior modo possibile. Il primo incarico che ricevette Richelieu fu quello di Segretario di Stato per il Commercio e la Marina, oltre a diventare capo del Consiglio e una delle prime cose che fece fu scrivere al cappuccino Joseph affinché lo raggiungesse a Parigi.</div>
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<span style="font-size: small;"><u><b>La Rochelle</b></u></span><br />
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L'accordo del 1621, seguito al fallimentare assedio di Montauban in cui morì Luynes, era estremamente fragile. Il problema era particolarmente grave dato che nessuna delle due parti, i protestanti e il re, si curarono minimamente di mantenere gli accordi presi, anzi approfittarono di ogni occasione per ottenere vantaggio. Questo conflitto latente era destinato prima o poi a esplodere apertamente, e la prima occasione di scontro avvenne nel 1625 per iniziativa del protestante duca di Soubise. Al comando di una piccola squadriglia di navi da guerra, occupò una delle isole strategiche al largo di La Rochelle e fece incursioni nei porti realisti, catturando, oltre a un ingente bottino, anche le cinque navi che con tanta cura e fatica père Joseph e Carlo Gonzaga di Nevers avevano fatto costruire per trasportare i crociati in Terra Santa. Quando la situazione per lui si fece pericolosa, spiegò le vele e fece rotta per l'Inghilterra dove venne accolto come un eroe protestante. Il principale artefice della politica inglese dell'epoca fu George Villiers, duca di Buckingam, favorito del re. Fu lui ad organizzare, insieme a Richelieu, il matrimonio di cui si è già parlato tra Carlo, futuro re d'Inghilterra, ed Enrichetta. I rapporti con gli inglesi, iniziarono, però, ben presto a deteriorarsi, anche per l'appoggio che venne dato a Soubise e cominciarono gli scontri sui mari con catture di vascelli da entrambe le parti. Si arrivò così al 1626, quando nel porto di Bordeaux venne catturata una grossa flotta mercantile inglese, che portava vino in patria. L'Inghilterra rimase senza vino e i prezzi aumentarono enormemente, così a sua volta Londra rispose con un'ordinanza che prevedeva la confisca di tutte le navi e le merci francesi in acque inglesi. Un nuovo attacco nell'Atlantico ai danni della flotta francese nel marzo del 1627, non fece altro che peggiorare le cose.</div>
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In tutta fretta la Francia concluse un'alleanza con la Spagna. Le motivazioni di questo gesto, che sembrava andare contro la politica tenuta fino ad allora da Richelieu e dal suo entourage erano, come sempre, un complicato incrocio di interessi politici e religiosi. Da una parte la Spagna sperava, dopo gli accordi di Monzon, di attirare sempre di più verso di sé la Francia nella lotta contro i protestanti, soprattutto quelli tedeschi. Dall'altra parte, questo accordo, avrebbe portato due conseguenze per la Francia: la prima comportava l'interruzione degli aiuti navali olandesi contro gli Ugonotti; la seconda, invece, avrebbe portato alla rottura dei rapporti con l'Inghilterra, che avrebbe, di riflesso, rotto quelli con il loro alleato Federico del Palatinato, suocero del defunto Giacomo I. La Francia, inoltre, aveva bisogno dell'appoggio spagnolo, nell'eventualità in cui gli inglesi avessero deciso di mandare aiuti a la Rochelle. Anche questo accordo si rivelò però inutile per entrambe le parti, dato che nessuno voleva cedere ai bisogni altrui, ma il mancato buon rapporto non impedì agli inglesi di agire per proprio conto a danno delle due potenze continentali. Il 19 giugno 1627 Buckingham organizzò una spedizione segreta, comandata da lui stesso, che consisteva nel mandare a La Rochelle ingenti forze di fanteria, chiedendo agli abitanti se fossero disposti ad accoglierle. Se la risposta fosse stata affermativa, le truppe sarebbero andate sotto il comando di Soubise, altrimenti sarebbero tornate in Inghilterra. Una volta creata una guarnigione a La Rochelle, sarebbero salpati verso la Garonna dove erano custodite le navi con il vino. Quando fu nei pressi della Rochelle, Buckingam fece sbarcare le truppe sull'Ile de Ré, un isola di fronte alla città, ma queste mal equipaggiate, reclutate a forza e spesso carenti di rifornimenti, disertarono in massa oppure si dispersero non appena il governatore dell'isola, Jean de Saint-Bonnet de Toiras, inviò un distaccamento di cavalleria a contrastare le prime unità scese a terra. Il fortino di Saint-Martin era inespugnabile. Nel frattempo Soubise ricevette il rifiuto da parte dei cittadini di La Rochelle di far entrare i soldati. Richelieu era certo che se Buckingham avesse preso il forte di Saint-Martin, La Rochelle si sarebbe ribellata ancora una volta. Mise così in atto un meccanismo per arginare o per contrastare i possibili eventi futuri, dando a Gastone il comando supremo della zona, anche se il comandante effettivo era il duca d'Angoulême e fece affluire armati vicino a La Rochelle. Ad agosto, il duca aveva tanti effettivi quanti Buckingam sull'Ile de Ré.</div>
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La situazione a Parigi, però, si fece difficile per Richelieu: Luigi XIII era malato e si credette stesse per morire, ma la prospettiva che Gastone diventasse re, lo metteva in ansia e crebbero i dubbi sulle vere intenzioni degli abitanti di La Rochelle, facendolo esitare nel considerarla una città nemica. I dubbi che lo attanagliavano lo spinsero a consultare nuovamente père Joseph, il quale consigliò decisamente l'intervento per eliminare una volta per tutte il centro di qualsiasi possibile sedizione. Il cappuccino era in stretto contatto con i cattolici in città e aveva ricevuto ogni sorta di informazione, dalle difese alle scorte di cibo. Alla fine di luglio Luigi si riprese e riuscì a partecipare alla seduta del Consiglio, durante la quale chiarì con decisione che il suo volere doveva essere ascoltato in tutto il regno e che aveva deciso di partecipare all'assedio.</div>
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L'azione contro La Rochelle, se nell'immediato fu organizzata per impedire agli inglesi di invadere, a tutti gli effetti, il territorio francese, divenne poi un lungo e costante assedio contro una città governata da protestanti, che avevano chiesto l'aiuto (più o meno costretti) di altri protestanti. Nonostante gli avvenimenti sopra descritti, non bisogna pensare, che l'azione a La Rochelle sia stata organizzata dal nulla o fosse un'idea nuova. Come già detto gli accordi con i protestanti non reggevano e la paura di una nuova ribellione serpeggiava tra gli ambienti cattolici. Da molto tempo père Joseph incitava Richelieu affinché schiacciasse i ribelli Ugonotti e limitasse la diffusione della loro confessione, causata spesso più da interessi personali che da questioni di fede. Bisognava togliere dalle loro mani i maggiori privilegi che l'Editto di Nantes aveva concesso, in primis le piazzeforti e il potere militare. Questa opinione era condivisa da molti membri del clero, della magistratura e del ceto medio. Père Joseph considerava la presenza del re estremamente importante per il buon morale delle truppe, nonché, opinione condivisa da Richelieu, per restaurare l'autorità regia sui nobili.</div>
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Il re, completamente ristabilitosi dalla malattia, arrivò a La Rochelle a metà agosto. La città era già ridotta alla fame per il taglio delle vie di comunicazione da parte delle truppe di Angoulême, ma il governatore non aprì le porte al re, chiedendo invece rifornimenti a Buckingam e mettendo quest'ultimo in grosse difficoltà con i suoi uomini. Al seguito di Luigi XIII c'erano anche il Cardinale, il quale si stabilì a Pont-de-la-Pierre, vicino alla costa, e père Joseph. Quando, a La Rochelle, si seppe dove risiedeva Richelieu, si progettò di rapirlo, ma gli uomini del frate furono più veloci ad avvertire il prelato e, quando i rapitori si avvicinarono all'abitazione del Cardinale, si trovarono di fronte i moschettieri del re e lui stesso a capo di uno squadrone di cavalleria pronto alla carica. Il cappuccino ricevette l'invito a sistemarsi nell'abitazione scelta da Richelieu, ma, restìo ad accettare comodità e onorificenze, si stabilì in una piccola casa abbandonata che sorgeva vicino a un fosso all'estremità del giardino. Da questo povero rifugio père Joseph si mosse per mantenere ben saldo l'assedio alla città. Questo periodo venne descritto in una lettera alle sue monache come "peggiore dell'inferno", non tanto per la sgradevolezza dell'alloggio, quanto per la difficoltà che trovava nell'avvicinarsi, con la preghiera, a Dio. Le poche ore di sonno che si concedeva, si incastravano malamente con le sue attività nel campo dell'esercito a fianco di Richelieu e con il suo desiderio di isolarsi per pregare. Si consolò pensando che anche l'assolvimento dei compiti che Richelieu gli dava fosse un modo di rispettare volontà di Dio. Le incombenze di père Joseph erano estremamente varie: era responsabile del benessere morale e spirituale dell'esercito; con un buon numero di cappuccini ai suoi ordini, celebrava funzioni, faceva sermoni e ascoltava confessioni. Gli stessi cappuccini in collaborazione con i medici organizzavano ospedali, facevano da porta-feriti durante gli scontri e davano l'estrema consolazione ai morenti. Ma oltre a tutto ciò père Joseph a La Rochelle prese parte a consigli di guerra e diede il suo parere su tattica e strategia, proponendo anche piani che a volte vennero messi in atto, ma che per incapacità degli esecutori andarono sempre a vuoto, cosicché la sua immagine cominciò a risentirne. I piani che progettava erano il frutto dello studio delle informazioni che i suoi agenti cattolici o i traditori ugonotti gli portavano nella piccola costruzione fatiscente. Rimaneva con loro a parlare fino a tarda notte, poi li pagava e li mandava via, dormiva poche ore e, al risveglio pregava. Ben presto il suo corpo cominciò a portare i segni della stanchezza e della denutrizione, dato il regime di sobrietà che teneva, ma continuò così, nonostante le proteste di Richelieu. </div>
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Se il cappuccino e i suoi confratelli fecero scalpore e destarono ammirazione per la loro abnegazione e i loro sacrifici, il Cardinale suscitò l'ironia nel campo per l'abbigliamento mezzo militare e mezzo ecclesiastico: sopra sottovesti nere indossava una corazza di metallo e, sopra questa un colletto inamidato da prelato, con uno stocco sotto il mantello cardinalizio. Possiamo trovare supporto alla nostra immaginazione osservando il quadro di Henri-Paule Motte, pittore francese della seconda metà del XIX secolo, Le siège de La Rochelle avec Richelieu (1881). Il pittore, che ebbe come maestro Jean-Léon Gérôme, rappresenta il Cardinale in queste strane vesti mentre osserva il dispiegarsi dell'assedio e, presumibilmente, rappresenta anche il cappuccino, un po' più indietro tra un soldato bardato di corazza con tanto di elmo calato sulla testa, un prelato vestito di nero, e un altro frate che, un po' più in là regge il cappello rosso di Richelieu. </div>
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Nei primi giorni di novembre, Buckingam venne scacciato a forza dall'Ile de Ré e l'8 novembre 1627 salpò per l'Inghilterra, riuscendo però a portarsi dietro tre rappresentanti di La Rochelle. La sua azione aveva provocato molti morti (metà degli uomini non fece ritorno) senza riuscire a conquistare nemmeno l'intera isola. L'assedio durante l'inverno si stabilizzò e assunse pericolosamente l'aspetto di una sconfortante routine. Il morale dell'esercito veniva tenuto alto solo con l'aspettativa dell'arrivo di una nuova flotta inglese a primavera, ma nel frattempo il clima rigido invernale metteva tutti a dura prova. Intanto la situazione si fece più difficile: Gastone era tornato a Parigi poco dopo l'arrivo che il suo regale fratello aveva assunto il comando supremo; litigi tra il maresciallo Bassompierre e il duca di Angoulême impedirono per qualche tempo la loro collaborazione; Richelieu era sempre più teso, mentre cercava di tenere insieme tanti e tali interessi personali. Anche il re cominciava a dare segni di noia e sperava, ogni giorno di più, di poter tornare alla caccia nei dintorni di Versailles, mentre una nuova malattia fiaccava ancora di più la sua volontà. Solo nel febbraio un'illustre visita scosse la monotona vita che Luigi stava conducendo sotto le mura di Versailles. Di ritorno dalle Fiandre, richiamato in Spagna per la recente nomina a membro del Consiglio di Stato, arrivò al campo degli assedianti il genovese Ambrogio Spinola, comandante dell'esercito spagnolo in Belgio, all'apice delle sue fortune. Lo Spinola venne ricevuto dal re in persona che, malato, gli fece l'onore di alzarsi dal letto in cui riposava. Il generale rimase estremamente colpito dal fatto di trovare nel campo d'assedio Luigi XIII, dato che lui mai aveva avuto il proprio re come testimone delle sue imprese e espresse la propria invidia nei confronti della nobiltà francese per questo. In questo frangente lo Spinola ebbe l'occasione di conoscere il Cardinale e fu un incontro tutto sommato positivo, in cui il genovese ebbe modo di far sapere a Richelieu che la Spagna era favorevole alla vittoria francese. Richelieu, con grande orgoglio, mostrò a quello che allora era uno dei più grandi in fatto di assedi, i lavori per garantire la capitolazione della Rochelle. Il grande terrapieno che stava facendo costruire lungo la baia per tagliare fuori la città dal mare, ottenuto unendo circa duecento carcasse di navi viene ben mostrato da Jacques Callot nell'incisione che descrive l'assedio, voluta da Luigi XIII. </div>
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Poco tempo dopo la visita del generale genovese, il re, angustiato dalla noia e fiaccato dalla malattia, era del tutto indisposto a rimanere a La Rochelle e fece i preparativi per tornare a Parigi. Questo fatto mise in allarme Richelieu per diversi motivi: prima di tutto il morale dell'esercito, già colpito dal prolungarsi dell'assedio, si sarebbe definitivamente affossato, senza contare le dispute che sarebbero sorte tra i nobili, una volta liberati dall'ingombrante presenza del re. In secondo luogo, e forse questo era il motivo più pressante, a Parigi c'era la regina madre, la quale aveva sempre visto male la spedizione a La Rochelle e non vedeva l'ora di persuadere il figlio che la presenza del Cardinale a Corte era dannosa per Luigi stesso e per il Paese. Dulcis in fundo, se qualcosa fosse andato male durante l'assedio, assente il re, le colpe sarebbero ricadute tutte su di lui, fornendo un ulteriore punto d'appoggio alla leva per scalzarlo dal suo ruolo. Le suppliche non servirono a trattenere il re al campo d'assedio, ma egli promise di ritornare in primavera, quando magari il clima sarebbe stato più mite per tutti e clemente con la sua salute. L'angoscia per quello che avveniva a Parigi si aggiunse a quella causata dai problemi di organizzazione dell'assedio e il Cardinale fu più volte sul punto di lasciare tutto per tornare a Corte dove avrebbe cercato di allontanare le nefaste influenze sul malleabile Luigi. Sempre al suo fianco, il cappuccino si faceva carico dei problemi che assillavano il Cardinale, ma con sempre rinnovata energia, imponeva a Richelieu di rimanere al suo posto, convinto, a ragione, che una volta che l'assedio fosse terminato e la città fosse caduta, ben poco avrebbero potuto fare i cospiratori parigini di fronte a quel successo che lui, Richelieu, aveva organizzato e portato a termine. Abbandonare l'esercito, inoltre, sarebbe stato un tradimento nei confronti della Chiesa e un'offesa a Dio, lasciando "i crociati" senza una guida morale e spirituale contro gli eretici dentro le mura. Richelieu, nonostante gli alti e bassi del suo umore, seguì i consigli del cappuccino e rimase. Le preoccupazioni lo attanagliavano, ma cercò con rinnovata energia di portare a termine quello che aveva cominciato e pianificò di costruire una banchina sopra alla diga di barche, in più, siccome con l'alta marea l'acqua copriva di circa un metro la stessa, ancorò alla diga travi di legno affinché galleggiassero e costituissero un ostacolo, nonostante il livello dell'acqua. Mentre il Cardinale metteva in pratica queste e altre idee per bloccare la città e difendersi da un attacco inglese, gli informatori di père Joseph, e i cattolici in genere, agivano all'interno della città. Si tentò una sortita nella notte tra il 12 e il 13 marzo, facendo saltare la chiusa di un canale che permetteva alle barche che trasportavano sale di entrare in città, ma gli uomini con gli esplosivi sbagliarono strada. L'unica cosa che esplose fu la furia di Richelieu che, in attesa con circa cinquemila uomini in quella fredda notte, non poté fare altro che prendersela con Louis de Marillac il quale guidava il gruppo che si era perso, ma senza il quale l'attacco non poté essere portato a termine.</div>
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Gli Ugonotti, nel frattempo, non stettero a guardare, chiedendo aiuti a chiunque potesse mandarne. L'unico che in quel momento poteva rispondere agli appelli di La Rochelle era Buckingam, ma le comunicazioni tra la città e i suoi tre rappresentanti oltre la Manica rimasero interrotte fino a marzo. Quando finalmente si riuscirono a far passare un messaggio all'interno delle mura (O'Connell scrive che questo era nascosto in un bottone della giubba del messaggero), quello che gli Ugonotti lessero dovette scoraggiarli non poco. Gli inglesi erano riusciti a mettere insieme una flotta di sole quindici navi da guerra, oltre ai rifornimenti, che erano ancora ferme a Plymouth. Richelieu, però, lesse dei dispacci intercettati in cui si diceva che Buckingam aveva deciso di mandare suo cognato, il conte di Denbigh con sessanta navi. Il re, nel frattempo, era tornato all'accampamento il 17 aprile, giusto in tempo per osservare il ritorno degli inglesi che vennero avvistati l'11 maggio. Scoprendo che il muro di sbarramento francese era, con i mezzi che aveva, pressocché impenetrabile, Denbigh calò l'ancora fuori dal tiro dei cannoni. Sette giorni dopo la flotta inglese si allontanò e sparì, tornando in Inghilterra. Questa inspiegabile ritirata fece nascere nei contemporanei le ipotesi più varie, ma va spiegata col fatto che molte delle navi inglesi erano dei mercantili, i cui proprietari erano poco disposti a scendere in battaglia. Il ritorno in patria delle navi e le richieste da parte del re di nuovi sussidi per la guerra a fianco degli Ugonotti fecero convocare il Parlamento, il quale non solo negò tali aiuti, ma compilò la Petition of Rights con la quale si decretava che ogni imposizione fiscale dovesse essere approvata dal Parlamento stesso, mentre altre pratiche, come i prestiti forzosi, l'arruolamento obbligato, gli arresti immotivati, venivano dichiarate illegali. A seguito di questa petizione il re sciolse quello che verrà deifinito il "Corto Parlamento", dando il via alla guerra civile inglese, ma, come si dice, questa è un'altra storia.</div>
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La situazione dentro la città peggiorava man mano che il tempo passava e gli abitanti si sfamavano come potevano, ma il suo governatore, imponeva la resistenza. Nel frattempo gli agenti di père Joseph all'interno della città lavoravano per fiaccare il morale dei cittadini, stampando dei manifestini in cui si accusavano il governatore e i suoi uomini di tirannia nei confronti di chi moriva di fame, mentre per trattare con le autorità cittadine, père Joseph e i suoi superiori facevano affidamento sul marchese di Fequières, un cugino del cappuccino, catturato dalle guardie di La Rochelle durante il sopralluogo per l'assalto fallito del 12 marzo di cui si è parlato prima. </div>
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Mentre l'assedio continuava, e si era arrivati alla fine dell'estate, père Joseph si ammalò. I digiuni, le penitenze e le attività incessanti fiaccarono la resistenza dell'uomo che si prese una forte febbre, peggiorata dalla cocciuta ostinazione del frate a non prendersi un riposo. Dal suo letto continuava a scrivere relazioni politiche e a dirigere i suoi uomini fidati. Quest'ultima attività gli fece correre il pericolo di morire: venendo di notte, le spie impedivano al malato di dormire per alcuni giorni oscillò tra la vita e la morte, poi cominciò a riprendersi quando giunse e fallì la terza spedizione inglese. Arrivò il 29 settembre al largo della Rochelle al comando del conte di Linsdey. Buckingam era uscito di scena a inizio settembre, ucciso da John Felton, un religioso fanatico e soldato di ventura deluso. La nuova spedizione inglese si dimostrò meglio organizzata e più tenace delle precedenti, ma non riuscì comunque a forzare il blocco francese finché entrambe le parti non decisero di scendere a patti. Alla fine di ottobre anche delegati della città andarono a parlamentare con Richelieu. Dissero di essere pronti ad arrendersi, ma imposero condizioni per una pace non per un perdono, cosa che loro non volevano. La richiesta di attendere il ritorno del re da una escursione mise alle strette i delegati ugonotti che implorarono Richelieu di affrettare le cose, la città era alla fame e la gente moriva per non avere nulla di commestibile da tempo.</div>
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Il giorno seguente vi fu la riunione del Consiglio. Mentre alcuni membri spingevano per radere al suolo la città, Richelieu invece propendeva per la clemenza, la quale avrebbe mostrato il re oltre che inflessibile nel far esercitare il proprio volere, anche magnanimo quando occorreva. Altri due fattori spingevano il Cardinale verso questa soluzione: la convinzione che, se La Rochelle fosse stata distrutta, le altre città non si sarebbero mai arrese e la necessità di smentire la propaganda inglese, secondo la quale i francesi non avrebbero avuto pietà dei ribelli protestanti. il 28 ottobre i delegati protestanti della Rochelle firmarono la resa prima di essere invitati ad un lauto pranzo da Richelieu. Il giorno successivo dodici Padri della città uscirono e vennero portati dal Cardinale al cospetto del re dove, in ginocchio, fecero atto di sottomissione e chiesero perdono. Luigi confermò i termini della resa e anche anche in questa occasione vennero fatti accomodare a tavola, mentre il giorno dopo carri carichi di cibo vennero fatti entrare nella città che veniva abbandonata dai soldati Ugonotti. Nel frattempo père Joseph si era completamente ristabilito, giusto in tempo per assistere alla caduta della città, e gli venne offerto, per i suoi servigi durante l'assedio, l'onore di diventare primo vescovo della città. Egli rifiutò non potendo accettare una cosa che lo avrebbe distolto dalla santa regola della povertà e dell'umiltà. </div>
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All'inizio dell'assedio La Rochelle contava venticinquemila abitanti, quando si arrese erano circa cinquemila. Con la caduta di La Rochelle il potere degli Ugonotti in Francia venne in poco tempo smantellato, ma il Cardinale spinse più per la soppressione del movimento politico protestante che per l'imposizione della religione cattolica, infatti tutto il clero protestante venne confermato nei suoi incarichi e nelle sue chiese. Il risultato di tale politica fu la completa fedeltà dei protestanti alla corona. Père Joseph era completamente d'accordo con la politica del Cardinale: egli sapeva che la religione imposta con la forza non avrebbe salvato le anime dei fedeli, né tantomeno avrebbe fermato la ribellione protestante. </div>
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L'assedio di La Rochelle non spianò la strada a Richelieu per la completa accettazione a corte, ma sicuramente contribuì a renderla meno ripida. I meriti di questo successo vanno però equamente distribuiti tra il Cardinale e père Joseph. Non fu certamente grazie al cappuccino che l'operazione andò a buon fine: l'organizzazione di un'armata di circa venticinquemila uomini, i rifornimenti costanti furono in mano a Richelieu, senza contare la costruzione della grande diga davanti alla città che permise di respingere gli aiuti inglesi. D'altra parte, però, va valutata molto attentamente la parte che ebbe il cappuccino in tutto ciò. Oltre ai consigli strategici e militari, egli si adoperò, con e tramite i suoi cappuccini, a mantenere alto il morale delle truppe, a curarle e a confortarle. Il merito più importante che va dato a père Joseph, però, è quello di aver convinto Richelieu a rimanere a guidare l'assedio. Questo episodio potrà sembrare insignificante, ma in realtà è credibile pensare che senza il supporto, l'insistenza e le ragioni del cappuccino, il Cardinale avrebbe abbandonato l'esercito, probabilmente facendo fallire l'assedio. Il re se n'era già andato e se Richelieu l'avesse seguito a Parigi per contrastare gli intrighi che si tramavano contro la sua persona, l'esercito non avrebbe più avuto una guida, ma sarebbe rimasto in mano ai vari nobili e ai loro interessi personali.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-39546780219336431032011-10-27T01:04:00.002+02:002011-11-12T01:21:30.467+01:00Padre Giuseppe, l'ascesa di Richelieu<div style="text-align: right;">
-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe e Richelieu</span></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-i-primi-anni-e-la.html">Padre Giuseppe, i primi anni e la predicazione</a></div>
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-Padre Giuseppe, l'ascesa di Richelieu </div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-la-rochelle.html">Padre Giuseppe, La Rochelle</a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-leminenza-grigia.html">Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia</a></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, il Cardinale mancato</span></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, l'uomo religioso</span></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEihoNUG1CU-5XxOQX0Gw50G9jpgb-jogRyQIYzNKIsekCssjTUCta7DvYZCQR6L69ryt0sdFH-D-a8-mEo-6qNzOFTPjZjvKURNxxKoEeGTmeycZG7Vk90TM8s02OnvgqFp41nXDnDq/s1600/pe%25CC%2580rejoseph.png" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEihoNUG1CU-5XxOQX0Gw50G9jpgb-jogRyQIYzNKIsekCssjTUCta7DvYZCQR6L69ryt0sdFH-D-a8-mEo-6qNzOFTPjZjvKURNxxKoEeGTmeycZG7Vk90TM8s02OnvgqFp41nXDnDq/s320/pe%25CC%2580rejoseph.png" width="267" /></a>Nel 1610 Enrico IV era morto, assassinato da un fanatico forse armato dal partito cattolico. Questo fatto portò alla reggenza della moglie, Maria de' Medici, in nome del giovanissimo Luigi XIII. La Francia non precipitò nel caos, ma la regina madre dovette affrontare diversi problemi. Innanzitutto il riacuirsi della questione religiosa in seguito al regicidio: le false voci messe in giro da una parte e dall'altra fecero temere agli Ugonotti che si stesse organizzando una "nuova S. Bartolomeo". Maria, perciò, si affrettò a riconfermare l'Editto di Nantes. Il secondo problema furono le rivolte dei Grandi del regno che, scomparsa l'autorità centrale di Enrico IV, miravano ad ottenere il potere fomentando la popolazione e i Parlamenti. </div>
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Maria cercò di fermarli, ricorrendo al compromesso oppure facendoli dividere l'uno dall'altro grazie alle invidie e alle gelosie per la concessione di beni e privilegi: la stessa tattica utilizzata in precedenza dal marito. Il terzo problema, che si creò da sola, furono i grandi favori concessi a Concino Concini e Leonora Galigai. I due erano al seguito di Maria de' Medici quando era venuta in Francia per sposarsi con Enrico IV, e si sposarono a loro volta nel 1601. Specialmente Leonora fu al servizio di Maria per trent'anni, aiutando la protettrice nella complicata vita di Corte, e diventandone la confidente preferita. Quando il marito morì, Maria si trovò da sola in Francia e si appoggiò alle persone a lei più vicine, il Concini e la Galigai appunto. Gli onori e i privilegi a loro concessi, però, crearono scandalo nel Paese. Ben presto gli italiani vennero odiati da molti in Francia. Attorno alla coppia Concini-Galigai si era infatti formato un codazzo di toscani che dominava la corte francese e che aveva inaugurato una politica di folli spese, mettendo in crisi le finanze reali. Il Concini e la moglie davano inoltre scandalo e suscitavano riprovazione col loro commercio di cariche ed onorificenze.</div>
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Nel febbraio del 1614, guidati dal principe di Condé, alcuni grandi aristocratici si ritirarono a Mézières abbandonando la Corte per protesta contro la reggente. La accusavano di sperperare le entrate statali e pretesero la convocazione degli Stati Generali. Importante evento fu per Richelieu, e di riflesso per père Joseph, la sua elezione a rappresentante all'assemblea del clero del Poitou. In questa occasione Richelieu si rivelò estremamente opportunista, comportandosi come mai lo si vedrà in seguito, esaltando la regina madre la quale, colpita dall'orazione del vescovo, dietro le quinte gli affidò la presentazione delle richieste del Primo Stato (il clero) nella sessione plenaria di chiusura il 23 febbraio 1615. Il suo discorso riprese quello già fatto, appoggiando Maria de' Medici sia in politica interna che in quella estera, in particolare l'alleanza con la Spagna grazie al matrimonio di Luigi con l'infanta Anna d'Austria. Disciolta l'Assemblea non cambiò nulla e Richelieu sembrò tornare in disparte. Gli eventi languirono fino a una nuova ribellione del Condé, che colpì anche la cittadina di Richelieu in maniera devastante. </div>
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Per una serie di eventi, che alcuni chiamerebbero "caso", altri "fato", nelle sue peregrinazioni il Condé si fermò a Loudun, vicino a Coussay, dove si era ritirato Armand-Jean. Sempre a Loudun il nostro père Joseph stava predicando in quel momento. E, non ancora contenti, il fratello, Charles du Tremblay era un cavaliere al seguito di Condé. Il frate con la sua consueta capacità di persuasione, riuscì a convincere il principe a ritornare nell'alveo della legalità, sottomettendosi o almeno trattando con Concini. La pace venne stilata, i nobili fecero atto di sottomissione e tutto fu come se niente fosse accaduto. Ciò che è importante dal nostro punto di vista, però, è che durante i negoziati père Joseph e Richelieu si incontrarono spesso, soprattutto a Corte dove, almeno ufficialmente, il futuro Cardinale si recava per ottenere protezione reale per le sue proprietà saccheggiate (forse anche per essere consultato riguardo alla pace). Durante questi colloqui scoprirono di avere molti punti e interessi in comune: le opinioni sulla situazione del regno, l'immoralità della ribellione e la necessità dell'unità nazionale come bene morale. I due divergevano solo su un punto, almeno apparentemente: mentre il frate voleva vedere unita tutta la cristianità contro gli "infedeli", il vescovo era più attento a ciò che accadeva al di là dei confini francesi e vedeva gli Asburgo come la principale minaccia.</div>
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Il legame tra i due, però, non si saldò subito. Richelieu si legò al nuovo ministro delle finanze Claude Barbin, un uomo di Concini. Questo stretto coinvolgimento nei confronti dell'italiano non gli fu favorevole dato che, col passare del tempo, il potere del preferito della reggente si screditava sempre più agli occhi dei francesi. </div>
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La situazione in Francia rimaneva tesa dato che il Condé si rifiutava di tornare a Parigi a occupare il suo posto e fino a che non lo avesse fatto, ci sarebbe stato il pericolo in Francia di nuove ribellioni nobiliari. Su suggerimento del frate cappuccino, Richelieu venne così inviato a parlamentare con il Condé. Dopo una breve corrispondenza, i due decisero di incontrarsi a Bourges. Si raggiunse un accordo e il principe riapparve nella capitale nel luglio del 1616. Questa fu la prima azione politica intrapresa dal futuro cardinale intraprese, che, però, père Joseph non riuscì a vedere con i propri occhi dato che, il giorno dopo la firma della pace di Loudun, era partito per Roma, per portare avanti il progetto della Crociata contro i Turchi. </div>
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Quando, a circa un anno dalla sua partenza, père Joseph ritornò a Parigi, trovò la situazione completamente mutata.</div>
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Avevamo lasciato la Francia al ritorno del Condé a Parigi nel luglio del 1616 dopo le trattative con Richelieu. Nel frattempo, però, il principe era divenuto polo di attrazione dei dissenzienti che volevano mettere fuori gioco gli odiati italiani, in particolare il Concini. Per reagire a questa situazione, lo stesso Concini fece arrestare Condé mentre entrava nella camera del Consiglio e lo fece rinchiudere nella Bastiglia. Coloro che appoggiavano Condé, sparirono da Parigi cercando di sobillare rivolte in periferia e trovarono il loro appoggio in Carlo Gonzaga, duca di Nevers, che seppe dell'arresto mentre era in viaggio verso la Germania per reclutare lanzichenecchi per la crociata di cui abbiamo appena parlato. Nevers mandò una lettera insolente al re, riunì le truppe per la crociata e fece sollevare la regione che governava, la Champagne.</div>
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Il Concini e Maria de' Medici si rivolsero ansiosi a Richelieu che aveva conosciuto, tramite il cappuccino, il duca di Nevers; egli però non riuscì nell'intento di riportare il duca sotto l'ala del re. Questa volta la ribellione nobiliare era molto più grave perché coincideva con avvenimenti europei: il Bouillon, uno dei nobili che si erano ribellati, insieme ai suoi agenti, aveva fatto temere a Venezia la paura per un'alleanza tra i Borboni e gli Asburgo per strangolare i principati italiani in nome della Controriforma, mentre in Inghilterra, che la stessa alleanza servisse a portare il potere papale al di là della Manica; inoltre insinuando questa idea, e facendosi promotore di un movimento anti-cattolico, poteva far ribellare gli Ugonotti, precipitando la Francia nuovamente nelle guerre di religione63. Nel frattempo Richelieu consigliava di stroncare con decisione la rivolta sul nascere e così venne fatto, costringendo il Nevers alla trattativa, mentre lo stesso Richelieu, alla fine del 1616, entrava a far parte del Consiglio reale. </div>
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Agli inizi del suo mandato Richelieu si trovò confuso dai tanti e gravi problemi diplomatici di politica interna ed estera. Era indispensabile che la Francia costruisse una nuova strategia internazionale, magari indipendente dalla Spagna (con cui era fino a quel momento alleata). Nel 1621 sarebbe terminata la tregua tra la Spagna e i Paesi Bassi, inoltre l'Imperatore Mattia stava per morire e il suo successore più ovvio era il cattolico Ferdinando. Si profilava così all'orizzonte uno scontro di proporzioni mai viste tra protestanti e cattolici. Tanto più che lungo tutti i confini francesi transitavano truppe spagnole, i mari erano spagnoli o inglesi. Inoltre la Spagna era, per quanto riguarda la religione, cattolica senza compromessi, mentre buona parte della borghesia francese era ugonotta. La stabilità francese dipendeva quindi non solo dalla tranquillità all'interno, ma anche oltre i suoi confini, zone controllate per lo più dalla Spagna. </div>
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L'obiettivo principale del futuro cardinale era certamente la grandezza e alla stabilità della Francia. Non bisogna quindi stupirsi se, nell'Assemblea degli Stati Generali del 1614, aveva appoggiato la regina madre e l'alleanza con la Spagna. Ben presto tuttavia cambierà idea perché convinto che la Francia dovesse assumere un ruolo indipendente in Europa.</div>
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Ancora più importante della situazione europea, però, è quella all'interno della Francia nello stesso periodo. Stava emergendo a corte una nuova figura, favorita da Luigi XIII, Charles d'Albert de Luynes, il suo falconiere. Tutti consideravano il re di Francia sottomesso alla madre, ma ben presto si capì che il giovane Luigi era forse molto più indipendente di quanto si pensasse. Presto Luynes divenne punto di riferimento per gli oppositori. La posizione di Concini e di coloro che l'avevano appoggiato, compreso Richelieu, si stava indebolendo a vista d'occhio. Coloro che erano contro al Concini, spinsero il re ad acconsentirne l'assassinio, ma Luigi approvò solamente l'arresto che avvenne il 24 aprile 1617. Nel tentativo di evitarlo, il Concini fece un cenno di reazione e gli uomini del marchese di Vitry, capitano del corpo delle guardie reali, fecero fuoco. In poco tempo anche la Galigai venne raggiunta nei suoi alloggi e condotta alla Bastiglia. Il crollo di Concini fece decadere anche Richelieu che venne estromesso dal Consiglio reale. Il vescovo rischiò più volte, ora come in seguito, di essere linciato dalla folla accecata dalla rabbia nei confronti del fiorentino e dei suoi collaboratori. Lo stesso cadavere del Concini, sepolto in segreto, venne trovato e fatto a pezzi. La moglie invece venne accusata di stregoneria, decapitata e il cadavere bruciato sul rogo.</div>
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A questo punto era chiaro che Luigi avrebbe preso in mano le redini della nazione, esautorando la madre da tutte le funzioni di governo, ma ciò andava fatto rispettando la dignità reale e lei si rivolse a Richelieu perché facesse da tramite con suo figlio, dato che era l'unico degli ex ministri a non essere dietro le sbarre. Dai negoziati risultò che la regina madre avrebbe dovuto ritirarsi a Blois e il 3 maggio 1617 Luigi andò a salutarla prima della partenza in un incontro decisamente freddo.</div>
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Il carattere del re, liberato dall'ingombrante presenza materna, si rivelò di tutt'altro tipo rispetto a quello che tutti avevano conosciuto. In questo periodo Richelieu, che aveva seguito Maria de' Medici nel suo esilio, continuò a trattare come ambasciatore della regina, ma cercò allo stesso tempo di tornare a Corte. Per fare ciò scrisse a tutti coloro che potevano avere una qualsiasi influenza in tal senso: dal nuovo ministro Luynes al nostro cappuccino père Joseph. Il 7 aprile 1618, completamente in balìa delle decisioni del Luynes, Richelieu venne mandato in esilio ad Avignone e Maria de' Medici lo sostituì con l'abate fiorentino Luigi Rucellai, vecchio favorito di Concini.</div>
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Nonostante il frate fosse ancora fedele all'amicizia del vescovo, non c'erano le condizioni, al momento, per un ritorno al potere del prelato; così continuò a occuparsi della crociata. Solo più avanti la congiunzione degli eventi tornò a essere favorevole a entrambi. Fu così che decise di mettersi in viaggio per Madrid, una delle ultime potenze cristiane che non avevano risposto al suo appello, senza però ricevere risultati esaltanti.</div>
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Tornato in patria, il frate si dedicò all'attività che più gli andava a genio, l'evangelizzazione. Egli infatti si dedicò al terzo motivo del viaggio a Roma: le missioni nel Poitou. Queste campagne ebbero una grande risposta dato che i cattolici avevano bisogno di una rinascita della loro religione. La situazione in Francia, però, lo portò sempre più vicino a quella che oggi chiameremmo "alta politica". Era spesso richiamato a Parigi dal nunzio pontificio, dal Luynes e persino dal re. Anche il fratello di Luigi XIII, Gastone d'Orléans, rimase affascinato dalla figura del cappuccino; tuttavia presto si sarebbero ritrovati su sponde politicamente opposte. Ma nonostante tutti questi impegni non si dimenticò del suo amico vescovo, il quale aveva perso tutta la sua influenza con l'uscita di Maria de' Medici dalla scena francese.</div>
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La situazione, per il frate, rimase in una situazione di stallo fino a che, nel febbraio del 1619, la regina madre fuggì dalla prigione dorata di Blois, dove era rinchiusa. Questo fatto mandò nel panico la corte dato che ora, grazie alle trame di Rucellai, la regina madre si trovava a capo di una ribellione di principi, il più fedele dei quali era Jean-Louis de Nogaret, duca di Epernon. Maria de' Medici si rifugiò proprio presso costui, ad Angoulême.</div>
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Alla corte di Luigi XIII ci si aspettava un'alleanza tra Epernon e la vecchia regina con Bouillon, Condé e i Guisa, insieme a una ribellione degli ugonotti e l'intervento spagnolo a favore di Maria de' Medici. Questi timori erano assolutamente infondati, dati gli interessi divergenti che ognuna delle parti aveva, ma rende l'idea di come la notizia avesse avuto un certo effetto a Parigi. </div>
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Luynes cercò di prendere in mano la situazione e parlò con il nostro père Joseph e Bèrulle, i quali suggerirono di mandare una persona di cui la regina madre potesse fidarsi e che le potesse consigliare saggezza e prudenza. Chi poteva essere meglio del vescovo di Luçon? Père Joseph, però, non fece subito il nome di Richelieu, che Luynes poteva non approvare, essendo, nonostante l'esilio del primo, ancora rivali. Il cappuccino suggerì allora Sebastian Bouthillier, il decano del capitolo di Richelieu a Luçon, il piedritto su cui si sarebbe arrivati a innestare la chiave di volta. Non si dovette aspettare a lungo per questo. Le versioni delle immediate conseguenze dell'incarico dato a Bouthillier sono contrastanti: c'è chi sostiene che fu lo stesso decano a chiedere, per poter portare a termine la sua missione, di avere al suo fianco il vescovo; altri, invece, che sia stata la regina madre a chiedere a Bouthillier che Richelieu fosse tolto dall'esilio. Comunque sia andata, il risultato fu che agli inizi di marzo Charles du Tremblay entrò ad Avignone portando con sé l'ordine reale che affermava che il vescovo di Luçon doveva recarsi immediatamente al cospetto della regina madre. </div>
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Una volta al cospetto di Maria de' Medici, cercò in tutti i modi di rientrare nelle sue grazie, cercando di fare quello per cui era stato chiamato: tornò ad essere una sorta di primo ministro per conto della regina e si pose tra lei e i rivoltosi per cercare di portare un accordo tra il re e sua madre. Nel maggio del 1619 venne firmata la cosiddetta pace di Angoulême, attraverso la quale si diedero numerose concessioni sia alla Medici, a cui venne concesso il governatorato di Angiò, sia a Richelieu, il quale, però dovette fare fronte alle difficoltà economiche delle sue proprietà dato che il suo fratello Henri de Richelieu era morto in un duello (da qui deriverà la fermezza con cui Armand-Jean cercherà di combattere questa pratica in Francia, affermando la superiorità della giustizia regia alla vendetta personale).</div>
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La pace tra madre e figlio durò poco. Nel 1620, dopo quasi un anno di tensioni, di sotterfugi da parte dei consiglieri del re e della regina madre, di mosse diplomatiche su entrambi i fronti, e del mancato mantenimento della promessa, da parte di Luynes a Richelieu, di intercedere presso il papa per il cappello cardinalizio a cui tanto teneva, Luigi XIII alla seduta del Consiglio del 4 luglio dichiarò la guerra alla regina madre e a tutti i suoi sostenitori. L'avanzata delle truppe reali verso Angoulême non ottenne resistenze e arrivarono alle porte della città ad agosto. All'interno vigeva il panico più totale: ordini cui nessuno obbediva, la Medici che non prendeva decisioni, Richelieu che in un suo discorso alla moltitudine riunita, spingeva alla resa, inascoltato, per poi chiudersi in un cupo silenzio da cui uscì solo per esortare la regina a fuggire, inascoltato di nuovo. Il 7 agosto le truppe reali sconfiggevano quelle della madre nella battaglia di Ponts-de-Cé. Dai negoziati che ne seguirono tutto venne riportato allo status quo e la regina madre perdonata, con la riserva che da ora in avanti vivesse in armonia con la corte e Luynes, mentre a Richelieu la promessa, stavolta mantenuta anche se con riserve, del cardinalato.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-66806497010042150932011-10-25T01:01:00.000+02:002011-11-12T01:21:38.032+01:00Padre Giuseppe, i primi anni e la predicazione<div style="text-align: right;">
-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe e Richelieu</span></div>
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-Padre Giuseppe, i primi anni e la predicazione</div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/10/padre-giuseppe-lascesa-di-richelieu.html">Padre Giuseppe, l'ascesa di Richelieu </a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-la-rochelle.html">Padre Giuseppe, La Rochelle</a></div>
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-<a href="http://garghispace.blogspot.com/2011/11/padre-giuseppe-leminenza-grigia.html">Padre Giuseppe, l'Eminenza grigia</a></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, il Cardinale mancato</span></div>
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-<span style="color: #660000;">Padre Giuseppe, l'uomo religioso</span></div>
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e5/Pere-joseph.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e5/Pere-joseph.gif" width="246" /></a><u>Tratto dalla Tesi di Laurea di Andrea Martinetti, Genova, 2010 </u></div>
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Nacque il 4 novembre 1577 a Parigi, nella casa dei genitori, in rue de Sainte-Avoie. Il padre, Jean Le Clerc, era consigliere del re e primo presidente del Consiglio di Palazzo, cancelliere del duca di Alençon e discendeva da una famiglia di legali e di amministratori; sua madre Marie de La Fayette di Saint-Romain, discendeva da quel maresciallo Gilberto Motier de La Fayette che fu associato alla vittoria di Giovanna d'Arco sotto Orléans e al suo trionfo nella cattedrale di Reims. Il nonno, Claude de La Fayette, gli lasciò in eredità una delle sue quattro baronie, cosicché venne conosciuto, quando arrivò a corte, come Barone di Maffliers.</div>
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La madre Marie non venne mandata in convento grazie all'intervento della lontana cugina Anne de Pisseleu, favorita dell'ormai defunto re Francesco I, e fu sempre lei a combinare nel 1574 il matrimonio con Jean, da cui nacquero oltre a François anche Marie e Charles.</div>
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Un bimbo molto chiuso in sé stesso, ma anche molto attento e capace di ascoltare e fare proprio quello che accadeva attorno a sé, come quando a soli quattro anni raccontò la storia della Passione di Cristo davanti agli ospiti di un banchetto organizzato dal padre. Oppure come quando a dieci anni, fu scelto dal suo maestro per fare un'orazione funebre in latino su Ronsard -conosciuto in Francia come Il principe dei poeti- della durata di un'ora, davanti a un pubblico numeroso e brillante.</div>
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Il padre curò la sua educazione, facendo in modo che imparasse il latino e il greco e in casa eccettuata la madre, tutti dovevano parlargli usando quelle due lingue. Nel 1585 andò nel Collegio di Boncourt.</div>
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Nel frattempo, però, la situazione nel paese si faceva sempre più delicata e pericolosa. La Lega cattolica e gli Ugonotti si scontravano con sempre maggiore forza, dilaniando la Francia e Parigi. In conseguenza di questo clima il 14 aprile 1587 Jean Le Clerc venne ucciso. Per François, molto legato alla figura paterna, fu un duro colpo e da questi avvenimenti maturò le proprie idee, che si sarebbero mescolate in seguito ai dogmi religiosi: la regola, l'ordine, la monarchia assoluta. In questo clima pesante la madre decise di interrompere gli studi del figlio e trasferire la famiglia in una casa di sua proprietà a Tremblay-sur-Mauldre vicino a Montfort-l'Amaury, nel contado parigino. Qui François studiò le lingue moderne (italiano, spagnolo) e ricevette rudimenti di filosofia, giurisprudenza, matematica. La vita trascorreva da Barone di Maffliers piuttosto che da futuro Padre Giuseppe, anche perché la madre, ormai diventata capo-famiglia, indirizzò la preparazione del figlio verso la carriera militare più vicina alla propria inclinazione culturale e sociale.</div>
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Durante la permanenza nella residenza materna, sembra che François abbia anche sperimentato l'amore, come lui stesso confessa nei <i>Discours en forme d'exclamation sur la conduite de la divine providence</i>, un resoconto sulla sua vocazione scritto più tardi quando divenne cappuccino novizio. Amore che però venne presto soffocato da lui stesso, colpito dal senso di colpa per aver ceduto a quel sentimento nemico di ogni elevata ambizione, simbolo della vanità della vita e soprattutto corruttore del sentimento verso Dio. Questa esperienza lo segnò molto, tanto che da questo momento crebbe in lui l'avversione, che poteva arrivare anche all disgusto se non all'odio, verso il sesso femminile, cosa che si portò dietro per tutta la sua vita.</div>
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Solamente nel 1594, Enrico IV riuscì a portare la pace in Francia, e la famiglia Tremblay poté tornare a Parigi dove François decise di frequentare l'Accademia Equestre di Antoine de Pluvinel, il primo dei maestri di equitazione, che lavorò per Enrico III e i suoi due successori, Enrico IV e Luigi XIII. </div>
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Nel 1595 François era pronto per intraprendere il Grand Tour, il viaggio che i nobili intraprendevano in giro per l'Europa per perfezionare l'educazione, durante o dopo gli studi. Le mete preferite erano la Francia, l’Olanda, la Germania, ma aveva come obiettivo privilegiato l'Italia e soprattutto Roma e Napoli, e di norma includeva le tappe di Venezia, Firenze, Bologna, talvolta Pisa, e poi i Campi Flegrei, i centri vesuviani, Paestum e la Sicilia. </div>
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Durante il Tour, i giovani imparavano a conoscere la politica, la cultura, l’arte e le antichità dei paesi europei. Passavano il loro tempo visitando luoghi d'arte, studiando e facendo acquisti. François era accompagnato in questo viaggio, secondo il diario tenuto dal suo segretario, da altri dodici giovani delle migliori famiglie parigine. Fino alla fine dello stesso anno rimasero bloccati a Marsiglia e solo allora poterono imbarcarsi per Genova. Da lì François toccò tutte le principali città nell'anno in cui si trattenne nella penisola. Fu un anno intenso, studiò la lingua, l'equitazione e la scherma, adempiendo in toto ai doveri del ruolo che si portava dietro, come Barone di Maffliers. Fu ovviamente a Roma, poi a Loreto, a Bologna dove si trovava una delle più importanti università europee dell'epoca e così a Padova dove ampliò e affinò le sue basi di giurisprudenza. A Venezia studiò il greco e da lì andò verso nord, visitando la Germania. </div>
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Nel 1597 venne il momento di tornare a Parigi, ma il giovane Le Clerc era consapevole del fatto che, una volta tornato, non avrebbe potuto fare strada senza un qualche appoggio importante. Aveva già prima di rientrare un'idea su chi avrebbe dovuto essere il suo appiglio verso l'alta società francese: Enrico I, duca di Montmorency, Conestabile di Francia, il quale aveva vissuto nello stesso quartiere della casa natìa, nella Rue de Sainte-Avoye.</div>
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Una volta a Parigi, François si adoperò subito per entrare nella sfera del Conestabile e fu sotto le sue dipendenze che il giovane fece esperienza del suo primo e unico fatto d'armi, l'assedio di Amiens. Nell'aprile del 1597, infatti, la città del nord della Francia venne a sorpresa conquistata dagli spagnoli e Enrico IV si adoperò per riconquistarla con un assedio che durò sei mesi. Il duca di Montmorency fu uno dei primi ad andare in aiuto del re, costituendo un'armata composta di giovani gentiluomini, parenti o clienti, molti dei quali letteralmente alle prime armi, portandosi dietro anche il giovane Le Clerc. Non si sa se effettivamente François abbia partecipato attivamente ai combattimenti, ma, come traspare dai suoi scritti più tardi, rimase profondamente colpito da questa esperienza militare. </div>
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La partecipazione più o meno attiva, ai fatti di Amiens aprì le porte della Corte al ragazzo e questo, insieme al forte volere della madre, lo indirizzarò verso una carriera diplomatica che nel 1598 lo portò probabilmente a partecipare, al seguito dell'ambasciatore André Hurault de Maisse, alle trattative della pace di Vervins a Londra. La pace, conseguente alla caduta di Amiens, avrebbe dovuto porre fine alle ostilità con la Spagna di Filippo II, ma la Francia non poteva stipulare un trattato con cotanto avversario senza conoscere il volere dei propri alleati, tra cui Elisabetta d'Inghliterra. </div>
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Questi anni, che compresero il ritorno di François nelle terre dei Maffliers, coincisero con un periodo di crisi spirituale. L'animo del giovane barone era già intriso di religiosità, di pentimento e di preghiera. Aveva già rifiutato le donne e soffocato qualsiasi sentimento che lo distraesse da Dio, ma la volontà della madre era stata fino ad allora più forte della sua cosicché aveva adempiuto ai suoi doveri di proprietario terriero, feudatario, soldato e cortigiano.</div>
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La sua crisi spirituale si inserisce in un momento particolare per la vita religiosa francese: proprio alla fine del XVI secolo, infatti, importanti e influenti personalità favorirono la diffusione del misticismo.</div>
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A quanto pare la giovane mente di François venne influenzata da queste grandi personalità, la prima delle quali fu Pierre de Bérulle. Fatto Cardinale nel 1627 da papa Urbano VIII, divenne uno dei più importanti esponenti della restaurazione cattolica francese, fondando l'Oratorio di Parigi, una congregazione che intendeva porre rimedio all'ignoranza e alla rilassatezza dei costumi del clero e operare per il rinnovamento della vita ecclesiastica secondo i dettami del Concilio di Trento. </div>
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Per la formazione di François, fu molto importante la lettura della Règle de Perfection, scritta dal cappuccino inglese Benoit of Canfield che aveva come intento quello di "alleviare le coscienze attraverso la pratica delle virtù e un totale abbandono dell'anima a Dio. Tutto ciò non avrebbe deluso un giovane uomo che cercava una religione intensa per alleviare la sua coscienza". Tutti questi personaggi resero la religiosità del giovane François, se possibile, ancor più radicale e radicata. </div>
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La vita in convento però, non poteva essere intrapresa se non avesse ottemperato a un obbligo a cui sentiva di dover adempiere: ottenere il consenso da parte della madre.</div>
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Come si potrà ben immaginare da tutto quello che si è detto finora, Marie non era per niente disposta a concedere il desiderato permesso. Tanto più che aveva cercato alacremente una giovane sposa, con la cui dote rimpinguare le casse famigliari divenute sempre più esigue dalla morte del padre. Nonostante ciò il figlio riuscì a spuntarla e nel 1599 iniziò il noviziato, non a Parigi, bensì a Orléans, diventando cappuccino l'anno seguente, col nome di père Joseph. Quando François prese gli ordini il fratello era troppo piccolo per prenderne il posto e il 20 settembre 1600 i possedimenti della famiglia Tremblay vennero sequestrati dagli uomini al soldo del duca di Montmorency, fortemente indebitato. La madre fu costretta poi, nel 1602, a vendere gli ultimi beni dei Maffliers per riuscire a mantenersi. </div>
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L'ingresso nel noviziato e poi nell'Ordine cappuccino, fu motivo di grande travaglio interiore. François si doveva lavare di tutti i peccati accumulati nella sua breve vita, quelli a cui lo avevano portato il titolo di barone e la volontà di sua madre: la ricerca di privilegi, la guerra, i beni posseduti, la vita mondana, le danze, l'abbondanza dei banchetti e dei vestiti, tutti motivi di traviamento. Si consacrò così all'essenziale ricerca delle virtù cristiane. </div>
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Non bisogna dimenticare il fatto che l'Europa dell'epoca era intrisa di un rinnovato rigorismo religioso e di terrore verso il peccato individuale e collettivo. Le disposizioni del Concilio di Trento, terminato nel 1563, cominciavano a dare i loro frutti, in fatto di Riforma Cattolica e l'operato della temutissima Inquisizione e degli ordini religiosi, rendeva la vita difficile a coloro i quali non fossero giudicati completamente puliti da qualsiasi peccato. </div>
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Père Jospeph vedeva nel mondo del suo tempo una costante e inesorabile decadenza, alla quale non voleva assolutamente prendere parte. </div>
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I primi anni di attività all'interno dell'Ordine furono in gran parte dedicati a risolvere le dispute riguardo alle rimanenti proprietà di famiglia e a cercare di affinare e fissare il suo modello di spiritualità.</div>
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Le principali opere che scrisse nei primi vent'anni del XVII secolo furono l'<i>Introduction à la vie spirituelle</i> (1616), <i>La vocation des religieuses de la première Reigle de S. Benoist </i>(1621), e la <i>Perfection séraphique</i> (1624). Père Joseph nei primi anni della sua conversione fu influenzato enormemente dallo stoicismo cristiano. Egli richiama spesso a una "ragione dell'anima", la quale dovrebbe consistere in costanza e in padronanza ragionata dei sentimenti e delle passioni. Il cappuccino elaborò un vero e proprio percorso di ascesa verso Dio, un metodo universale di preghiera fatto di tre vie: purgazione, illuminazione, unione.</div>
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Dopo essere entrato definitivamente nell'Ordine dei cappuccini nel febbraio del 1600, venne mandato al seminario di Rouen, da cui poté uscire precocemente grazie alla sue conoscenze, saltando, dei quattro anni complessivi, un anno di filosofia e un altro di teologia. Lo stile di vita che praticava all'interno del chiostro non era approvato dai suoi fratelli. Il regime del convento, già rigido per conto proprio, era reso dal religiosissimo novizio ancora più duro. Privazioni personali, lavori mortificanti, sempre scalzo con qualsiasi condizione climatica. Se i suoi pari erano negativamente colpiti dal suo zelo, i suoi superiori erano positivamente interessati alle doti per la preghiera. Il suo era un raccoglimento mentale, una sorta di contemplazione, che portava non di rado all'estasi e alle visioni. </div>
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Tutte queste particolarità, unite alle sue conoscenze e all'abilità nella retorica e nella controversia religiosa, gli valsero nel 1603 la carica di lettore di filosofia nel convento di rue Saint-Honoré. Ma la carriera di studioso durò solo un anno perché venne stroncata dall'aggravarsi progressivo della vista che lo renderà quasi cieco a lungo andare.</div>
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L'impossibilità di svolgere il compito di insegnante gli valse l'autorizzazione a predicare e venne inviato alla casa dei cappuccini a Meudon, attuale periferia di Parigi, per prendersi cura dei novizi. L'anno che passò nell'Île-de-France fu molto impegnativo poiché, col permesso dei suoi superiori, la sua azione pastorale si rivolse sia ai novizi, sia agli abitanti di quella regione. Tutti i villaggi nei dintorni di Parigi avevano sofferto molto per le guerre di religione appena terminate; i soldati e i predoni avevano saccheggiato e spogliato di beni le botteghe, le fattorie e le chiese. La regione era quindi precipitata sempre più verso l'anarchia, visto che anche i pochi religiosi rimasti avevano ceduto, nella desolazione lasciata, a una vita non propriamente edificante.</div>
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In questo contesto, come si diceva, il cappuccino ottenne il permesso di predicare, e qui, possiamo immaginare tra i resti e le macerie, e sicuramente tra persone affamate e bisognose di una guida, mise in pratica per la prima volta gli anni di studio e di riflessione. Le fonti parlano di un successo strepitoso delle sue orazioni in pubblico, tanto che spesso ci si dovette riunire all'aperto e non dentro a qualche chiesa, tante erano le persone venute ad ascoltarlo. Alla sera, finite le apparizioni in pubblico, si ritirava nella sua cella e riprendeva gli esercizi di preghiera mentale, poi dopo poche ore di sonno, ricominciava da capo. Quello che è certo è che la sua opera diede sicuramente buoni frutti, che non sfuggirono a chi di dovere. Nel 1605 venne nominato guardiano del convento di Bourges, sempre con incarico di evangelizzazione, poi l'anno seguente venne mandato a Le Mans.</div>
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Con ritmi sempre più serrati il giovane cappuccino veniva inviato a predicare ai quattro angoli della Francia: dopo Le Mans fu a Angers, Saumur, Caen, Nantes, Blois, Châtellerault, Angoulême, Poitiers. Particolare fu il caso di Saumur: questa città, infatti, era una di quelle citate nell'Editto di Nantes del 1598 perché fosse governata dagli Ugonotti. Sotto la guida del governatore Du Plessis-Mornay era diventata un centro di cultura calvinista e vi era stata fondata un'accademia i cui insegnamenti, ovviamente, erano impartiti da professori protestanti provenienti da tutta Europa. La roccaforte calvinista aveva, però, una piccola comunità cattolica e fu lì che père Joseph andò a predicare. Venne però in mente al cappuccino di cercare di far installare un convento di cappuccini proprio lì e fece questa proposta alla riunione del Capitolo della sua provincia che si tenne a Parigi. La proposta venne approvata, ma rimaneva l'ostacolo del governatore di Saumur che fino ad allora aveva rifiutato la presenza di frati.</div>
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Nell'agosto del 1606 partì da Parigi per diventare guardiano del convento di Rennes e trovare un modo per portare l'Ordine anche a Saumur.</div>
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Il primo passo compiuto da père Joseph fu quello di fare visita all'abbazia di Fontevrault, casa madre di un ordine del XII secolo, l'Ordine di Fontevrault, appunto. Quest'Ordine era immensamente ricco, con numerosissime proprietà sparse per tutta la Francia, e reclutava le sue monache tra le figlie delle più importanti famiglie aristocratiche del Paese. La badessa a cui il nostro cappuccino andò a far visita era, nel 1606, Eleonora de Bourbon, una zia del re Enrico IV. Il titolo di Eleonora e la posizione di Fontevrault, molto vicino a Saumur, facevano sì che la badessa fosse la persona più adatta a trattare con il Du Plessis-Mornay. L'intercessione di cotanta interlocutrice, convinse suo malgrado il governatore a permettere l'installazione dei cappuccini nella sua città, ma fece di tutto per mettere loro i bastoni tra le ruote38. L'editto reale che permetteva l'installazione di un convento cappuccino a Saumur per tre anni non venne approvato dal parlamento locale39, grazie a macchinosi impedimenti giuridici. Solo nel 1609 venne solennemente posta la prima pietra dell'edificio. Père Joseph aveva vinto ed aveva fatto un'ottima impressione sulla badessa, la quale rimase colpita dai modi raffinati e gentili, tipici di un nobile (quale era père Joseph) nonostante l'aspetto non propriamente curato del giovane. È proprio il caso di dire che "l'abito non fa il monaco"! La nobile Eleonora era afflitta da un problema: l'eccessiva rilassatezza delle monache nei confronti del voto di povertà. Queste trascorrevano la loro vita nel chiostro godendo di rendite e di proprietà private e circondandosi di domestiche. La soluzione venne discussa tra il cappuccino, la badessa e la nipote di questa, Antonietta d'Orléans, nipote e coadiutrice di Eleonora, molto più devota della zia. Antonietta aveva da tempo il desiderio di creare una congregazione di pure contemplative, dentro o fuori l'ordine di Fontevrault. Père Joseph era la soluzione ai problemi di entrambe: preparò prima un programma di riforma moderata per Eleonora e le sue monache mondane, poi un altro per Antonietta, molto più rigido, che prevedeva un nuovo ordine claustrale. Non c'è bisogno di dire che si trovò molto più a suo agio nel redigere quest'ultimo.</div>
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Il compito di stilare il nuovo regolamento dell'Ordine di Fontevrault fu molto difficile, tanto più che le monache stesse erano ben lungi dal voler essere riformate. Per meglio adempiere a quello che ormai era diventato un impegno gravoso (ma che portava avanti solo grazie alla consapevolezza che quella fosse la volontà di Dio), père Joseph chiese aiuto a un giovane vescovo della vicina diocesi di Luçon, Armand-Jean du Plessis di Richelieu. </div>
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<br /></div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-49352481302975022302011-10-22T18:21:00.000+02:002011-11-12T01:04:09.818+01:00I Gemelli<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f5/Romolo_e_remo.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="198" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f5/Romolo_e_remo.jpg" width="200" /></a></div>Molti dei miti e delle leggende raccontati in tutto il mondo sembrano avere saldi legami con le credenze e le pratiche legate ai Gemelli. In molte di queste storie un elemento importante è costituito dai litigi dei gemelli nel grembo materno. Non deve sorprenderci il fatto che, quando si trattava di decidere quale dei due gemelli fosse il più vecchio, il primogenito o il secondogenito, ci fossero punti di vista opposti. Dalla scelta dipendeva non solo il diritto di successione, ma forse la vita stessa. Un altro tema fondamentale è la contrapposizione nel carattere dei gemelli: uno è il bene, l'altro il demonio, uno ha la pelle liscia l'altro è irsuto, uno è chiaro, l'altro è scuro, uno è artista, l'altro uomo d'azione, uno di indole docile, l'altro focoso, uno rimane a casa l'altro si avventura per il mondo, uno è costruttore, l'altro cacciatore. Ci sono altri attributi, spesso posseduti contemporaneamente, che coesistono al fianco di quelli menzionati: sono agricoltori, cavalieri, guaritori, vincitori di battaglie. La maggiorparte delle storie prevede un tentativo di sottrarre il diritto alla primogenitura, una lotta tra i Gemelli. In alcune è il gemello più debole a vincere con l'inganno, ma spesso è il gemello più forte, in particolare se gli è stato attribuito un Dio come il padre. Gemelli non identici possono avere una maggiore probabilità di sopravvivere di gemelli identici, e questo è forse alla base del fatto che i gemelli delle leggende sono così spesso fisicamente diversi. L' "effetto coppia " tende ad accentuare le differenze caratteriali, qualunque sia la tipologia dei Gemelli. <br />
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La storia di Romolo e Remo pare seguire in modo molto stretto le antiche consuetudini riguardo i gemelli. La madre vene uccisa, furono abbandonati nelle acque del Tevere e alla fine allevati da una lupa. Furono costruttori (la mitologia attribuisce loro la fondazione di Roma: ai gemelli si attribuisce tradizionalmente il sapere insegnare alla gente nuovi mestieri, in particolar modo l'edilizia o la costruzione delle navi) e alla fine Romolo uccise Remo e scomparve in un rombo di tuono. Una vicenda simile a quella di Romolo e Remo è quella tebana di Zeto e Anfione. Erano due Gemelli, figli di Antiope; il loro padre soprannaturale era Zeus e il padre naturale Epopeo, che morì di vergogna per l'adulterio della moglie. Epopeo lasciò a suo fratello il compito di punire la moglie e uccidere i Gemelli. I bambini furono abbandonati alla morte in cima ad una montagna, proprio come se fossero stati nell'Africa orientale agli inizi del nostro secolo. Furono salvati da un pastore che scoprì il segreto della loro nascita. Infine salvarono la madre dall' uccisione e si dice che Anfione abbia partecipato all' edificazione di Tebe che, per l'appunto, era alle origini una città gemella. La storia di Edipo può essersi sviluppata da un antico mito gemellare. Da bambino era stato abbandonato alla morte perchè, se fosse cresciuto, avrebbe ucciso il padre - una credenza diffusa sui gemelli - e gli fù dato il regno di Tebe, ancora la città gemella. Le leggende sulle lotte prenatali tra gemelli comprendono anche il mito persiano dei gemelli Ormuzd e Ahriman. Ahriman, personalità demoniaca, spirito bambino, avrebbe dovuto essere il più giovane dei due. Si narra che egli dal ventre materno udì per caso il padre dire che il primogenito avrebbe ereditato il regno, sicche lottò per sostituirsi al fratello, di indole pacifica e vi riuscì; prese il posto del fratello ed ebbe l'eredità per novemila anni. <br />
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Justkeha e Tarviskara, analoghi gemelli mitologici degli indiani del Nord America, si azzufarono nel grembo materno e continuarono a rappresentare nel mondo gli opposti principi del bene e del male. C'è una storia biblica che segue questa falsariga: Fares spinse da parte il fratello Zara al momento della nascita; un'altra leggenda, greca, racconta di Preto e Acriso che litigarono nel grembo materno e il fratello più giovane alla fine trionfò su quello più vecchio. Forse la più famosa di tutte queste vicende è quella di Esaù e Giacobbe. Giacobbe, il mite pastore, ingannò il fratello, cacciatore sul suo diritto di primogenitura. Uno dei primi esploratori, il capitano Merker, racconta come i Masai dell'Africa orientale narrassero una storia molto simile a questa; si può pensare che esista qualche relazione tra queste due storie perchè anche i Masai parlano di un esodo e di un dono della legge, con l'unica differenza che il monte Sinai viene sostituito dal Kilimangiaro. Altre storie sono basate sul pericolo che corre il gemello mortale per colpa del gemello immortale. Gli Ao-Nagas di Assam raccontano di eroi gemelli che si azzuffavano sempre. Il più vecchio trasformò il giovane in uno scoiattolo e, come Romolo se ne andò a vivere in cielo da dove lanciava occasionali lampi come memento: "il grande fratello vi guarda"! Il Dio scandinavo Hodr uccise il fratello Baldr quando litigarono per una Dea e c'è una antica storia fenicia su i Gemelli che litigano: Ipsuranio e Usus, costruttore l'uno, cacciatore l'altro. La storia racconta di una lite particolarmente violenta accompagnata da un tremendo temporale. Comunque sia, la foresta prese fuoco e Usus approfittò della situazione strappando i rami di un albero bruciato e trasformandoli in un'imbarcazione. In questo modo egli divenne il primo costruttore di barche. I Gemelli cominciavano a trarre vantaggio dalla loro diversità. Ed eccoci all'ultimo grruppo di miti. Entrambi i Gemelli sono visti come figure positive, anche se, di nuovo, uno deve esere mortale e l'altro immortale. Il greco Castore prese la decisione di condividere la sua immortalità con Polluce mentre il suo gemello stava per morire, e insieme alternarono periodi di soggiorno in cielo o sulla terra dietro concessione di Zeus, il Dio del tuono. Castore e Polluce divennero i Dioscuri, figli di Zeus. Questi divini Gemelli vennero associati alla stella del mattino e alla stella della sera, che si credeva fossero due diversi astri. Le stelle indicate come gemelli erano spesso chiamate dai greci Castore e Polluce ma anche Giasone e Trittolemo e a volte Apollo e Ercole (la gemella femmina, Artemide era stata sostituita da un gemello maschio). Presso i popoli primitivi era profondamente radicata la paura della perdita al momento del tramonto del sole; molti miti e fiabe traggono la loro origine dal salvataggio del sole da parte di gemelli celesti: un gemello va ad est e l'altro a ovest. Giasone andò con gli Argonauti alla ricerca del "vello d'oro". Molti del suo equipaggio appartenevano a una coppia di Gemelli, come lo stesso Giasone. Altre storie raccontano del salvataggio di una donna che a quanto pare rappresentava il sole. Ad esempio gli Acvin, gemelli guidatori di cocchio, salvarono Sury, la figlia del sole, e finirono con l'essere considerati protettori delle persone in pericolo, coloro che possono aprire gli occhi dei ciechi. <br />
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Anche la religione persiana aveva i suoi Acvin, ed esiste una chiara connessione tra i due miti. I Gemelli sono coinvolti nella creazione anche di altri tipi di leggende, forse per via del loro legame con la fertilità. Le tribù indiane dei Crow , dei Kiowa e degli Shoshoni hanno storie di divinità gemelle create da un intervento divino che li ha tagliati a metà quando erano bambini. Una leggenda della creazione degli Inca del Perù parla dei fratelli gemelli Apocatequil e Piguerao, che emersero da due uova. Apocatequil pare fosse il fratello immortale. Le dieci tribù di Israele si diceva discendessero dai dieci figli di Giacobbe ciascuno dei quali sposò la propria sorella gemella. I Gemelli divini, in particolar modo i Dioscuri, si credeva fossero di aiuto in battaglia. Una leggenda Tebana narra di come gli abitanti della Locride pregassero i Dioscuri per avere il successo nella battaglia del fiume Sagras: miracolosamente apparvero due cavalieri di aspetto misterioso e grandezza inusitata, vestiti con mantelli rossi e su cavalli bianchi che ben presto mutarono il corso della battaglia. In Gran Bretagna si racconta una storia di gemelli contadini che vinsero per gli scozzesi la battaglia contro gli invasori danesi. Con l'espansione del cristianesimo questi dei Gemelli divennero santi. Nel calendario bizantino e in altri troviamo Florus e Laurus , Frol e Lavior, come erano conosciuti in Russia. <br />
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E' degno di nota il fatto che quando i peruviani divennero cristiani sotto l'influenza spagnola , cambiarono il nome di uno dei loro gemelli: dal peruviano "il figlio del fulmine" nel nome Santiago. Essi avevano imparato dai loro maestri spagnoli che San Giacomo (Santiago, San Diego) e San Giovanni erano chiamati da Gesù boanerges, figli del tuono. Ad ogni modo era l'apostolo Tommaso che molto probabilmente aveva un gemello, perchè il suo nome deriva dalla parola ebraica che significa gemello, e fu anche conosciuto come Didimo, la parola greca che significa gemello. Non c'è dubbio che il fatto di essere un gemello avesse in molte culture un profondo significato religioso. Due gemelli e una scrofa nella leggenda della fondazione. Nel III millennio, la pianura padana era abitata dai Liguri, popolazione presumibilmente autoctona, cioè originaria di quei luoghi, che occupava una vasta parte dell'Europa continentale. Dell'antica presenza ligure c'è traccia in una leggenda che spiega anche il nome della loro città: Mediolanum. Secondo questa leggenda, due gemelli avrebbero difeso la città dai nemici che attaccavano da est e ovest. Grazie al loro valore la dea Terra li rese immortali, trasformandoli in due fiumi, l'Olona, a ovest, e il Lambro a est. Dal nome antico di questi due fiumi, rispettivamente Olano e Medaco, sarebbe nato il termine Medacolano, più tardi latinizzato in Mediolanum. <br />
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Le testimonianze di abitatività dell'area si fanno piu` vive a partire dal VI sec. a.C., in seguito all'occupazione dei Celti. I Celti erano una mosaico di popoli originari dell'Europa centrale, che i Romani chiamavano Galli dal nome di una delle loro tribù. Fu proprio la tribù dei Galli ad occupare la regione Insubria (pressapoco l'odierna Lombardia) e a fare di Milano la loro capitale. Anche i Celti crearono una leggenda per dare lustro al loro insediamento a Milano. Una scrofa, per metà coperta di lana, si sarebbe fatta incontro a un gruppo di cavalieri celtici. L'apparizione dell'animale, simbolo di abbondanza per quella popolazione, li avrebbe indotti a fondare la città che avrebbe preso il nome di Mi-lann, dal vello per metà lanoso della scrofa. L'effige della "scrofa mezzalanuta" si conserva sul Palazzo della ragione, in piazza Dei Mercanti. <br />
Nel 222 a.C., grazie alla conquista dell'Insubria, ribattezzata Gallia Cisalpina, da parte del console Marcello, comincia la storia dell'influenza romana sulla città. </div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-15941858763546112452011-01-01T23:19:00.002+01:002011-01-01T23:20:30.973+01:00Arianesimo<div style="margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<i style="color: white;"><u>Grazie all'autore di questo post, Marco Villa</u></i><span style="background-color: transparent; color: black; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><br /></span><br />
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<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Introduzione:</span></div>
</div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L'Arianesimo,
il donatismo e il nestorianesimo sono state le maggiori eresie della
Chiesa Cristiana dal 325, anno del Concilio di Nicea, al 451, anno del
Concilio di Calcedonia.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Enucleando
solo queste tre non dobbiamo escludere altre eresie che esistevano
contemporaneamente ma erano di minore impatto ed entità. Molte di esse
morivano da sole.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Per
le eresie sopracitate invece comparivano nuovi elementi: la grande
diffusione che hanno avuto in Oriente, l'intervento diretto degli
imperatori a dirimere le controversie e infine la prima presenza di
concili generali all'interno della Chiesa.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nel dettaglio analizzeremo le grandi eresie definita “delle origini” attraverso tappe cronologiche:</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La dottrina ariana: Cristo è inferiore a Dio.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L'eresia
ariana (da Ario, diacono di Alessandria sotto il vescovo Alessandro,
suo acerrimo nemico) sorse in origine in contrasto con le idee del
libico Sabellio, che poneva l'accento sull'unità di Dio il quale si
manifesta in tre opere precise: </span></div>
<ol style="color: #cccccc;">
<li style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; list-style-type: decimal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><div style="margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">in quanto Padre ha creato il mondo e donando agli uomini la Legge del Libro</span></div>
</li>
<li style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; list-style-type: decimal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><div style="margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">in quanto Figlio sacrificandosi per salvare il genere umano</span></div>
</li>
<li style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; list-style-type: decimal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><div style="margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">in quanto Spirito Santo santificando e trasmettendo la grazia</span></div>
</li>
</ol>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Dio
inoltre (la Monade divina) si espande nelle varie fasi delle tre
funzioni divine: il Padre si manifestava come Figlio e infine come
Spirito Santo.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La
vera origine della dottrina ariana va ricercata in Luciano d'Antiochia,
di cui Ario fu discepolo. Anche se quest'ultimo, come i suoi seguaci,
si affermava discepolo di san Luciano (morto nel 312), prete martire di
Antiochia.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Ario,
contrariamente a Sabellio, era allarmato profondamente dalla figura del
Dio sofferente sulla croce. Essendo Dio un essere perfetto non poteva
né soffrire né morire in alcun modo. Di conseguenza la contraddizione
teologica poteva essere smossa solamente ammettendo che Cristo era
inferiore al Padre in scala gerarchica, come se fosse una sorta di Dio
inferiore. Gli ariani credevano che Dio si fosse “incarnato” in un corpo
veramente umano occupando il posto dell'anima e così facendo
acquistando la facoltà di soffrire e di morire. La dottrina di Ario,
spiegando efficacemente la morte di Cristo sulla croce, non negava
l'unità di Dio anche se si poteva opporre una critica forte alla nascita
così facendo di due divinità diseguali, che limitano fortemente la
divinità di Cristo. Lo Spirito Santo era stato generato da Dio Padre
mediante il Figlio e privo di natura divina, per cui nella gerarchia
celeste era al di sopra degli angeli.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L’Arianesimo
infine scalzava l’idea cristiana della redenzione compiuta attraverso
il sacrificio di Cristo e quindi gli uomini non potevano sperare di
essere salvati se il loro Redentore non era pari a Dio. Questo punto è
fondamentale visto che, principalmente, l’Arianesimo doveva essere la
spiegazione del mistero della Redenzione.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La
controversia ariana fu una delle più lunghe e gravi della storia della
Chiesa, essendo durata un secolo e avendo lasciato strascichi in quelli
successivi. I gravi contrasti nella chiesa antiochena e il dilagare
della dottrina eretica nelle provincie orientali costrinsero
l'imperatore Costantino, da poco unico imperatore, a prendere la
situazione in mano per giungere alla concordia e all'unità della chiesa
cristiana. All'imperatore però l'oggetto del contendere gli appariva di
poco conto, “insignificante”, anche se appariva desideroso di concordia
all'interno della Chiesa.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Una
prima forte condanna all'Arianesimo avvenne al famoso Concilio di Nicea
del 325, a cui sembra giusto, per l'importanza che ha avuto nella
storia della Chiesa e della società umana, dargli il giusto spazio.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">I fondamenti biblici</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">a sostegno di Ario</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Dietro
a questa dottrina esisteva un fondamento teologico basato
sull’individuazione, lettura e interpretazione di alcuni passi del
Vangelo.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">I
passi biblici si basavano principalmente sulle caratteristiche umane di
Gesù: la sofferenza, i dubbi, l’essere soggetto ai disagi umani.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nei testi ariani due passi tratti dal Vangelo secondo Marco venivano citati con frequenza:</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><<”Maestro
buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. Gesù gli
disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”>>
(Mc 10, 17-18).</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div id="internal-source-marker_0.3680639496218213" style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><<in a="" angeli="" avvenga.="" che="" cielo,="" cielo="" ciò="" dico:="" e="" figlio,="" generazione="" giorno="" gli="" il="" in="" la="" le="" ma="" mie="" ne="" neppure="" nessuno="" non="" nulla,="" né="" padre="" parole="" passeranno,="" passeranno.="" passerà="" poi="" prima="" quanto="" quel="" quell’ora="" questa="" sa="" solo="" terra="" tutto="" verità="" vi="">> (Mc
13, 30-32)</in></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times,"Times New Roman",serif; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Materiale a favore della dottrina ariana veniva trovato anche nel Vangelo secondo Giovanni:</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times,"Times New Roman",serif; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><<avete a="" al="" amaste,="" che="" detto:="" di="" grande="" il="" io="" ma="" me="" mi="" padre,="" padre="" perché="" più="" rallegrereste="" se="" sentito="" torno="" vada="" vado,="" vi="" voi.="" v’ho="" è="">> (Gv 14, 28)</avete></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times,"Times New Roman",serif; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><<padre, a="" affinché="" che="" coloro="" colui="" come="" conoscano="" cristo="" dato.="" dato="" dio,="" doni="" e="" egli="" eterna="" figlio,="" figlio="" gesù="" giunta="" gli="" glorifica="" glorifichi="" hai="" il="" la="" l’ora,="" mandato.="" potere="" questa,="" solo="" su="" te,="" tu="" tuo="" tutti="" uomini,="" vero="" vita="" è="">> (Gv 17, 1-3)</padre,></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times,"Times New Roman",serif; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"><<ascendo al="" dio="" e="" mio="" padre="" vostro,="" vostro="">> (Gv 20, 17)</ascendo></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times,"Times New Roman",serif; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; font-family: Times,"Times New Roman",serif; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Anche
dal Libro dei Proverbi (8, 22-27) venivano citati dei passi, a
proposito della dimostrazione della “poiein” di Cristo in confronto alla
sua “gennan”.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
</div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">325, il I Concilio di Nicea.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Il
Concilio di Nicea del 325, il primo di due, si aprì il 20 maggio nella
sala grande del Palazzo imperiale. Furono convocati 300 vescovi circa
(secondo Atanasio furono 318, numero di forte reminiscenza biblica. Da
questo dato, accettato lungo i secoli un po' da tutti, il Concilio di
Nicea si chiamò anche “dei 318 Padri”). I vescovi, qualunque numero
siano stati, erano in prevalenza orientali di tutte le province. Fra gli
occidentali primeggiava Osio di Cordova, fiduciario del Papa di Roma
(Papa è un titolo onorifico che lo possono solo fregiare il patriarca
copto di Alessandria e il patriarca vescovo di Roma; c'è da aggiungere
che all'epoca il vescovo di Roma non aveva ancora quel potere religioso
all'interno della Chiesa che conosciamo oggi) e vescovo di fiducia di
Costantino.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Papa Silvestro (sostituito da Osio, come abbiamo visto) deteneva la presidenza del Concilio insieme a Costantino in qualità di </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">pontifex maximus</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">.
Era il primo concilio generale di tutta la Cristianità, anche se la
presenza della parte orientale era superiore rispetto alla parte
occidentale. Questo era dato, oltre alla vicinanza di Nicea alle sedi
orientali, anche dalla difficoltà degli spostamenti e dalla durata del
viaggio che per i vescovi occidentali era lunga. Nonché, infine, i
vescovi della pars occidentis si sentivano meno coinvolti dalla
controversia, quindi meno propensi a spostarsi per questioni che
riguardavano di primo acchitto la </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">pars orientis</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Ario
veniva anatemizzato così come la sua dottrina mediante la scrittura e
la promulgazione del Credo, che sanciva che Cristo era Omousion to Patrò
(uguale al Padre). Nel primo testo del Credo (verrà rielaborato in
alcune parti nel Concilio di Calcedonia del 451), compare l’ortodossia
della figura di Cristo nella sua forma più sacra. Infatti il testo, qui
nella sua versione latina, recita che: </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">“Credemus
in unum deum patrem omnipotentem omnium visibilium necnon et
invisibilium factorem et in unum dominum nostrum Iesum Christum, filium
dei, natum ex patre unigenitum, hoc est, ex substantia patris, deum ex
deo, lumen ex lumine, deum verum ex deo vero, natum, non creatum, </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">omousion</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">, hoc est eiusdem cum patre substantiae[…]”</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Il
termine greco, non avendo un corrispettivo in latino, viene
semplicemente traslitterato in modo da conservare in pieno tutto il suo
significato.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Il
Concilio di Nicea, come succederà nei successivi concili ecumenici
della Chiesa, non trattava solo questioni di rilevanza come, per esempio
a Nicea, l’eresia ariana, ma anche altri argomenti. Furono promulgati
20 canoni, di cui molti di ordine generale e organizzativo all'interno
delle diocesi. Qui di seguito, sempre dalla versione latina, ci sono i
punti che sono stati discussi:</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">I</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">De eunuchis, qui seipsos abscidunt.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">II De his, qui post baptisma statim ad clerum applicantur.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">III De subintroductis mulieribus.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">IIII Qualiter episcopi debeant</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">ordinari.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">V De excommunicatis</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">clericis vel laicis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">VI De primatibus episcoporum metropolitanorum.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">VII De honore episcopali</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Hierosolimitani.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">VIII De Novatianis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">VIIII De presbyteris sine examinatione constitutis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">X De lapsis clericis ordinatis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XI De his, qui sponte lapsi sunt, qualiter debeant poenitere. </span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XII De excommunicatis a saeculo abeuntibus.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XIII De caticuminis lapsis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XIIII De diaconibus, ne</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">presbyteris</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">corpus Christi tradant vel ante presbyteros communicent. </span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XV De clericis temere ab ecclesia recedentibus.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XVI De presbyteris et diaconibus vel clericis, qui ad alias civitates transeunt.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XVII</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">De clericis alienis sine conhibentia</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">proprii episcopi ab alio in suam</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">ecclesiam non ordinandis.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XVIII De clericis usuram aut ampliationem</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">accipientibus.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XIX. De Paulianistis et Catafrigis rebaptizandis.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">XX. De diebus dominicis et Pentecostes, ut in eis stantes oremus. Cum</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">convenisset hoc sanctum et magnum concilium apud Nicenam</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">civitatem provinciae Bitiniae, statuta sunt</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">ab eis haec, quae infra scripta sunt, ex Graeco in Latinun versa</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">sermonem.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Omousios: un termine non biblico a difesa dell'ortodossia.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Omousios
è un termine non rintracciabile nelle Sacre Scritture. Così per
sottolineare con forza la parità delle due figure all’interno della
Trinità si scelse di usare un termine che apparteneva alla terminologia
filosofica</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Οusia
è un termine che significa “essenza”. Il Figlio infatti derivava
dall’essenza del Padre, essendo come lui. Difatti per sottolineare
l’omogeneità si scelse il termine Omousios.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Veniamo
all’origine della parola: mentre Ousia era già stato usato dai teologi
cristiani prelevandolo dalla precedente tradizione filosofica pagana,
Omousios aveva un’origine opposta. Difatti derivava dalla cultura
gnostica, presente nell’area del bacino orientale in concomitanza con le
prime eresie cristiane. Quindi “Omousios” oscilla a metà tra teologia e
filosofia. </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Lo
gnosticismo (è giusto spenderci due parole anche se sarebbe più
corretto dedicare un intero articolo) era una dottrina
filosofico-religiosa in cui gli adepti pretendevano di avere una
conoscenza totale e privilegiata della divinità. Non esiste uno
“gnosticismo” ufficiale, erano un insieme di gruppi di dottrine
formatesi ai margini della religione ebraica e cristiana. La
caratteristica principale degli gnostici era di “occultare” la loro
dottrina nei testi delle religioni più diffuse. L’esistenza di molti
Vangeli “gnostici” prova le capacità degli adepti a far passare aspetti
del loro culto all’interno del Cristianesimo. Alcuni gruppi erano nati
alla figura di un fondatore (come Simon Mago, Basilide, Carpocrate,
Valentino, tanto per citarne alcuni) o sette designate da un nome
collettivo (gli ofiti, nicolaiti, cainiti, ecc…). La conoscenza
avveniva per </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">illuminazione</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">
improvvisa e definitiva che era riservata ad alcuni iniziati. Gli
gnostici avevano una spiccata predilezione per la dottrina
dell’emanazione. La </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">materia</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">
(come il corpo) era considerata malvagia; di conseguenza gli gnostici
rifiutavano la teoria dell’incarnazione e della resurrezione della
carne. Questo principio di dualismo (bene-male; illuminazione-materia)
portava gli adepti a forti pratiche di ascetismo e gli </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">illuminati</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">
possedevano forti connotati di amoralismo. Essi si sentivano superiori a
qualsiasi autorità visto che erano protetti da un demiurgo inferiore.
Alcuni aspetti dello gnosticismo saranno la base di alcune eresie
cristiane del basso medioevo come i bogomili nell’impero bizantino o i
più conosciuti catari nel Midi francese.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L’affermazione dell’Arianesimo sotto l’imperatore Costanzo e la sconfitta nel 380 d.C.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Costanzo
II, che si interessò come il padre di questioni religiose, impresse
all’impero un nuovo corso prestando il proprio consenso all’Arianesimo.
Nel 341 (Ario era morto nel 336 e il suo credo era portato avanti da
apologisti greci) Costanzo II riunì novantasette vescovi ad Antiochia
(quasi tutti confacenti alla parte orientale dell’impero), e riabilitò
l’Arianesimo riuscendo a mantenere le decisioni prese a Nicea da suo
padre. Essi redassero un altro documento avente carattere supplementare,
ma la cui ostilità nei riguardi dei nemici di Ario stava a significare
che non si era riusciti a raggiungere lo scopo che l’imperatore si era
proposto.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Questo
avvenimento spaccò l’impero in due parti ben contraddistinte: la parte
occidentale, guidata da Costante I (fratello di Costanzo II), fedele
all’ortodossia, e infine la parte orientale seguace delle dottrine
ariane (anche se ufficialmente rimasero fedeli a Nicea).</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nella
speranza di salvare il salvabile, non volendo creare una scissione
della Chiesa, i due imperatori convocarono con urgenza un concilio a
Serdica nel 342, con la partecipazione del clero occidentale e
orientale. Come previsto l’assemblea si divise in due partiti avversi
che si assalirono con reciproco lancio di anatemi. A dispetto di ciò si
giunse a una soluzione comune, anche se questo avvenne sotto forte
pressione imperiale e a costo di taciti compromessi teologici da ambedue
gli schieramenti.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Pochi
anni dopo, quando Costanzo II sconfisse a Mursa Maior Magnenzio, il
vescovo ariano di Mursa, Valente, fu uno dei più ferventi sostenitori di
Costanzo. Questo ne conseguì una nuova serie di sinodi, come per
esempio quello di Arelate del 353 e quello di Mediolanum del 355, con
l’imperatore che riuscì ad ottenere la condanna del vescovo di
Alessandria Atanasio, il più fiero nemico dell’Arianesimo. A lui
subentrò nel patriarcato Giorgio di Cappadocia, un ariano radicale. La
stessa cosa avvenne in Antiochia.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nello
stesso decennio avvennero altri fatti degni di nota: nel 359 Costanzo
II tenne un nuovo concilio con due riunioni separate: nella città di
Ariminum, in Italia, per il clero occidentale, e a Seleucia ad
Calycadnum in Cilicia per il clero orientale.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Valente
riuscì a far convergere i rappresentanti occidentali camuffando
leggermente la dottrina ariana. Riuscì a evitare nella nuova definizione
la parola “ousia” (natura), molto scomoda teologicamente, e sostenendo
semplicemente la similarietà del Figlio al Padre. Nel medesimo arco
temporale erano sopravvenute altre interpretazioni sulla natura di
Cristo: da quella di Ezio, pensatore antiocheno che dichiarò la natura
del Figlio era diversa (anomios) da quella del Padre, a quella di
Basilio di Ancyra, che invece tentò di salvare l’</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">omousios </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">in tutta la sua forma, essendo secondo lui l’unico termine capace di salvare l’unità della Chiesa.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">I
contrasti non cessarono: Costanzo II non era riuscito, appoggiando la
definizione imprecisa ma molto aperta di significato di Valente, a
unificare la Chiesa. Molti vescovi vennero allontanati dalla loro sede
perchè non conformi alla nuova opinione, rimpiazzati da vescovi
filo-ariani. Questa sorta toccò pure a Papa Liberio (352-366), che
Costanzo II fece deporre e relegare a Berea in Tracia. Al suo posto fu
eletto l'antipapa, di ispirazione ariana, Felice II (355-365). Papa
Liberio poté rientrare ad occupare la sua sede, solo dopo aver firmato
un documento molto vicino alle tesi ariane.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nel
360 Basilio e Atanasio, strinsero un patto per sconfiggere
definitivamente la dottrina ariana. Atanasio, vescovo di Alessandria, fu
uno dei maggiori oppositori.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L’anno
seguente avvenne la morte inaspettata di Costanzo II e l’ascesa di
Giuliano. Nel 362, appena un anno dopo la morte di Costanzo II, Atanasio
convocò nella sua Alessandria un concilio d'oriente che, con grande
prova di larghezza d'animo, pose fine a tutte le dispute dogmatiche,
facendo semplicemente rivivere i decreti del concilio di Nicea
rifuggendo da qualsiasi discussione di termini. Questo pose fine
momentaneamente alle lotte all’interno della Cristianità. Durante il suo
regno, Giuliano ritornò momentaneamente ai culti pagani, offrendo un pò
di respiro ai cristiani non ariani permettendo loro di rientrare
dall’esilio.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Dopo
la parentesi di Giuliano, ascese all’impero Teodosio, che mise la
parola fine all’Arianesimo. Difatti nel 380 emise (insieme con Graziano e
Valentiniano II, che all’epoca aveva solo 8 anni) il celeberrimo </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: italic; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Editto di Tessalonica</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> (</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Cunctos populos</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">), riportò l’ortodossia alle decisioni di Nicea con la seguente frase: </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">“[...]
hoc est, ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam
patris et filii et spiritus sancti unam deitatem sub pari maiestate et
sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes Christianorum
catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque
iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere ‘nec conciliabula eorum
ecclesiarum nomen accipere’, divina primum vindicta, post etiam motus
nostri, quem ex caelesti arbitro sumpserimus, ultione plectendos.” </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Il credo niceno era così ristabilito e la battaglia di Basilio e Atanasio, così facendo, potè dirsi vinta.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La sua diffusione tra i barbari e le ripercussioni successive in occidente.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">L’Arianesimo,
come si potrebbe aspettare, non scomparve del tutto. Il sostrato ariano
continuò a vivere all’interno dell’impero romano e, a partire dal IV-V
secolo, divenne il cristianesimo ufficiale delle popolazioni barbariche.
Non di tutte però, come vedremo più avanti.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La
cristianizzazione di codeste popolazioni avvenne in circostanze poco
chiare e in periodi molto differenti. Il punto di partenza di questo
revival dell’Arianesimo è Ulfila il Goto, primo apostolo dei goti (il
“popolo” dei goti nei manuali di storia dev’essere ricondotto anche alle
popolazioni degli ostrogoti e dei visigoti, che rappresentano due delle
popolazioni di questa confederazione) e evangelizzatore della sua
stessa gente.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Ulfila
conosceva più lingue (parlava bene sia il greco e il latino) e venne
inviato più volte a Costantinopoli come ambasciatore, dove aveva preso
contatti con l'ala più moderata degli ariani. </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Nella
capitale imperiale conobbe Eusebio di Nicomedia, che lo convertì al
cristianesimo ariano. Nel 348, poco più che trentenne, fu scelto come
vescovo presso i goti. </span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">A
seguito delle persecuzioni di re Atanarico, si stanziò con una parte
dei goti nella regione di Nicopoli, nella Mesia inferiore (all’incirca
tra l’attuale Romania e Bulgaria). Ulfila tradusse tutto l’Antico
Testamento (eccetto il Libro dei Re) e il Nuovo Testamento in lingua
gota. La Bibblia gotica, o di Ulfila, ha un grande valore storico,
religioso e letterario; li valse il titolo di primo monumento
dell’antica lingua germanica, ormai estinta. La traduzione dal greco (e
anche dal latino, visto che il testo contiene alcuni riferimenti alla
Vetus Latina) al goto difatti non fu molto agevole: Ulfila dovette anche
inventare i caratteri della lingua, prendendo caratteri dal greco, dal
latino e dalla lingua runica. I goti non possedevano una cultura scritta
e quindi era necessario creare dal nulla, come fece Ulfila, una nuova
lingua scritta, inventando un alfabeto e coniando nuove parole.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Con
la conversione dei goti, dei vandali e dei longobardi (per citare tre
dei maggiori gruppi germanici), assistiamo nel V-VI alla massima
diffusione dell’eresia ariana in Europa. L’unico popolo a staccarsi
nettamente dal gruppo ariano e a diventare immediatamente
cristiano-cattolico fu quello dei franchi. Grazie ai visigoti
l’Arianesimo arrivò in Spagna, dove si scontrò con il cattolicesimo dei
romano-iberi, e grazie agli ostrogoti invece in Italia. A Ravenna è
presente ancora una testimonianza di questo “dualismo” religioso:
durante il regno di Teodorico venne fondato il Battistero degli Ariani,
annesso alla vicina Cattedrale degli Ariani (fig.1-2), ora Chiesa del
Santo Spirito (fig.3). Nella stessa città è presente pure il Battistero
degli “Ortodossi”, o Neoniano (fig.4-5).</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">La
situazione religiosa dell’Italia centro-settentrionale si “risolse” con
la conquista giustinianea del 535-553, dopo la sanguinosa e turbolenta
guerra greco-gotica. La riconquista e la riunificazione dell’Italia
all’impero permise anche un’unione formale del credo cristiano, anche se
sarebbe da sciocchi credere a una sparizione dell’eresia ariana,
praticata tra la popolazione gota presente. Il problema del dualismo
religioso si riaccese pochi anni dopo con l’invasione longobarda
dell’Italia settentrionale (568).</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Sulla
cristianizzazione dei longobardi non si hanno molte notizie.
Probabilmente, verso il 540, una parte dei ceti superiori longobardi,
all’epoca del re Vacone, si sia convertita al cattolicesimo essendo i
longobardi diventati federati di Bisanzio. Verso invece il 560 sotto
Alboino, probabilmente per ottenere il sostegno dei goti, divennero
ariani. Questi “salti” di religione non sono inconsueti, perchè per lo
più vennero effettuati solo per fini politici.</span></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Solo
quando si stanziarono in Italia i longobardi subirono fortemente
l’impegno missionario del cattolicesimo, al punto che Autari proibì di
far battezzare cattolici i loro figli. Così facendo tamponava
l’insorgere di una possibile spaccatura del suo popolo per motivi
religiosi e un’assimilazione alle popolazioni autoctone dei romani.
Durante il regno di Agilulfo avvenne il cambiamento definitivo. Sotto
l’impulso energico di Teodolinda, moglie di Agilulfo e di religione
cattolica, dopo un iniziale appoggio durante lo Scisma Tricapitolino al
patriarca di Aquileia, la regina cercò un avvicinamento con la Chiesa di
papa Gregorio Magno, con il quale intratteneva uno scambio epistolare.
Furono restituiti così beni alla Chiesa, reinsediati vescovi e avviati
sforzi per ricomporre lo Scisma. Il figlio di Agilulfo e Teodolinda ed
erede al trono, Adaloaldo, fu battezzato con rito cattolico nel 603.
Altra data importante è il 614 con la fondazione del monastero di
Bobbio, culime di una politica di aperto incoraggiamento della coppia
regale alla riforma monastica di san Colombano.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Apparato iconografico:</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: bold; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span><img height="203px;" src="https://lh4.googleusercontent.com/02KvB0qZtd5IuOrtNMcutfE4c_yC_MFJivghTEXcAAs86qUZbR2xWfMW6ykU0tK9y1mcJhQv9VJrl4pvxfm_Yj4a-8KGVfEL6kWjqffxHvBtWF3p1g" width="300px;" /><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<br /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Fig.1:
Battistero degli Ariani, Ravenna </span><br />
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<a href="https://lh4.googleusercontent.com/MYH5Bp5ocBJSd1NFGGOguRf2TuLgI4Em-ZwxgIgoNdZ_ROPoMnM64ElZ_D8ztleHPh7Ih2Riy45xWJe9ksTuNKjhoJCYcqpPMMxO9MtEBT8G0kHXXQ" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="211px;" src="https://lh4.googleusercontent.com/MYH5Bp5ocBJSd1NFGGOguRf2TuLgI4Em-ZwxgIgoNdZ_ROPoMnM64ElZ_D8ztleHPh7Ih2Riy45xWJe9ksTuNKjhoJCYcqpPMMxO9MtEBT8G0kHXXQ" width="281px;" /></a><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><br />
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<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Fig.2: Mosaico centrale
della cupola nel Battistero degli Ariani
raffigurante il Battesimo di Cristo.</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span><img height="201px;" src="https://lh3.googleusercontent.com/xBtjfr80iaTez-ujdGH0zTELHwp-P4y314MEUTfRnhrR0LUB2Mv9GGYCvsS8iK9Uj72281ia8SPY-3sPnE0N7a0ogidoPlTeL-WBP0wSsxejHGuPRQ" width="300px;" /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Fig.3: Cattedrale degli Ariani, ora Chiesa del </span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Santo Spirito, Ravenna</span><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><br />
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<a href="https://lh4.googleusercontent.com/Cdx3pSuoKMHmPqUPI6lXAGSncOe09nZc_QKek_9JwRQo6ZeOCSW51VSgQ5V2APW5iGN5sWHfIiaMAAyp4wPgCj8qX39NVV_DbrEEILq210aYripPiQ" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="295px;" src="https://lh4.googleusercontent.com/Cdx3pSuoKMHmPqUPI6lXAGSncOe09nZc_QKek_9JwRQo6ZeOCSW51VSgQ5V2APW5iGN5sWHfIiaMAAyp4wPgCj8qX39NVV_DbrEEILq210aYripPiQ" width="265px;" /></a><span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"> </span><br />
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<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Fig. 4: Battistero degli Ortodossi o Neoniano, Ravenna</span></div>
<div style="color: #cccccc;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 12pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;"></span><img height="199px;" src="https://lh4.googleusercontent.com/_3QLpANQxFjrNuqQQ8zlzUKUDKr4dEvS_Bebws0DBref0WkXvtzWBCB6Xs4MK9S7muXwA1m9X5sZhvUpRZE7-ynZCLAduVjxuTj0vCUgkmGcWyrJmw" width="299px;" /></div>
<div style="color: #cccccc; margin-bottom: 0pt; margin-top: 0pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: transparent; font-family: Times New Roman; font-size: 11pt; font-style: normal; font-weight: normal; text-decoration: none; vertical-align: baseline;">Fig. 5: Mosaico centrale della cupola nel Battistero degli Ortodossi raffigurante il Battesimo di Cristo.</span></div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-47159953030572854772010-08-28T22:30:00.000+02:002010-08-28T22:30:18.110+02:00I Babilonesi<div style="text-align: justify;">
<a href="http://cronologia.leonardo.it/mondo65.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://cronologia.leonardo.it/mondo65.jpg" /></a>La civiltà Babilonese, trasse le proprie origini e la propria grandezza dalla sua capitale Babilonia, il cui nome, letteralmente tradotto, significava la porta del Dio. La città apparve già citata verso il 1500 a.C., quando in Mesopotamia fecero la loro comparsa gli Ittiti. Secondo alcune ipotesi, Babilonia potrebbe essere stata fondata nelle sue forme più splendenti, dalla regina Semiramide: essa infatti, forse per offuscare il prestigio del marito Nino, re degli Assiri, intorno al 900 a.C., fece ampliare ed abbellire la preesistente città situata sulle rive del fiume Eufrate, arricchendola di splendidi palazzi e templi. Il primo re di Babilonia citato da fonti storiche, fu Nabonassar, che regnò dal 747 al 734 a.C., anno nel quale il regno babilonese cedette all’egemonia assira, che ebbe inizio con il re Tiglat Pileser III, che iniziò le ostilità anche contro i Caldei. Il nome della città è particolarmente legato a quello del re Nabucodonosor II, che regnò dal 605 al 562 a.C., rendendo Babilonia ancora più splendida di quanto già non fosse. Per la sua fertilità e la ricchezza di prodotti e acqua, ha sempre attratto varie popolazioni, e lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate sono sorte ed hanno prosperato diverse civiltà, che hanno portato nella regione scienza e cultura. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Intorno al 3600 a.C. la regione era abitata da una pacifica popolazione conosciuta come Gente di Obeid. Nel 3500 a.C. giunsero dall’Asia centrale i Sumeri, che si stabilirono nella Mesopotamia meridionale, a ridosso della fascia costiera del Golfo Persico, dove fondarono la loro capitale Nippur. Nella stessa regione, lungo il mare e in una zona acquitrinosa, si stabiliranno invece i Caldei, giunti dal Sinai o dall’Arabia e grandi esperti di magia. Essi ebbero rapporti molto stretti con gli Egizi, ai quali trasmisero le loro conoscenze esoteriche, astronomiche e i propri modelli religiosi. Fu in questo periodo che venne edificata la splendida città di Ur dei Caldei, ricca di Zikurrat e che pare sia stata la città natale di Abramo. Entrambi questi popoli portarono conoscenze nel campo dell’astrologia, della matematica e nel settore legislativo. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Trasmisero inoltre ai loro successori mesopotamici una tradizione religiosa che verrà ripresa in seguito dai babilonesi. Ad est del territorio abitato dai Caldei si trovava la terra di Elam che aveva per capitale la città di Susa. Questo popolo fu sempre in lotta con gli Assiri e si alleò con i babilonesi per far fronte comune contro questi temibili avversari. Gli Elamiti gestiranno per molto tempo il controllo della Persia sud-occidentale e saranno i protagonisti della storia babilonese. Riepilogando si evince dunque che la bassa Mesopotamia era composta a sud, lungo il mare, sul Golfo Persico, dalla Caldea; a est dall’ Elam; a nord della Caldea dal Sumer con le città di Ur e Nippur; più a sud, sulla costa a ridosso della Caldea, dove oggi si trova il Kuwait, si trovava il Paese del Mare popolato da genti di origine araba. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
In questo contesto, si inserì a nord del Sumer, una popolazione di origine semita, il cui re, Sargon fondò la città di Accad, che in poco tempo divenne più importante di Ur. Tra il 2300 ed il 2000 a.C. dal Sinai giunsero gli Amorrei, che sconfissero i Sargonidi instaurando un proprio regno nella regione. Illustre discendente di questo popolo fu Hammurabi, il grande re famoso per le tavole delle leggi e dalla cui dinastia ebbe origine il popolo babilonese.Gli Amorrei stabilirono il proprio regno a sud della Siria; da questa civiltà derivò quella degli Aramei, che si stanziarono prevalentemente nel regno di Giuda e ai quali si deve lRsquo;origine della lingua aramaica, la più diffusa tra i popoli semiti. In epoca successiva si insediarono a nord di questa regione i Mitanni, il cui re più famoso fu Tushratta, che avviò contatti politici ed economici con i regnanti Egiziani ed Ittiti. Essi traevano la propria origine dagli Hurriti, popolazione proveniente dalle regioni caucasiche, il cui centro principale era la città di Urartu, dalla quale ebbe origine il Regno di Urartu, corrispondente all’attuale Armenia. Intorno al 1700 a.C. gli Hurriti sottomisero praticamente tutta la Mesopotamia, invadendo anche il regno degli Ittiti. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
È molto probabile che anche gli Hiksos, che conquistarono l’Egitto, discendessero dagli Hurriti. Un altro popolo asiatico, i Cassiti, provenienti dalle montagne del nord dell’Iran, verso il 1700 a.C. si stabilirono nell’area corrispondente all’Assiria e al nord di Babilonia, scontrandosi più volte con gli eserciti di Ammurabi. Essi riuscirono a sottomettere per un certo periodo compreso tra il 1530 ed il 1080 a.C., la regione babilonese; i più importanti re delle dinastie cassite furono: Agukakrime, Karaindas, Kurigalzu I, Kurigalzu II e Burnaburias II.I Cassiti vennero poi sconfitti definitivamente dagli Elamiti, che in segno di vittoria, trasportarono la statua del dio Marduk da Babilonia alla loro capitale Susa. Intorno al 1500 a.C., il controllo della parte nord-occidentale della Mesopotamia spetterà agli Ittiti, che conquistarono il regno dei Mitanni, combatterono gli Assiri cercando di coinvolgere anche i babilonesi. Rimasero comunque in vita diverse tribù caldee, che governate da sceicchi non ebbero mai uno spirito unitario; esse trovarono il proprio rappresentante nella persona di Merodach Baladan, re ed eroe caldeo, che più volte mosse guerra agli Assiri tra il 721 ed il 703 a.C. contribuendo alla nascita della civiltà babilonese. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
La Mesopotamia era chiusa al nord dal regno caucasico, popolato da genti di origine scita. Ad est si ergeva la Media, che restò indipendente dal 728 al 550 a.C e la cui capitale era Ectabana; alleandosi con i babilonesi, i Medi posero fine al regno assiro. Tra i regni di Akkad e Urartu-Arameo, nell’884 a.C. fiorì la civiltà assira, che tramonterà verso il 609 a.C.. Questa civiltà era basata sull’imperialismo e sulle arti belliche ed avrà come suo fondatore il re Assurnasirpal II, e vivrà il suo periodo di massimo splendore tra il 722 ed il 627 a.C. sotto diversi sovrani tra i quali Sargon II, Sennacherib e Asarhaddon. Saranno loro a contribuire alla formazione dell’Impero assiro, che nel periodo di maggior estensione comprendeva la Fenicia, l’Egitto, Israele, il regno di Akkad, il territorio degli Aramei, il Paese del Mare, ed il regno di Babilonia. Solo l’Elam e la Caldea riuscirono a mantenere la propria indipendenza, grazie soprattutto al re Merodach Baladan. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Sotto la civiltà assira vedranno la luce le splendide città di Assur e Ninive, che diverrà famosa in tutto il mondo conosciuto. Per Babilonia, gli Assiri optarono per una sorta di protettorato, dato che la città era considerata un luogo sacro e patria degli dei. Alcuni re assiri si proclamarono anche re di Babilonia, assumendo un doppio nome. Tutto ciò ebbe termine nel 626 a.C., quando Nabopalassar, padre di Nabucodonosor, con l’aiuto fornito da Medi, Elamiti, Aramei e Caldei, conquistò l’Assiria. Egli riuscì nell’impresa di unificare tutte le tribù caldee, stipulando trattati di alleanza con tutti i paesi limitrofi. Nel 614 a.C. conquistò la città di Assur, mentre due anni più tardi, il re dei Medi Ciassarre prese Ninive, la capitale degli Assiri. Il re di Babilonia era riuscito là, dove i regnanti assiri avevano fallito a causa della loro mentalità imperialista e incuranti del pericolo rappresentato dai popoli confinanti non ancora sottomessi: Frigi e Lidi a nord; Medi ad est; Caldei ed Elamiti a sud e Cimmeri ad ovest. L’unico buon sistema per gestire queste situazioni di pericolo erano dei trattati di alleanza ed un buon governo, una politica questa che riuscì particolarmente bene alla diversa cultura babilonese. </div>
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Per molto tempo si pensò che i babilonesi fossero caldei, ma non era così; dai caldei essi ereditarono le conoscenze religiose e culturali. Numerose furono le nozioni apprese dai Sumeri: nel campo dell’astrologia inventarono un calendario molto simile a quello attuale, individuarono le diverse costellazioni ed identificarono la cometa di Halley. Furono grandi matematici, riuscendo a risolvere equazioni algebriche di terzo grado ed impostarono il teorema di Talete. Grandi ingegneri, essi realizzarono città, templi e sontuosi palazzi a Babilonia, fra i quali i templi di Etemannki e Esagila, rivestiti in oro. Babilonia veniva considerata l’ombelico del mondo, importante centro di arte e cultura. </div>
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La Porta di Ishtar, la via della processione, la torre di Babele e i famosi Giardini Pensili, una delle Sette meraviglie del mondo, fatti realizzare dalla regina Amitis, moglie del re Nabucodonosor. Descrivevano nel dettaglio tutte le loro opere completandole con piante e calcoli minuziosi; esistono ancora diversi reperti toponomastici comprendenti dettagliate descrizioni di alcune zone di Babilonia. Nella scrittura utilizzarono il codice lineare B, che venne poi adottato dai Cretesi, implementato con caratteri della scrittura cuneiforme. Moltissimi furono i libri prodotti, come testimoniato dai numerosi reperti rinvenuti nelle diverse biblioteche. Inventarono Le Cronache, nelle quali venivano riportate in forma molto oggettiva e attendibile, le notizie più importanti del periodo.</div>
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I Babilonesi dal punto di vista militare disponevano di grandi eserciti dotati di carri da guerra, introdotti dai Sumeri e perfezionati dagli Assiri, e di macchine da guerra utilizzate per l’assedio delle città. La società babilonese era formata da due classi principali: una classe regale ed una sacerdotale. Quest’ultima in particolare, aveva il controllo su latifondi terrieri e beneficiava dei proventi da essi derivati. A queste due classi si aggiungeva una classe borghese formata dalla casta dei mercanti, arricchiti dai fiorenti commerci intrattenuti dai babilonesi con i popoli vicini. Il tenore di vita era medio alto, come si può dedurre dall’opulenza delle città e dalla presenza di schiavi. Ogni città era ben fortificata; inoltre Nabucodonosor fece erigere un vallo al confine con la Media, con lo scopo di prevenire eventuali aggressioni.
</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-88218429148605930882010-08-26T23:02:00.000+02:002011-10-25T02:39:10.010+02:00I Fenici<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/_4DMYomxDQf0/R4dQqmCuZiI/AAAAAAAAA-0/-HVay6jZaQs/galera%20fenicia.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/_4DMYomxDQf0/R4dQqmCuZiI/AAAAAAAAA-0/-HVay6jZaQs/galera%20fenicia.jpg" width="290" /></a>Circa 3000 anni prima di Cristo, una popolazione di stirpe semitica si era stanziata lungo le coste siriane su una striscia di territorio stretta e lunga, aperta verso ovest sul Mediterraneo, avente alle spalle i monti del Libano e dell'Antilibano e compresa tra il Monte Carmelo ad est ed il fiume Oronte a nord. Questa terra venne denominata dagli antichi Fenicia, mentre i suoi abitanti vennero chiamati Fenici. A causa della limitata estensione e del territorio prevalentemente montuoso, i Fenici non poterono vivere esclusivamente di agricoltura, anche se seppero coltivare con perizia il poco territorio coltivabile, riuscendo ad ottenere grano e cereali in pianura, mentre in altura proliferavano le colture di viti e ulivi. Per loro sfortuna, il proprio territorio confinava con popoli tra i più forti ed organizzati dell'epoca come ad esempio gli Assiri e gli Egizi, che impedirono loro di espandersi al di là dei monti alla ricerca di territori più fertili. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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Non potendo praticare in modo intensivo l'agricoltura e la pastorizia, se non in scarsa misura, non potendo conquistare nuove terre a causa della superiorità militare dei loro vicini, i Fenici si dedicarono a quella che sarebbe poi divenuta l'occupazione che rese celebre la loro civiltà: la navigazione. Grazie all'abbondanza di legname proveniente dai monti del Libano, non mancò mai loro la materia prima per la costruzione delle loro velocissime e robuste navi: l'abbondanza di legname consentì ai Fenici di esportare il legno di cedro in quei paesi che ne erano sprovvisti. Oltre al legname, le navi fenicie trasportavano anche i prodotti industriali locali, che essi sapevano abilmente produrre sfruttando le risorse a loro disposizione: utilizzarono la porpora, sostanza molto ricercata nell'antichità, che veniva estratta da un mollusco, il murice, per tingere di rosso dei preziosi tessuti; fin dai tempi più antichi, venne loro attribuita anche la scoperta e la fabbricazione del vetro. I Fenici quindi non furono solo degli abili marinai, ma anche degli ottimi commercianti e industriali e come tali divennero presto famosi nel mondo antico e furono i più abili per eccellenza nell'area mediterranea. Con i loro attivissimi traffici, essi esportarono e fecero conoscere materie prime e prodotti delle loro industrie presso altri popoli del Mediterraneo, favorendone l'evoluzione verso forme più progredite di civiltà. Trovarono quindi un'ampia diffusione nel bacino mediterraneo i loro prodotti artigianali, che i Fenici producevano utilizzando le materie prime che giungevano fino a loro dall'Oriente per mezzo delle vie carovaniere: stoffe pregiate che essi tessevano e coloravano con la porpora, vasi e altri oggetti di vetro dei più diversi colori e forme, oggetti in avorio, terracotta, bronzo, ma anche ceramiche e gioielli. Questi ultimi si ispiravano a modelli egizi o dei popoli della Mesopotamia.</div>
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I Greci prima e i Romani poi, utilizzarono l'esperienza dei Fenici per estendere il proprio dominio nel Mediterraneo. Questi due popoli poterono infatti entrare più facilmente in contatto con quelle popolazioni che avevano in precedenza conosciuto e sperimentato l'opera fenicia ed il loro sistema di vita, ma non solo: essi sfruttarono anche le loro tecniche di navigazione e di costruzione delle navi. Sulle coste della Fenicia, molti erano i cantieri navali nei quali venivano costruite sia le navi destinate alla loro flotta, oppure alle flotte di quei paesi che ne facevano richiesta, sopprattutto l'Egitto. Dalla natura del territorio derivarono sia l'attività predominante dei Fenici che il carattere particolare della storia di questo popolo. La catena montuosa del Libano, che si presenta ad occidente come un rilievo costellato da numerose valli digradanti veso il mare divise fra loro da tutta una serie di contrafforti, contribuì a tenere divisi gli abitanti, facendo si che essi non riuscirono mai ad organizzarsi in forma unitaria. </div>
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La storia dei Fenici è quindi una storia di varie città, ognuna delle quali formava uno Stato a sè. In ogni città vi era un re che governava assistito da un consiglio composto da anziani, esponenti delle più potenti famiglie cittadine. Dato che queste città avevano in comune l'attività marinara, esse sorgevano tutte lungo la costa e le più importanti fra loro furono Tiro, Sidone, Biblo, Tripoli e Berito, ubicate su promontori che, avanzando verso il mare formavano degli ottimi approdi naturali. Alcune tra queste città ebbero una maggiore importanza rispetto alle altre: Biblo iniziò ad avere rapporti commerciali con l'Egitto fin da tempi molto antichi; essa rappresentò il più antico centro della civiltà fenicia e il principale emporio del papiro. Nell'XI secolo a.C. Biblo cadde sotto la dominazione degli Assiri: fu in quel periodo che la città, interotti i rapporti commerciali con l'Egitto iniziò a decadere.</div>
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Dopo un periodo di supremazia di Sidone, l'egemonia sulle città fenicie passo a Tiro, la cui importanza durò fino al momento della conquista della Fenicia ad opera dei Persiani. Si trattò sempre di una supremazia economico-commerciale, comunque non tale da sottomettere politicamente il resto del Paese. Grazie all'impulso fornito da queste città, ma in modo particolare durante il predominio di Tiro, i Fenici svilupparono fortemente le loro attività commerciali e marinare, intraprendendo nuovi viaggi e allargando i loro traffici non solo con le popolazioni che si affacciavano sul Mediterraneo Orientale, ma anche con quelle del Mediterraneo Occidentale. Per effettuare al meglio questi commerci occorrevano però nuove basi commerciali nell'area mediterranea: se inizialmente essi si assicurarono dei semplici scali nei quali ripararsi in caso di necessità nel corso delle navigazioni più lunghe, o luoghi dove rifornirsi di acqua e scambiare merci, in seguito questi scali assunsero sempre più importanza, fino a diventare delle vere e proprie colonie. Sorsero così sulle coste del Mediterraneo dei centri importanti, popolosi e attivi, che non si limitarono a mantenere rapporti commerciali con la madrepatria, ma ebbero una vita indipendente e florida. Gli esempi più illuminanti furono: sulla costa africana Leptis Magna, Tapso, Cartagine, Utica e Ippona; in Sicilia vennero costituite le colonie di Panormo, l'attuale città di Palermo e Lilibeo; in Sadegna sorse la colonia di Cagliari, mentre sulla costa francese venne fondata MarsigliaSulla costa spagnola vennero fondate Abdera e Malaga. E' certo che le navi fenicie superarono anche le Colonne d'Ercole, lo Stretto di Gibiltera, fondando la colonia di Cadice. Gli antichi attribuirono ai Fenici la navigazione verso le coste del nord Europa: sembra infatti che per la fabbricazione del bronzo, si servissero dello stagno prelevato nella regione situata a sud-ovest dell'Inghilterra, l'attuale Cornovaglia, mentre nell'area del Baltico trovarono l'ambra. Nella storia della colonizzazione fenicia un ruolo particolare lo rivestì la città di Cartagine, a causa della grande importanza economica da essa raggiunta. Questa colonia venne fondata verso il IX secolo a.C., in seguito a contrasti politici interni alla città di Tiro. </div>
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Cartagine crebbe ben presto in potenza, divenendo in breve uno dei più importanti centri del traffico commerciale svolto dai Fenici nel Mediterraneo; estese il proprio dominio in modo sia diretto che indiretto in vaste aree dell'Africa Settentrionale, dove fondò nuove colonie. Inviò propri coloni in Sicilia, Sardegna, Gallia e Spagna, dove essi crearono degli ottimi empori. Costituì quindi un solido impero commerciale nel Mediterraneo Occidentale: i Greci nel V secolo a.C. ed i Romani più tardi, si videro costretti a doversi misurare militarmente con questa potenza che al suo interno era governata da uomini appartenenti al ricco ceto dei commercianti. Con la loro vita fatta di viaggi e di relazioni commerciali con i popoli più diversi, i Fenici ebbero la necessità di esprimere graficamente il proprio pensiero in un modo più semplice rispetto a quello utilizzato dagli Egiziani e dagli Assiro-Babilonesi. </div>
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A questa necessità essi sopperirono con l'invenzione dell'alfabeto, avvenuta nel 1250 a.C.: questo era formato da ventidue segni, ciascuno corrispondente ad un suono; combinandoli insieme era possibile scrivere delle parole. In questo modo era era loro consentito di esprimersi e comunicare in maniera molto più rapida di quanto non lo fosse utilizzando i geroglifici egiziani o i caratteri cuneiformi dei popoli mesopotamici. In seguito i Greci vi apportarono alcune modifiche che lo resero ancora più valido, come ad esempio l'introduzione delle vocali e la scrittura da sinistra a destra. I Fenici non furono dotati di un particolare spirito artistico e letterario: di loro non si conoscono opere d'arte di alcun genere. Essi furono famosi per le loro capacità tecniche che si espressero particolarmente nel campo delle costruzioni: architetti fenici contribuirono con la loro esperienza all'erezione del tempio di Gerusalemme. La massima perfezione la raggiunsero però nella tecnica nautica: furono loro ad iniziare la navigazione notturna orientandosi con la stella polare, studiarono il fenomeno delle maree e per primi utilizzarono l'ancora. Le loro convinzioni religiose riflettevano i loro sentimenti piuttosto aridi: politeisti, essi adoravano principalmente il dio Baal, divinità che appariva con aspetto e nome diverso a seconda della città nella quale sorgeva il tempio ad essa dedicato. A questo dio i Fenici non esitavano ad offrire sacrifici cruenti e, a volte, perfino umani.
</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-68640275228574366362010-08-26T22:50:00.000+02:002010-08-26T22:50:04.945+02:00Gli Assiri<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.tuttostoria.net/public/98gil14.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="http://www.tuttostoria.net/public/98gil14.jpg" width="320" /></a></div>
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Erano una popolazione semita appartenente al gruppo degli Amorriti, che giunse nella Mesopotamia settentrionale verso il 2500 a.C.. Il loro nome deriva dalla loro città-Stato più importante: Assur. Essi godevano della fama di essere guerrieri feroci e sanguinari, e dopo innumerevoli battaglie riuscirono ad estendere il proprio dominio su tutto il territorio di Babilonia, sconfiggendo i Sumeri, i Caldei e gli Aramei, dei quali adottarono poi le civiltà, utilizzando come lingua ufficiale l’Aramaico. L’impero Assiro (1115-606 a.C.) comprese nel periodo della sua massima espansione le coste del Mar Nero, la Siria, la Mesopotamia, la Media, la Fenicia, la Palestina e l’Egitto. </div>
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La loro ultima capitale, Ninive, cadde nel 612 a.C. per mano della coalizione composta da Caldei e Medi, assieme a tutte le altre principali città: Assur, Kalkhu, Kharranu, Nimrud e Khorsabad. Gli eserciti della coalizione distrussero i centri del potere assiro ma lasciarono integra la loro cultura e le loro divinità. La storia del popolo Assiro si divide in tre periodi distinti: l’Antico Assiro (2500-1115 a.C.), durante il quale il principale centro di potere fu la città di Assur; il Medio Assiro (1115-721 a.C) segnò la nascita, l’espansione e la decadenza dell’Impero Assiro; infine il Neo Assiro (721-606 a.C.), che fu il periodo della rinascita sotto il regno dei Sargonidi nella nuova capitale Ninive. Intorno al 2500 a.C. essi edificarono le due roccaforti di Assur e Ninive, espandendosi nelle terre confinanti per circa due secoli. Successivamente gli Accadi, guidati dal loro re Sargon, riuscirono a sconfiggere l’esercito assiro ottenedo il controllo del territorio fino al 2100 a.C.. </div>
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Seguì un secolo circa di dominazione da parte dei Sumeri, interrotta da una rivolta capeggiata dal re Assiro Puzur-Assur I°, che fu il primo re della sua dinastia che durerà dal 2000 a.C. fino al 1813 a.C., data di inizio del regno di Shamshi-Adad (1813-1781 a.C.). La pressione esercitata dai Babilonesi di re Hammurabi ebbe il sopravvento nel 1764 a.C, mentre il popolo dei Mitanniinfluenzerà l’intera area dal 1605 al 1365 a.C.. Gli Assiri riprenderanno l’offensiva con l’avvento del feroce re Assurubalit I° (1365-1330 a.C.); egli ordinò terribili stragi e deportazioni in massa di popolazioni inermi, crudeli soluzioni che cambiarono il modo di fare la guerra, consolidando nel contempo le nuove ideologie sulla purezza della razza. </div>
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Il grande paradosso che distinse gli Assiri da altri popoli dell’epoca, fu che, se da una parte a svilupparono una strategia militare estremamente feroce, dall’altra curarono molto lo sviluppo della matematica, lo studio degli astri, le scienze, la letteratura e lo studio dei testi sacri. Gli Assiri vollero elevarsi a stirpe prioritaria, toccando i vertici estremi tra l’intelletto divino e la crudeltà del soldato perfetto. Questi terribili guerrieri si spinsero verso meridione in direzione di Babilonia, guidati dai loro re Adad-Ninari I° (1307-1275 a.C.), Salmanassar (1274-1245 a.C.), Tukulti-Ninurta (1244-1208 a.C.), riuscendo a conquistarla e Tiglat-Pileser I° (1115-1074 a.C), assunse il titolo di primo imperatore assiro regnando sull’intera Mesopotamia e la Siria fine a raggiungere le coste del Mar Nero. La sua morte segnò l’inizio della decadenza dell’Impero che si protrasse fino al periodo Neo Assiro, interrotta solo per poco tempo dal regno di re Assurnasirpal II (884-858 a.C.), che conquistò nuovi territori consolidando il vacillante Impero. A lui fece seguito Salmanassar III (859-824 a.C.), che soffocò le rivolte scoppiate in Palestina e nei territori Fenici; il suo successore Adad-Ninari III (810-782 a.C.), conquistò Damasco e riprese l’assedio delle città Fenicie. Il re Tiglat-Pileser III (744-727 a.C.) riconquistò in parte i territori perduti dai sovrani precedenti, riprendendo tutta la Siria e la Palestina. </div>
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Nel corso del periodo Neo Assiro, il re Sorgon II (721-705 a.C.) fu il primo re di una nuova dinastia detta dei Sargonidi, il cui figlio Sennacherib (680-669 a.C) pose fine alle continue rivolte in Palestina e nell’Elam, spostando la capitale dell’Impero Assiro nella città di Ninive. Il re Asarhaddon (680-669 a.C.) riprese la penetrazione in Egitto; al momento della sua morte, la sua opera di conquista venne completata dal suo successore Assurbanipal (668-627 a.C.); questi sconfisse in seguito il fratello rivale, re di Babilonia, favorendo un nuovo periodo di splendore, seppur effimero dell’Impero Assiro. Dopo la sua morte ebbe inizio la fase finale della decadenza del Regno, che si concluse con la sconfitta definitiva dell’esercito Assiro ad opera della coalizione formata dai Caldei e dei Medi. </div>
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Le loro monumentali città risentivano molto dell’influenza architettonica babilonese; veramente notevoli risultavano i giganteschi rilievi decorativi rappresentanti scene di caccia al leone o scene di guerra, nelle quali si tendeva ad esaltare la potenza dei guerrieri Assiri. L’amministrazione e l’economia dello Stato si reggevano sui commerci e soprattutto sul saccheggio delle città sconfitte. Ogni città dell’Impero Assiro possedeva un centro amministrativo-commerciale dipendente in modo diretto dal palazzo reale situato nella capitale; le merci più scambiate erano in buona parte costituite da piombo, stagno, rame, tessuti e pietre preziose; i pagamenti avvenivano per mezzo di piccoli lingotti d’oro o d’argento, oppure con un controvalore in rame o stagno. </div>
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Tra gli dei venerati dagli Assiri, il più adorato fu il dio Assur, protettore del popolo assiro; in seguito si svilupparono culti derivati da altri popoli, come quello della dea babilonese Ishtar, patrona dell’amore e della guerra, Anu, il dio del cielo, Adad, il dio dei fenomeni metereologici, Nabu, patrono degli scribi, Shamash, dio della giustizia, Sin, dea della luna e molti altri.
</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-44227773328390517192010-08-24T15:12:00.000+02:002010-08-24T15:12:56.567+02:00Francis Drake<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:aDO8hoS4h6fWqM:http://www.peoplequiz.com/images/bios/Sir_Francis_Drake.-4428.jpg&t=1" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:aDO8hoS4h6fWqM:http://www.peoplequiz.com/images/bios/Sir_Francis_Drake.-4428.jpg&t=1" width="234" /></a></div>
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Francis Drake nacque nel 1540 nel Devon, Inghilterra, figlio di agricoltori protestanti. Durante le sommosse cattoliche del 1549, la famiglia fu costretta a fuggire nel Kent. All'età di circa 13 anni Francis prese il mare su una nave mercantile, diventando comandante della nave all'età di 20 anni. Passò gli inizi della sua carriera affinando le sue qualità di manovrare nelle acque difficili del Mare del Nord e infine, dopo la morte del capitano per il quale egli comandava, divenne comandante di un'imbarcazione di proprietà. All'età di 23 anni Drake compì i suoi primi viaggi nel Nuovo Mondo sotto le vele della famiglia Hawkins di Plymouth, in compagnia di suo cugino, Sir John Hawkins. Famosa anche la spedizione da lui guidata con la nave Paffal in america del sud.</div>
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Attorno al 1563 Drake dapprima fece vela a ovest verso l'oceano spagnolo, attirato dall'immensa ricchezza derivante dal monopolio spagnolo sull'argento del Nuovo Mondo. Drake maturò una rapida antipatia per gli spagnoli, a causa, almeno in parte, della loro diffidenza verso gli stranieri e del loro cattolicesimo. Nel suo secondo viaggio di questo tipo combatté una dura battaglia contro le forze spagnole, che costò molte vite agli inglesi ma fece guadagnare a Drake il favore della regina Elisabetta.
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La più celebrata avventura di Drake nei Caraibi fu la cattura del convoglio spagnolo che trasportava argento a Nombre de Dios nel marzo del 1573. Con un equipaggio che comprendeva diversi corsari francesi e Cimaroni (schiavi africani che erano scappati dagli spagnoli), Drake fece incursioni nelle acque intorno Darien (nell'odierna Panama) e individuò la carovana dell'argento nel vicino porto di Nombre de Dios. Razziò una fortuna in oro, ma dovette rinunciare ad un'altra fortuna in argento perché era troppo pesante per essere riportata in Inghilterra. Fu durante questa spedizione che divenne il primo inglese a vedere l'Oceano Pacifico. Quando Drake ritornò a Plymouth il 9 agosto 1573, soltanto trenta inglesi, di quelli che con lui erano partiti, ritornarono con lui, ma ogni sopravvissuto era divenuto ricco per il resto della sua vita. Tuttavia la regina Elisabetta, che aveva fino a quel punto appoggiato e incoraggiato le incursioni di Drake, firmò una tregua temporanea con il re Filippo II di Spagna, e così non poté riconoscere ufficialmente le imprese di Drake.
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Nel 1577 Drake ricevette dalla regina Elisabetta il compito d'intraprendere una spedizione contro la Spagna lungo le coste americane del Pacifico. Egli fece vela da Plymouth, in Inghilterra, in dicembre, a bordo del Pelican, con quattro altre navi e più di 150 uomini. Dopo aver attraversato l'Atlantico, due delle navi dovettero essere abbandonate sulla costa orientale del Sud America. Le restanti tre navi partirono dirette allo stretto di Magellano, all'estremità meridionale del continente. Alcune settimane dopo esse riuscirono a entrare nel Pacifico, tuttavia violenti temporali distrussero una delle navi e costrinsero un'altra a ritornare in Inghilterra. Drake continuò con la sua nave ammiraglia, ora rinominata Golden Hind (la Cerva Dorata) in onore a Sir Christopher Hatton (dal suo stemma araldico).
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L'ultima nave restante veleggiò verso nord lungo le coste sul Pacifico del Sud America, attaccando porti spagnoli come Valparaíso durante il percorso. Catturò inoltre navi spagnole nel viaggio verso nord, facendo buon uso delle loro mappe, più accurate. Nella sua ricerca del passaggio a Nord Ovest, Drake potrebbe essere giunto fino all'odierno confine tra Stati Uniti e Canada. Non essendo in grado di trovare il fantomatico passaggio per rientrare nell'Atlantico, girò indietro e si diresse a sud.
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Nel 1579 la Golden Hind entrò in una insenatura (la baia di Drake) a nord dell'odierna San Francisco per riparazioni. Sbarcò nel nord della California, o forse ancora più a nord, nell'Oregon o nel Pacific Northwest (il luogo esatto è ancora dibattuto tra gli storici) e dichiarò la terra, chiamandola "Nuova Albione", territorio della Corona Inglese. Le mappe realizzate poco dopo riportarono scritto "Nuova Albione" su tutta la frontiera a nord della Nuova Spagna.
Quando Drake rifece vela, si diresse a ovest attraverso il Pacifico e qualche mese dopo raggiunse le Molucche, un gruppo di isole nel sud ovest pacifico (a est dell'odierna Indonesia).
Fece numerose soste nel suo viaggio verso la punta dell'Africa, doppiando infine il Capo di Buona Speranza, e arrivò in Inghilterra nel settembre del 1580. Portò con sé un ricco carico di spezie e di tesori catturati agli spagnoli e fu salutato come il primo inglese a circumnavigare la Terra. Il 4 aprile 1581 Drake fu nominato cavaliere dalla regina Elisabetta a bordo della Golden Hind e divenne sindaco di Plymouth e parlamentare.
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Il carico di spezie e tesori catturati agli spagnoli dimostrarono sia la ricchezza che la vulnerabilità dell'Impero spagnolo. La regina ebbe diritto alla metà del carico e il valore di quella metà era superiore alle entrate della corona di un intero anno.
La regina ordinò che tutti i resoconti scritti del viaggio di Drake fossero tenuti segreti, ai suoi partecipanti fu fatto giurare il silenzio a prezzo della vita; il suo scopo era tenere le attività di Drake lontano dagli occhi della rivale Spagna.Nel 1585 scoppiò la guerra tra la Spagna e l'Inghilterra. Drake navigò verso il nuovo mondo e saccheggiò i porti di Santo Domingo e Cartagena. Nella tratta di ritorno del viaggio catturò il fortino spagnolo di St. Augustine (Florida). Queste imprese incoraggiarono il re Filippo II di Spagna a dare ordini per pianificare una invasione dell'Inghilterra.
Effettuando un colpo preventivo, Drake diresse una flotta su Cadice, una delle principali porte d'ingresso in Spagna, occupando la città per tre giorni e distruggendo 26 navi nemiche insieme a una grande quantità di scorte. Questo attacco ritardò l'invasione spagnola di un anno.
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Drake fu vice ammiraglio in capo della flotta inglese (sotto Lord Howard di Effingham) quando essi vinsero l'Armada spagnola che stava cercando di invadere l'Inghilterra nel 1588. Mentre la flotta inglese inseguiva l'Armada lungo la Manica, Drake catturò il galeone spagnolo Rosario insieme all'ammiraglio Pedro de Vales e tutto il suo equipaggio, ma con ciò causando confusione nella flotta inglese durante lo svolgimento dell'azione. Nella notte del 29 luglio, insieme a Howard, Drake organizzò le navi incendiarie che costrinsero la maggior parte dei capitani spagnoli a rompere la formazione e a far vela attraverso il passo di Calais verso il mare aperto. Il giorno seguente Drake fu presente alla battaglia di Gravelines.
Drake successivamente intraprese una lunga e disastrosa campagna contro le colonie spagnole in America, subendo numerose e continue sconfitte, ultima delle quali l'attacco a Porto Rico, durante il quale un colpo di cannone sparato dalla fortezza di San Felipe del Morro raggiunse il ponte della sua nave, ma Drake riuscì miracolosamente a sopravvivere.
A metà del gennaio 1596, morì di dissenteria a 56 anni mentre era ancorato nella baia di Portobello dove venne seppellito in mare, in una bara di piombo.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-13014471942098006022010-08-21T23:01:00.000+02:002010-08-21T23:01:45.802+02:00I Sumeri<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.maestrasandra.it/sumeri/immagini/01Ur.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="205" src="http://www.maestrasandra.it/sumeri/immagini/01Ur.jpg" width="320" /></a></div>
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Le sue origini risalgono a prima del 3000 a.C., soppiantando la cultura derivata dalla Gente di Obeid, una popolazione nomade che si era stanziata nel sud-est della Mesopotamia, la terra compresa tra i due fiumi Tigri ed Eufrate, presso il villaggio di El Obeid, dalla quale prese il nome. Si trattava di una regione molto ricca di acqua, ma spesso esposta al pericolo delle inondazioni causate dalle piene dei due grandi fiumi; la città più importante fu Eridu. Sumer significa terra coltivata, per cui il nome Sumeri significa portatori di coltura.</div>
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Verso il 3000 a.C. questo popolo iniziò una migrazione dalla regione montuosa comprendente gli attuali Iran ed India, in direzione della regione meridionale mesopotamica, caratterizzata dalle frequenti inondazioni causate dal Tigri e dall’Eufrate. A questa prima migrazione, se ne unisce una seconda, di stirpe sciita, proveniente dal Mar Caspio. Venne quindi fondata la città sacra di Uruk, la capitale ed il centro politico-economico sumero, che determinò il passaggio da una vita nomade ad una stanziale; alla costruzione di Uruk seguì l’edificazione di altri centri urbani non protetti da mura: Ur, Lagash, Nippur, Kish, Eridu, Larsa, Umma e Isin, tutti principati che componevano la regione di Sumer. </div>
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Questo regno era situato in un territorio soggetto a diverse calamità naturali e spprattutto alle inondazioni che rendevano buona parte del terreno paludoso e non utilizzabile per le coltivazioni. Con la propria abilità e con l’ingegno che li distingueva, essi attraverso la realizzazione di numerose opere di bonifica dei terreni, riuscirono a rendere fertile e ricca di pascoli una buona parte del territorio. </div>
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Le attività principali della popolazione sumera erano costituite dall’agricoltura e dalla pastorizia; numerose altre forme di civilizzazione vennero inoltre trasmesse dai Sumeri ai Babilonesi e al mondo intero: grandi conoscitori dell’astrologia, essi inventarono un calendario molto simile a quello in uso attualmente, furono in grado di individuare tutte le costellazioni. Grandi matematici, furono i primi ad utilizzare i numeri; inventarono anche la scrittura che in epoca più recente venne poi perfezionata dai Cretesi per mezzo del codice lineare B. Nel campo dell’ingegneria realizzarono dei canali che permisero di rendere navigabile e e fertile la bassa Mesopotamia; edificarono templi, città e palazzi. Particolarmente importanti erano le Ziqqurat, edifici a forma di torre che consentivano ai sacerdoti Sumeri di osservare il cielo da una posizione favorevole. Abili nel realizzare con l’alabastro delle immagini votive, scolpirono numerose steli nelle quali essi registrarono tutto ciò che accadeva nella loro cultura. I Sumeri istituirono le scuole come luoghi di cultura; nel settore del diritto furono alquanto propositori, specialmente sotto il regno di Eannatum, uno dei primi sovrani di questo popolo che cercò di porre un freno ad una situazione di sopraffazione e di grande ingiustizia. </div>
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Curati nel vestire e dotati di una buona educazione sanitaria, i Sumeri erano esperti conoscitori delle erbe mediche. Non erano amanti della guerra, anche se furono loro gli inventori del carro da guerra molto usato dagli Scitima furono molto dediti ai commerci, in modo particolare con l’Egitto, che subì dai Sumeri diverse influenze, soprattutto sotto il punto di vista religioso ed architettonico: il mito egizio di Osiride riprende quello sumero di Dumuzi, mentre le piramidi egiziane prendono ispirazione dalle Ziqqurat sumeriche. La società dei Sumeri si basava essenzialmente su due classi predominanti: la classe regale e la classe sacerdotale. Quest’ultima aveva il controllo dei latifondi terrieri e beneficiava dei prodotti da questi ricavati. Le città erano governate da un Ensiun principe locale che spesso si autoproclamava anche En, sommo sacerdote, in modo da controllare anche il potere religioso, molto forte presso questa civiltà. C’era poi il Lugal, dignitario che svolgeva una podestà sovraregionale. Oltre a queste due classi esisteva una borghesia frutto dei fiorenti commerci che costituivano l’unica voce attiva per un paese povero di materie prime e costretto ad importare tutto dall’estero. L’unica vera grande ricchezza del Sumer era la sua rete di vie fluviali, che permetteva di svolgere attivi commerci. Oltre che con l’Egitto, particolarmente intensi erano i rapporti con lo Yemen, con i paesi che si affacciavano sul Golfo Persico e le città della valle del fiume Indo. Il tenore di vita era medio-alto; ciò è testimoniato dalla ricchezza delle loro città e dalla presenza di numerosi schiavi. L’ultima classe era quella dei contadini e dei pastori, che godevano di un tenore di vita piuttosto basso. </div>
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I Sumeri, conobbero il loro maggior sviluppo tra il 2500 ed il 2350 a.C. ; fu proprio durante questo periodo che la parte meridionale della Mesopotamia si caratterizzò per la presenza di villaggi che nel tempo vennero fortificati, in modo particolare Uruk. Nel 2500 a.C. la città di Lagash si trasformò in principato conquistando altre città sumere. Ne seguì uno scontro tra i vari centri dell’area, che richiamarono l’attenzione del vicino e combattivo Elam. Ma sotto il governo di re Urnanshe Lagash ottenne il sopravvento sulle altre città. La lotta fu molto dura, poichè molte città sumere vedendo ridursi il proprio potere economico si ribellarono. Il re Eannatum, nipote di Urnanshe, riuscì ad estendere il dominio di Lagash sulla maggior parte delle città sumere, sottomettendo l’Elam e sconfiggendo Mari, una città situata in Siria, testimoniando così come i Sumeri estesero il proprio dominio anche oltre i confini del loro territorio. In effetti Sumer risultava divisa in due grandi principati: il primo controllato da Eannatum che aveva per capitale la città di Lagash, il secondo, più a nord aveva per capitale Umma ed era governato dall’ensi Urlumma, che tuttavia doveva pagare un tributo a Lagash. </div>
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Sotto il regno del successore di re Eannatum, Entemena, i territori a nord di Lagash, controllati da Umma si ribellarono nuovamente. Gli Ummaiti sconfitti dai sumeri meridionali, subirono l’aggressione dell’ensi di Zabalam, Il, che si proclamò re di Umma ed ebbe una certa influenza anche su Lagash. Avvenne quindi, che ad un iniziale predominio della città di Lagash, fece seguito un periodo ummaita. Entemena perdette quindi il controllo a vantaggio dei sacerdoti di Lagash che misero al potere Lugalanda che non riuscì a risollevare la situazione economico-sociale del popolo sumero e soprattutto le misere condizioni nelle quali vivevano le classi più povere. Ad aggravare la situazione si aggiunse anche un’inflazione molto elevata. Al suo posto venne allora eletto Urukagina il primo re ad elezione popolare, che risanò l’economia e si avvalse di appositi funzionari addetti al controllo del governo; egli ridusse i poteri dei sacerdoti proclamandosi gran sacerdote e istituì un primo codice di diritto. </div>
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Nel 2350 a.C ad Umma salì al potere Lugalzagesi, individuo molto ambizioso e propenso alla guerra, che segnò un nuovo periodo per Sumer. Egli riuscì con la forza e dopo immani spargimenti di sangue, seguiti dalla distruzione pressochè totale delle città appartenenti al principato di Lagash, a riunificare la regione. Le nefandezze da lui compiute per raggiungere il suo scopo, sopravvissero nel tempo nelle leggende sumeriche. Assassinò il re Urukagina annettendo Lagash, Ur, Uruk e Kish al suo regno, spargendo ovunque morte e distruzione. Dalla città fortificata di Uruk, che divenne la sua nuova capitale, tentò di dimostrare che il dio Enlil era a suo fianco e per 25 anni regnò dall’Elam alla Siria, attirando sulla sua persona tutto il disprezzo degli ensi di Sumer. Da questa situazione trasse vantaggio il principe semita Sargon, che occupato il trono fondò una dinastia che governò il Paese dal 2350 al 2150 a.C. Con il benestare degli ensi Sumeri e grazie ad un esercito ben organizzato dotato di cavalleria, Sargon annientò l’esercito sumerico. </div>
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Questo scontro rappresentò la lotta tra due mondi completamente diversi tra loro: da una parte i Semiti, nomadi da sempre, perennemente assetati di ricchezze e dotati di un esercito meglio preparato al combattimento; dall’altra parte i Sumeri, di civiltà più progredita, poco propensi alla guerra e più stanziali. Sargon, fatto prigioniero il re sumero Lugalzagesi, lo espose al pubblico disprezzo imprigionato ad una gogna, per dimostrare al popolo che gli dei erano dalla sua parte. Fu un grande re e mantenne inalterate la religione e l’amministrazione precedenti e non si impose mai con la forza. Come lingua ufficiale del suo regno venne mantenuto il sumero, mentre come seconda lingua venne introdotto l’accadico. Il regno di Sargon era paragonabile ad un vero e proprio Impero e comprendeva: Elam, la Mesopotamia, la Siria, la Fenicia e una parte di Anatolia e Arabia. La sua capitale fu Accad, città situata tra i due grandi fiumi Tigri ed Eufrate e quindi ricca di commerci e di fasto. Re Sargon governò questo immenso Stato per 56 anni; i suoi successori, Rimush, Manishtusu, Naramsin e Sharkalisharri, dimostrarono un diverso grado di umiltà e non riuscirono a conservare l’unità dello Stato, soprattutto a causa delle delle rivolte dei principi Sumeri. Dal 2150 al 2050 a.C. la regione di Sumer venne invasa dai Gutei, una popolazione barbarica originaria dell’Armenia, che saccheggiarono tutte le città uccidendo buona parte dei loro abitanti. L’esercito sargonide non seppe resistere al loro impeto e venne travolto; anche la stupenda città di Accad, capitale del regno, venne depredata e distrutta. Alcuni ensi sumeri collaborarono con i Gutei al fine di aumentare il proprio potere , mentre altri, come il principato di Uruk, opposero una fiera resistenza. </div>
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Fu proprio il re Gudea di Uruk, che al termine di lotta durata circa 100 anni riuscì a respingere re Tirigan e i Gutei fuori dai confini di Sumer. In seguito il Paese venne governato per circa un secolo dai re della dinastia di Ur: Urnammu, Shulgi, Amarsuena, Shusin e Ibbisin. Il primo di questi re, Urnammu, era un generale che quando assunse il potere spostò il centro politico sumero nella città di Ur. Il suo fu un governo di pace, ed egli si proclamò re di Sumer e di Accad. L’importanza di questo re è anche dovuta al fatto di aver introdotto la dominazione della città di Ur, conosciuta nella Bibbia come città di origine di Abramo. In questo periodo, conosciuto come periodo Urrita, i Sumeri erano i dominatori dell’intera Mesopotamia e di una parte dell’Elam. Il re Shulgi ridiede benessere al regno e riuscì a risanarne l’economia stravolta dalle invasioni e dai conflitti precedenti. </div>
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Per difendere i confini dalla minaccia costituita dagli Amorriti, popolazione nomade di origine semita, fece erigere una muraglia lunga 63 Km, ma nonostante questa precauzione, gli Amorriti riuscirono ad invadere il Paese, ma vennero respinti. Dopo questo episodio, i Sumeri, indeboliti, nel 1950 a.C. vennero conquistati dagli Elamitiperdendo la propria autonomia. La civiltà sumera risorgerà nel mito, nella cultura, nelle scienze e nel diritto, grazie all’opera del grande re babilonese Hammurabi, che diede inizio alla dinastia Babilonese, riscattando i Sumeri dalla dominazione elamita.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-45684168297352518012010-08-21T21:42:00.000+02:002010-08-21T21:42:16.781+02:00Oliver Cromwell<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:0Jp2l0gqrsdB4M:http://collections.galleryjamaica.org/wp-content/uploads/2007/07/robert_walker_oliver_cromwell.jpg&t=1" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:0Jp2l0gqrsdB4M:http://collections.galleryjamaica.org/wp-content/uploads/2007/07/robert_walker_oliver_cromwell.jpg&t=1" /></a></div>
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Oliver Cromwell nacque il 25 aprile 1599 nel Cambridgeshire , figlio di Robert Cromwell, scudiero (1560 circa–1617), e di Elizabeth Steward (o Stewart) (1564–1654), il giorno stesso del matrimonio dei suoi genitori. Studiò al Sidney Sussex College, Cambridge, che era appena stato fondato, ed era permeato da un forte spirito puritano, ma abbandonò gli studi prima di ottenere il diploma, probabilmente a causa della morte del padre.
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Allo scoppio della guerra civile inglese, Cromwell iniziò una brillante carriera militare arruolando ed organizzando un reparto di cavalleria, noto come "Ironside Cavalry", che presto divenne il nucleo su cui si formò il nuovo esercito, il cosiddetto New Model Army, e da cui derivò il soprannome di Cromwell, "Old ironside". La vittoria nella Battaglia di Marston Moor (1644), ottenuta da Cromwell al comando delle truppe vittoriose, gli fece guadagnare una grandissima reputazione. Come leader della causa dei sostenitori del Parlamento e come comandante supremo del New Model Army, i cui soldati erano familiarmente noti come "Le Teste Rotonde" ("The roundheads"), Cromwell inflisse una sconfitta decisiva al re Carlo I, ponendo di fatto fine al potere assoluto della monarchia.
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Dopo aver rinunciato a seguire uno zio emigrato in Virginia, Cromwell riuscì a farsi eleggere membro del Parlamento come rappresentante della natia Huntingdon nel periodo 1628–1629. Nel suo discorso di insediamento si espresse in favore di una radicale trasformazione democratica, ribadendo tesi già espresse in un piccolo trattato da lui pubblicato sulla necessità di "dare il voto a tutti gli uomini". Cromwell si adoperò anche con forza nella difesa degli abitanti della regione dei Fens, nell'est del paese, minacciati dai ricchi proprietari terrieri di venir cacciati dalle proprie terre.
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Dopo aver sciolto il parlamento Carlo I regnò per gli undici anni successivi, alienandosi il consenso di molti a causa delle tasse imposte senza l'approvazione parlamentare e imponendo una sua particolare visione "cattolicizzata" al Protestantesimo della Chiesa d'Inghilterra. Quando, nel 1640, il re fu costretto dalla mancanza di fondi a riconvocare il parlamento, Oliver Cromwell fu uno dei molti parlamentari che si opposero strenuamente all'imposizione di nuove tasse fino a quando il re non avesse acconsentito a governare con il consenso del parlamento sia nel campo amministrativo che in quello religioso. L'impossibilità di giungere ad un accordo provocò lo scoppio della guerra civile fra le fazioni dette, rispettivamente, dei "Parlamentaristi" e dei "Realisti".
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Cromwell era un appassionato sostenitore della causa parlamentare e la sua maggiore attenzione andava alle questioni religiose. Sebbene non fosse un oratore particolarmente abile, egli fu sin dall'inizio uno dei leader più in vista della fazione parlamentare, essendo anche legato da vincoli di parentela ad un numero significativo di parlamentari e le sue idee erano prese in grande considerazione. Quando alcuni delatori lo denunciarono come uno dei più pericolosi membri del complotto contro il re, ne fu ordinato l'arresto ma, all'arrivo dei soldati, Cromwell e molti altri, evidentemente bene informati, si erano già messi in salvo. Nonostante fosse sempre stato influente, fu solo in piena guerra civile che divenne il leader assoluto della causa parlamentare, e questo avvenne soprattutto per merito della sua grande abilità come capo militare.
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Sebbene in seguito sia stato personalmente corresponsabile della detronizzazione e dell'esecuzione del re, all'inizio della guerra civile Cromwell non era su posizioni radicalmente repubblicane, ma piuttosto cercava di fare in modo che Carlo accettasse di regnare di concerto con il parlamento, e con una linea politica in campo religioso più condivisa dalla popolazione, che nella gran maggioranza era di fede protestante.
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Nella visione di Cromwell religione e politica erano strettamente collegate. Egli era un fervente puritano protestante, fermamente convinto che la salvezza eterna fosse alla portata di tutti coloro che si conformavano agli insegnamenti della Bibbia ed ai dettami della propria coscienza. Era un tenacissimo avversario della Chiesa Romana Cattolica che, a suo parere, negava il primato assoluto della Bibbia in favore del primato del Papa e della gerarchia ecclesiastica, autorità che accusava di essere causa di tirannia e persecuzioni contro i protestanti in tutta Europa. Per questo motivo si batté con vigore contro le riforme che Carlo I stava introducendo nella Chiesa d'Inghilterra, cioè l'investitura di vescovi e l'introduzione di libri di preghiere in stile cattolico al posto ed in contrapposizione allo studio della Bibbia.
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La convinzione di Cromwell che il cattolicesimo portasse inevitabilmente alla persecuzione dei protestanti fu rafforzata dalla ribellione scoppiata in Irlanda nel 1641, in occasione della quale i cattolici irlandesi massacrarono molti emigranti inglesi e scozzesi di fede protestante. In Inghilterra il resoconto di questi episodi, gonfiato ad arte dai Puritani per alimentare l'odio anti-cattolico, sarà una delle motivazioni principali che Cromwell porterà a giustificazione della spietata durezza con cui condurrà le successive campagne militari in Irlanda.
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Nel corso della guerra civile Cromwell si trovò peraltro in contrasto anche con i gruppi più estremisti della fazione protestante. Sebbene fosse alleato sia dei Quaccheri che dei Presbiteriani, Cromwell non approvava il loro modo autoritario di imporre il proprio credo agli altri protestanti. Egli si avvicinò quindi sempre più alla fazione "indipendente", che sosteneva la necessità di garantire, una volta finita la guerra, la piena libertà religiosa per tutti i protestanti.
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Cromwell era inoltre un seguace del Provvidenzialismo, dottrina secondo cui Dio si occupava direttamente degli affari del mondo terreno, influenzandolo tramite le opere di "persone elette", che Dio aveva "mandato" nel mondo proprio a questo scopo. Durante la guerra civile Cromwell era fermamente convinto di essere uno di questi "eletti", ed interpretò le vittorie da lui ottenute come segno evidente dell'approvazione divina, e le sconfitte come un'indicazione che aveva compiuto qualche errore e doveva cambiare direzione.
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L'influenza di Cromwell come comandante militare durante la guerra civile inglese è stata di importanza cruciale per la storia successiva delle Isole Britanniche. Cromwell entrò nell'esercito dei parlamentari all'età di 43 anni e reclutò un reparto di cavalleria al cui comando riportò una serie di vittorie in Anglia Orientale, guadagnando esperienza ed una grande reputazione. Era noto per scegliere i propri ufficiali in base al merito piuttosto che al titolo nobiliare, come si era soliti fare a quei tempi.
Questa nuova mentalità fece diventare il New Model Army il punto di riferimento per molti movimenti sia radicali e politici, come i "Livellatori" ("Levellers"), che religiosi, come i "Fifth Monarchist".
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È da notare come Cromwell pur non avendo alcun tipo di addestramento in fatto di tattica militare, dimostrò fin dall'inizio un innato talento per il comando. Riuscì in molte occasioni a dimostrarsi più abile del Principe Rupert, veterano di molte campagne in Europa. I soldati di Cromwell impararono presto ad apprezzare ed ammirare il suo coraggio e la sua costante preoccupazione di farli operare nelle migliori condizioni possibili.
Promosso comandante generale della cavalleria, addestrò i suoi uomini a compiere rapide sortite, per poi raggrupparsi velocemente dopo ogni attacco, tattica adottata con grande successo nella Battaglia di Naseby. In combattimento i suoi reparti dimostravano sempre un alto grado di disciplina e di motivazione.
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Le vittorie ottenute sul campo fecero aumentare progressivamente la sua influenza politica, fino a farlo diventare il personaggio più potente ed autorevole del tempo. Nel 1646, alla fine della guerra civile, il re Carlo era di fatto prigioniero del parlamento e ormai delegittimato, mentre Cromwell, nella sua posizione di comandante in capo dell'esercito vittorioso, era il vero arbitro del futuro dell'Inghilterra.
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Se durante la guerra civile Cromwell dette ottima prova di sé come coraggioso comandante di reparti di cavalleria, negli anni successivi guiderà intere armate con eccezionale capacità e competenza. Le brillanti campagne che si conclusero con la conquista dell'Irlanda e della Scozia dimostrarono una grande abilità, oltre che sul campo di battaglia, anche, e soprattutto, nell'organizzazione delle linee di rifornimento e delle operazioni logistiche in quei territori ostili.
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I parlamentari, compreso Cromwell, speravano di addivenire ad un compromesso col re Carlo I, il quale, tuttavia, non era disposto ad accettare una qualsiasi soluzione in contrasto con la propria concezione della monarchia fondata sul diritto divino. La cosiddetta Seconda Guerra civile inglese, scoppiata nel 1648 dopo che Carlo I riuscì ad evadere dalla prigione, fece chiaramente capire a Cromwell che non sarebbe mai stato possibile venire a patti col re. Il re fu nuovamente imprigionato e processato per alto tradimento, e Cromwell fu subito messo sotto pressione dai suoi seguaci perché "Il sanguinario Carlo Stuart" fosse giustiziato.
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Nel gennaio 1649, quando i membri superstiti del parlamento, si riunirono a Whitehall per decidere se procedere o meno alla condanna del re, le truppe di Cromwell fecero irruzione nell'aula, e permisero di votare solo a coloro che erano favorevoli al regicidio. La condanna a morte fu controfirmata da 59 membri del parlamento, e Carlo fu giustiziato il 30 gennaio. Sul momento Cromwell non ebbe tempo di occuparsi del nuovo assetto istituzionale da dare al paese, poiché dovette immediatamente lasciare l'Inghilterra per attaccare le residue roccaforti reali in Irlanda e Scozia.
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Le imprese belliche di Cromwell lo hanno reso molto impopolare in Irlanda e Scozia, due nazioni in precedenza quasi indipendenti che, durante le guerre civili, caddero a tutti gli effetti sotto il dominio inglese. In particolare la brutale repressione delle forze realiste perpetrata da Cromwell in Irlanda nel 1649 ha lasciato un ricordo vivo ancora oggi nella memoria degli irlandesi. Il simbolo più duraturo dei metodi brutali che vennero impiegati è l'assedio di Drogheda, del settembre 1649, in cui, quando la città fu espugnata, furono massacrate quasi 3.500 persone, fra cui 2.700 soldati fedeli al re, tutti gli uomini armati della città, alcuni civili, prigionieri e preti cattolici. Questo episodio ha alimentato per oltre tre secoli l'odio fra inglesi ed irlandesi, così come quello fra cattolici e protestanti.
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Irlanda
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Fino a che punto volesse spingersi Cromwell nelle repressioni è argomento controverso. Non c'è dubbio che in generale considerasse gli irlandesi come nemici, tanto è vero che giustificò il saccheggio di Drogheda come ritorsione contro i massacri di protestanti avvenuti nell'Ulster nel 1641.
Inoltre si racconta di molte chiese cattoliche, come la cattedrale di Kilkenny, profanate e trasformate in stalle. D'altro canto ci sono precise testimonianze che, all'ingresso dell'esercito in Irlanda, Cromwell diede precisi ordini che gli abitanti non venissero privati del cibo, e che le vettovaglie potessero essere regolarmente acquistate. È stato anche affermato che il giorno dell'assalto finale Cromwell diede disposizioni di offrire la resa alla guarnigione di Drogheda, e di mettersi sotto la protezione delle forze di occupazione. Al rifiuto opposto dagli assediati, anche quando gli attaccanti avevano già aperto una breccia nelle mura, era praticamente inevitabile, viste le abitudini dell'epoca, che il destino di tutti gli uomini sorpresi con le armi in pugno fosse segnato. L'interpretazione di questi avvenimenti è comunque tuttora oggetto di dibattito fra gli storici.
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Gli uomini di Cromwell commisero un altro barbaro massacro a Wexford, quando irruppero nella città proprio mentre erano in corso le trattative della resa, uccidendo 2.000 fra soldati e civili irlandesi. Va sottolineato che questi due atroci fatti non furono episodi isolati della guerra iniziata nel 1641 in Irlanda, ma, tuttavia, ebbero la massima risonanza, tanto da essere ricordati ancora oggi, perché furono abilmente utilizzati dalla propaganda realista nel tentativo di dipingere Cromwell come un mostro sanguinario, responsabile ovunque andasse dell'assassinio di civili innocenti.
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Cromwell stesso non riconobbe mai di essere stato responsabile dell'uccisione di civili in Irlanda, affermando sempre di aver agito con inflessibilità solo contro coloro che si opponevano "in armi" all'esercito di occupazione. Ed infatti è vero che le peggiori atrocità commesse in quel paese, come deportazioni di massa, uccisioni e riduzione in schiavitù nell'isola di Barbados, furono commesse da subordinati di Cromwell solo dopo che questi era rientrato in Inghilterra. Sull'onda della conquista dell'isola tutte le terre di proprietà dei cattolici furono confiscate con "Act for the Settlement of Ireland 1652", la professione della fede Cattolica Romana messa fuori legge, e poste taglie sui preti. Ciononostante l'Irlanda rimase una nazione cattolica poiché la stragrande maggioranza dei suoi abitanti si rifiutò di abbandonare la propria fede religiosa.
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A prescindere dalle sue vere intenzioni, c'è da dire che Cromwell non fu il solo a compiere azioni efferate contro gli irlandesi, tradizionalmente considerati "selvaggi ed inferiori" dagli inglesi (così come, analogamente, i cattolici erano considerati dai protestanti). In modo particolare, gli appartenenti alla fazione parlamentare dimostrarono di nutrire un odio implacabile contro gli irlandesi durante tutto il corso delle guerre civili. I realisti erano, invece, meno ostili agli irlandesi, e, verso la fine della guerra, si allearono addirittura con la confederazione che li riuniva, e questa alleanza li mise in cattiva luce agli occhi dei protestanti inglesi e scozzesi. Le uccisioni di protestanti avvenute nell'Ulster nel 1641 provocarono circa 4.000 vittime, molto meno dei 180.000 che, strumentalmente, si fece credere all'opinione pubblica inglese. Anche questo episodio, quindi, fu usato come arma propagandistica per alimentare il sentimento anti-irlandese ed anti-realista, ed è evidente che Cromwell ne era al corrente.
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Scozia
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Cromwell invase la Scozia nel periodo 1650-1651, dopo che gli Scozzesi avevano incoronato Re d'Inghilterra Carlo II, figlio di Carlo I, in un tentativo di restaurazione monarchica. Cromwell sarebbe stato disposto a tollerare una Scozia indipendente, ma fu costretto a reagire quando gli scozzesi invasero l'Inghilterra. Cromwell era meno ostile agli scozzesi, che erano in gran maggioranza di religione presbiteriana, che non ai cattolici irlandesi, e, quando si riferiva a loro, li definiva "Popolo di Dio, sebbene ingannati". Ciò tuttavia non gli impedì di agire con spietatezza anche nei loro confronti. Sebbene inferiori di numero i suoi veterani inflissero pesanti sconfitte agli scozzesi nella Battaglia di Dunbar, nel 1650 e nella Battaglia di Worcester ed occuparono il paese. Le migliaia di prigionieri scozzesi furono trattati molto male, tanto che molti di essi morirono di malattia e stenti, mentre altri vennero deportati nella colonia penale di Barbados. Gli uomini di Cromwell, al comando di George Monck, saccheggiarono la città di Dundee con una ferocia non minore di quella usata a Drogheda. Da allora la Scozia cadde sotto il dominio inglese, rimanendo a lungo sotto occupazione militare, con una linea di fortificazioni che dividevano le Highland dal resto del paese. La professione della fede presbiteriana fu permessa, ma la sua "Kirk", il nome con cui si designa la Chiesa di Scozia, non ebbe più, come prima della guerra, l'appoggio dei tribunali civili nell'imporre le proprie leggi.
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Sia in Irlanda che in Scozia Cromwell fu ricordato come un nemico "spietato e senza scrupoli". In particolare, il motivo per cui gli irlandesi hanno da quel periodo tradizionalmente deprecato la sua memoria, dipende in gran parte dai massicci espropri di terre a favore dei suoi soldati e dalle atrocità commesse durante la guerra.
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Politica interna
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Sull'onda emotiva della cattura del re, dopo il suo tentativo di fuga, la monarchia fu abolita e, fra il 1649 ed il 1653 il paese divenne nominalmente una repubblica, una vera rarità nell'Europa del tempo. La repubblica venne denominata il Commonwealth d'Inghilterra, anche se tutti i resoconti concordano nell'indicare che Cromwell, durante quegli anni, governò a tutti gli effetti come un dittatore militare.
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Molti atti politici di Cromwell dopo la presa del potere vennero descritti dai commentatori dell'epoca come "eccessivamente rigorosi, avventati e tirannici". Egli fu spesso spietato nel reprimere gli ammutinamenti che si verificarono nelle file dei suoi eserciti verso la fine della guerra (che furono a volte causati dal rifiuto del parlamento di pagare il salario alle truppe). Cromwell dimostrò poca simpatia per i Livellatori (Levellers), un movimento egualitarista che aveva dato un grande contributo all'affermazione della causa parlamentare. Il programma politico dei Levellers era stato discusso vigorosamente in occasione dei cosiddetti Putney debates (Dibattimenti di Putney), tenutisi fra le varie fazioni appena prima della fuga del re. Cromwell non era pronto a gestire una vera e propria democrazia radicale, ma d'altra parte, come dimostrarono gli eventi successivi, non era nemmeno in grado di istituire una repubblica parlamentare stabile, basata su una oligarchia di fatto.
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Con la scomparsa del re e dei suoi sostenitori venne a mancare il motivo principale del consenso coagulatosi intorno a Cromwell, e le varie fazioni presenti in parlamento avevano presto cominciato a contrapporsi l'una all'altra. Seguendo, ironicamente, la stessa procedura adottata dal re detronizzato (che aveva causato lo scoppio della guerra civile), Cromwell sciolse il parlamento repubblicano nel 1653, ed assunse in prima persona il controllo diretto del paese con i poteri di un vero e proprio dittatore, forte della popolarità e dell'appoggio incondizionato da parte di quell'esercito che lui stesso aveva creato durante la guerra civile.
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La politica estera di Cromwell portò allo scoppio della Prima guerra anglo-olandese (1652 – 1654), contro la Repubblica delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi, poi vinta dall'ammiraglio Robert Blake nel 1654. In coerenza con il proprio impegno a garantire la più assoluta libertà religiosa a tutte le confessioni, eccetto quella cattolica, incoraggiò gli Ebrei a ritornare in Inghilterra a 350 anni di distanza dalla loro cacciata ad opera di Edoardo I.
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Nel 1655 egli volse la sua attenzione ai nemici tradizionali dell'Inghilterra, Francia e Spagna, cercando di approfittare del conflitto fra i due, impegnati nella guerra franco-spagnola (1635-1659). Sebbene egli fosse convinto che la volontà di Dio era l'affermazione del protestantesimo come religione prevalente in Europa, egli perseguì una politica estera pragmatica e realistica, alleandosi con la Francia cattolica contro la Spagna, anch'essa cattolica. In sostanza, dichiarando guerra alla Spagna, egli contava sul ritorno alla politica di opportunismo mercantile già perseguita ai tempi della regina Elisabetta e successivamente abbandonata dagli Stuart. Alleatosi dunque con la Francia del cardinale Mazarino, diede corso alla guerra inglese contro la Spagna (1655-1660) ottenendo, grazie al risultato positivo di questa, il porto di Dunkerque sulla Manica (secondo gli accordi con il Mazarino) e l'isola di Giamaica nei Caraibi, strappata agli spagnoli grazie all'azione della flotta inglese condotta da sir William Penn.
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Nel 1657 il parlamento, appositamente ricostituito, offrì a Cromwell di assumere la corona di re, mettendolo di fronte ad un dilemma, dal momento che proprio lui era stato l'artefice del rovesciamento della monarchia. Dopo sei settimane di riflessione, alla fine respinse l'offerta, accettando, in compenso, di essere solennemente insignito nell'Abbazia di Westminster, assiso sul trono del precedente monarca, con il titolo di Lord Protettore. Si trattò, in buona sostanza, di una vera e propria incoronazione, che fece di lui un monarca "a tutti gli effetti, eccetto che nel nome". Inoltre fu stabilito che la carica non avrebbe potuto essere tramandata ereditariamente. Fu promulgata una nuova Costituzione scritta, che gli conferiva persino il potere di attribuire titoli nobiliari, prerogativa che egli utilizzò subito, esattamente alla stessa maniera dei precedenti sovrani.
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Cromwell soffriva di malaria e di "calcoli", un termine spesso usato a quell'epoca per definire generiche infezioni dell'apparato renale-urinario. Ciononostante il suo stato di salute era complessivamente buono. Improvvisamente colpito da un riacutizzarsi della malaria, subito seguito da sintomi di colica renale, rimase ottimista, insieme agli uomini del suo entourage, su un decorso favorevole della malattia. Un diplomatico veneziano, medico, che si trovava ospite a corte, lo visitò ed espresse l'opinione che i suoi medici personali non lo stessero curando in modo appropriato, causando un rapido peggioramento delle sue condizioni.
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A due anni di distanza dalla morte di Cromwell, ufficialmente attribuita a malaria, il 3 settembre 1658, il parlamento restaurò la monarchia incoronando Carlo II, poiché Richard Cromwell, figlio di Oliver, si era dimostrato un "successore non all'altezza".
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Il 30 gennaio 1661, nell'anniversario dell'esecuzione di Carlo I, la salma di Cromwell venne riesumata dall'Abbazia di Westminster e sottoposta al macabro rituale dell'esecuzione postuma (impiccagione e squartamento). Al termine il corpo fu gettato in una fossa comune, tranne la testa, infilata su un palo ed esposta davanti all'Abbazia di Westminster fino al 1685. In seguito questo macabro cimelio passò di mano molte volte, per essere finalmente sepolto nel cimitero del Sidney Sussex College nel 1960.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-1896428923774572082010-08-21T19:11:00.000+02:002011-11-07T17:13:59.250+01:00SPECIALE: La conquista spagnola delle Americhe<ul>
<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/95/Columbus_Taking_Possession.jpg/350px-Columbus_Taking_Possession.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="151" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/95/Columbus_Taking_Possession.jpg/350px-Columbus_Taking_Possession.jpg" width="200" /></a>
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</ul>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.historyofjihad.org/crusades2.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"></a><a href="http://www.historyofjihad.org/crusades2.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"></a>
</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-45583077264784163892010-08-21T18:53:00.002+02:002010-08-26T21:35:10.867+02:00Ferdinando II di Aragona<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html"><img border="0" height="50" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgcaRippXfucch7Pc18NfurQ4nY8ewTre7UTIWugXPUuwtyobcxAbkoFIzDR3FpSikZnuHU5lGzOI2k02-_FGs8SDkfElKbw03232KHStt8priGS9m9-TLZ1LpQ0p1XB5n52Rg1Hs5t/s200/corona_alloro.gif" width="50" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Questa pagina fa parte dello speciale:</td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<span id="goog_1964396022"><span id="goog_1529281607"></span><span id="goog_1529281608"></span></span><span id="goog_1964396023"></span></div>
<a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html">La conquista spagnola delle Americhe</a></td></tr>
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e2/FerdinandCatholic.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e2/FerdinandCatholic.jpg" width="210" /></a></div>
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Discendente dal casato di Trastamara, era l'unico figlio maschio nato dal duca di Peñafiel, re di Navarra e futuro re della corona d'Aragona, Giovanni (figlio terzogenito del re della corona d'Aragona e di Sicilia, Ferdinando I e di Eleonora d'Alburquerque (1374 - 1435), figlia dell'infante Sancho di Castiglia, Conte di Alburquerque e di Beatrice del Portogallo figlia del re del Portogallo, Pietro I il Giustiziere e della sua amante e poi moglie segreta Inés de Castro) e dalla sua seconda moglie Juana Enriquez, figlia dell'ammiraglio di Castiglia, signore di Medina de Rioseco e Conte di Melgar, Federico Enriquez (?-1473).
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Al momento della sua nascita, la madre che si trovava in Navarra, si trasferì oltre il confine, per farlo nascere in Aragona.
In quello stesso anno (1452), suo padre vinceva la battaglia di Aibar, contro il figlio (fratellastro di Ferdinando), Carlo di Viana, a cui aveva usurpato il trono di Navarra, obbligandolo ad andare in esilio a Napoli, dallo zio e fratello di Giovanni, il re della corona d'Aragona e di Napoli, Alfonso V.
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Morto Alfonso V, nel 1458, Giovanni divenne Giovanni II, re della corona d'Aragona, mentre Carlo, riappacificato col padre, rientrò in Navarra, dove, appena rientrato (1459), intavolò trattative per unirsi in matrimonio con la sorellastra del re di Castiglia, Enrico l'Impotente, Isabella di Castiglia; ma Giovanni e soprattutto la matrigna, Giovanna Enriquez, si opposero perché nelle loro intenzioni Isabella avrebbe dovuto sposare il loro figlio Ferdinando, di sette anni. Carlo, nel 1460, fu arrestato e tenuto in prigione finché le cortes catalane si riunirono il 25 febbraio del 1461 e decretarono che Giovanni dovesse liberare il figlio, cosa che egli fece immediatamente, ed inoltre gli imposero il concordato di Villafranca, del 21 giugno 1461, in cui Carlo risultava essere il re legittimo di Navarra, luogotenente della Catalogna ed erede della corona d'Aragona.
Carlo però, il 23 settembre di quello stesso anno, morì, circa tre mesi dopo avere ottenuto ciò che gli spettava. La sua morte però fu attribuita alla regina Giovanna, che lo avrebbe fatto avvelenare per agevolare suo figlio, Ferdinando, che immediatamente fu nominato luogotenente della Catalogna ed erede della corona d'Aragona.</div>
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Ferdinando e la madre, la regina Giovanna, che si trovavano in Catalogna quando le cortes catalane dichiararono che il re e la regina non dovevano entrare in Catalogna senza il permesso delle cortes stesse, si rifugiarono nel castello di Girona. All'inizio del 1462 i realisti catalani si raccolsero in armi e il re Giovanni chiese, col trattato di Bayonne del maggio 1462, al re di Francia, Luigi XI, l'aiuto dell'esercito francese (in cambio delle contee del Rossiglione e della Cerdagna) mentre le cortes catalane o Generalitat (Diputación General) organizzavano un esercito, che si diresse su Gerona dove si trovava la regina Giovanna. Quest'ultima, assediata nella città, la difese molto coraggiosamente assieme ai suoi sostenitori, tanto da permettere l'intervento del re Giovanni che col suo esercito obbligò i catalani a togliere l'assedio.
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Mentre il re Giovanni organizzava il suo esercito composto da aragonesi, catalani e francesi, per schiacciare la rivolta, la Generalitat (le cortes catalane) emanò un decreto che dichiarava sia Giovanni che la regina nemici della Catalogna. Nel frattempo, per sostituire Giovanni, cercava un sovrano a cui offrire la corona del regno di Aragona, tra i discendenti degli aspiranti alla corona d'Aragona vacante alla morte del re Martino I di Aragona, nel 1410, che poi fu deciso da un arbitrato, che portò al Compromesso di Caspe, del 1412. La Generalitat offrì il trono prima (1462) al re di Castiglia, Enrico IV, poi (1463) al conestabile del Portogallo, Pietro ed infine (1466) al conte di Provenza, Renato d'Angiò, e la guerra si protrasse per dieci anni sino al 1472.
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Nel 1468, il padre nominò Ferdinando re di Sicilia e nel 1469 fu coronato il sogno della madre Giovanna, deceduta un anno prima, combinando il matrimonio di Ferdinando II di Aragona con Isabella la cattolica.
Il 19 ottobre del 1469 Ferdinando sposò la cugina Isabella, infanta di Castiglia e figlia del re di Castiglia e León, Giovanni II (figlio del re di Castiglia e León Enrico III e di Caterina di Láncaster) e di Giovanna del Portogallo, figlia del re del Portogallo, Edoardo e di Eleonora d'Aragona, figlia del re d'Aragona, Ferdinando I e di Eleonora d'Alburquerque.
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Il matrimonio fra Ferdinando e Isabella non fu approvato da Enrico IV, che ritrattò la designazione a erede del trono di Castiglia della propria sorellastra, Isabella e giurò pubblicamente, assieme alla moglie, che Giovanna la Beltraneja era sua figlia legittima e la proclamò erede al trono, con la Cerimonia de la Val de Lozoya, un prato vicino a Buitrago.
Madonna dei Re Cattolici, pittura del 1490-95; Ferdinando II ed il principe Giovanni alla destra della Madonna e Isabella alla sinistra
Bandiera di Alfonso V e Giovanna, la Beltraneja durante la loro pretesa al regno di Castiglia.
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Alla morte del fratellastro Enrico IV nel 1474 Isabella il 13 dicembre fu proclamata regina di Castiglia e Ferdinando divenne re consorte con il nome di Ferdinando V di Castiglia, mentre la Beltraneja, che ugualmente reclamava la corona di Castiglia, era stata promessa ad Alfonso V del Portogallo.
Immediatamente il re del Portogallo, Alfonso V, dichiarato re di Castiglia e León dai partigiani della moglie, nonostante che Isabella fosse già stata incoronata regina col marito Ferdinando, invase la Castiglia (estate del 1475), per difendere i diritti di sua moglie; lo scontro decisivo avvenne nei pressi di Toro, la città in cui si era insediata e dove teneva la corte Giovanna la Beltraneja; il 1º marzo 1476, nella battaglia di Toro, Ferdinando, comandante dell'esercito castigliano, mise in fuga Alfonso che, vedendo che i suoi sostenitori in Castiglia diminuivano, si ritirò in Portogallo con la moglie, che era scortata dal figliastro, Giovanni, erede al trono del Portogallo.</div>
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Ferdinando introdusse in Castiglia, nel 1480, l'Inquisizione e quattro anni dopo anche in Aragona.
Inoltre Ferdinando introdusse il principio della conformità religiosa, per cui furono decretate (decreto di Granada del 31 marzo 1492) l'espulsione di tutti gli Ebrei che non accettavano di convertirsi al cristianesimo o salvo battesimo (salvo bautismo) e la conversione forzosa degli abitanti del regno di Granada, nel 1503, ai quali però la regina, Isabella, aveva garantito il diritto alla libertà religiosa al momento della capitolazione del regno di Granada. La conquista di Granada riuscì a eliminare le contestazioni interne e fece guadagnare prestigio ai regni di Castiglia e Aragona agli occhi dei regni cristiani.
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Cristoforo Colombo aveva sottoposto il suo piano di circumnavigare la terra, per arrivare all'India, al re del Portogallo, Giovanni II, ma quest'ultimo aveva buoni motivi per ritenere che il progetto da lui seguito di doppiare l'Africa avrebbe portato a risultati sicuri per cui le Americhe furono scoperte per conto dei re cattolici di Castiglia e Aragona. Ma al ritorno di Colombo dopo il primo viaggio, Giovanni II ebbe il sospetto che, secondo il trattato di Toledo del 1480, la scoperta fosse avvenuta nella zona di influenza del Portogallo, che intendeva inviare nelle terre scoperte delle caravelle.
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Ferdinando II di Aragona propose di risolvere la questione con un negoziato, ma, prima di iniziarlo, convinse papa Alessandro VI Borgia, spagnolo di nascita, a emettere una bolla (Inter Cetera, 4 maggio 1493), secondo la quale tutte le terre a ovest e a sud di una linea tracciata a cento leghe dalle isole del Capo Verde alle Azzorre, sarebbero state della Spagna. Il 26 settembre, il papa emise una nuova bolla ancora più penalizzante per il Portogallo.
Giovanni II alla guerra preferì la trattativa, che portò al Trattato di Tordesillas (firmato a Tordesillas, in Castiglia, il 7 giugno 1494) che divise il mondo al di fuori dell'Europa in un duopolio esclusivo tra la Spagna ed il Portogallo. Il trattato venne ratificato dalla Spagna il 2 luglio, e dal Portogallo il 5 settembre 1494.
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La pace fu siglata ad Alcáçovas (Viana do Alentejo), il 4 settembre del 1479, dal figlio Giovanni, in quanto Alfonso V si era da tempo ritirato nel convento di Varatojo a Torres Vedras; il trattato venne controfirmato dai re Cattolici a Toledo nel marzo del 1480.
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Alla morte del padre, il 20 gennaio 1479, Ferdinando oltre che re di Sicilia divenne re di Aragona e, nello stesso anno, fu decretata l'unione de facto della Castiglia con la Corona d'Aragona, ma mentre in Aragona Ferdinando governava da solo, in Castiglia a Isabella, per il contratto di Matrimonio (capitulaciones), era riservata l'amministrazione mentre la giustizia era amministrata congiuntamente, se si trovavano entrambi nello stesso posto; le ordinanze reali venivano firmate da entrambi; le monete recavano insieme le due effigi ed i sigilli reali portavano le armi delle due casate; infine Ferdinando, chiamato anche Ferdinando V di Castiglia si occupava della politica estera.
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A partire dal 1481 Ferdinando si occupò della conquista del regno dei Nasridi di Granada, dove Ferdinando mise in mostra le sue doti di diplomazia e le sue attitudini militari, già dimostrate nella guerra civile. La guerra fu una guerra d'assedio e terminò nel 1492, con la capitolazione dell'ultimo ridotto musulmano della penisola iberica, il 2 gennaio 1492.
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La politica italiana
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Dal 1492, concentrò la sua attività prima verso la Francia, e col trattato di Barcellona, del 1493, recuperò dal regno di Francia le contee del Rossiglione e della Cerdagna, cedute da suo padre Giovanni II al re di Francia, Luigi XI, nel 1463.
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Poi si rivolse all'Italia, per opporsi al tentativo francese di annessione del Regno di Napoli, organizzò la guerra contro le truppe del generale Robert Stuart d'Aubigny, inviando, nel 1494, Gonzalo Fernández de Córdoba, che si era distinto nella presa di Granada, nominato Gran Capitano, che un anno dopo il suo arrivo nella penisola, nel 1495 subì una sconfitta a Seminara combattendo contro d'Aubigny, riuscendo però nel 1496 ad ottenere la rivincita sul campo di battaglia e a ricacciare le truppe francesi sino in Calabria.
Nel 1500 Gonzalo Fernández de Córdoba tornò in Italia per ottemperare al trattato segreto che Francia e Spagna avevano stipulato a Granada per spartirsi il Regno di Napoli.</div>
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Entrati nuovamente in rotta di collisione gli eserciti francese e spagnolo, nel 1503, Gonzalo Fernández de Córdoba stabilì il suo esercito a Barletta (dove il 13 febbraio si combatté la famosa disfida tra italiani e francesi), per attendere i rinforzi e sconfisse i francesi per due volte, a Cerignola e sul Garigliano, riuscendo così a completare la conquista dell'intero Regno di Napoli in favore della Spagna.
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Ferdinando, nel 1504, assunse anche il titolo di re di Napoli, con il nome Fernando III di Napoli e di Sicilia. Il papa Alessandro VI che temeva che gli appetiti territoriali di Ferdinando lo portassero a conquistare parte degli stati pontifici gli concesse il titolo di Re Cattolico, che poi fu esteso anche alla moglie Isabella.
Partecipò alla Lega di Cambrai, che fu una lega formata, il 10 dicembre 1508, per combattere contro la Repubblica di Venezia e doveva essere sotto la guida di Papa Giulio II. Ad essa aderirono, oltre al pontefice, Luigi XII di Francia, l'imperatore Massimiliano I, Ferdinando II d'Aragona e il Duca di Ferrara Alfonso I d'Este. La Lega combatté le forze veneziane dal 1508 al 1511:
Infine Ferdinando il Cattolico fu il promotore della Lega Santa, alleanza (1511-1512) tra il re di Spagna, il pontefice Giulio II, la Repubblica di Venezia e il re Enrico VIII d'Inghilterra contro Luigi XII di Francia.
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Reggente in Castiglia e conquista dell'Alta Navarra
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Alla morte di Isabella avvenuta il 26 novembre 1504 l'erede legittima al trono sarebbe stata la figlia terzogenita Giovanna di Castiglia e la reggenza venne rivendicata sia dal marito, Filippo il Bello che dal padre Ferdinando. Poi i due si accordarono per un governo separato: in Castiglia Filippo, in Aragona Ferdinando, pur essendo stati unificati, i regni di Castiglia e di Aragona, anche de jure, dando vita al Regno di Spagna che comprendeva anche il Regno di Napoli e quello di Sicilia.
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Nel 1506 Filippo il Bello morì e dopo un breve periodo di reggenza del cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, Ferdinando fu chiamato dalle cortes castigliane a tenere la reggenza di Castiglia per conto della figlia, Giovanna, il cui stato mentale era ulteriormente peggiorato.
Nello stesso anno Ferdinando sposò Germana de Foix, figlia di Maria d'Orléans e nipote di Luigi XII re di Francia.
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Nel 1507, Ferdinando inizio una guerra di conquista nel Nordafrica, e le truppe spagnole conquistarono Peñón de Vélez de la Gomera, nel 1508, Orano, nel 1509, Béjaïa, nel 1510, che portò alla sottomissione di Algeri e al riconoscimento della sovranità spagnola da parte dei re di Tunisi e di Tlemcen, ed infine, nel 1511, fu conquistata Tripoli.
Però, nello stesso anno, la successiva sconfitta spagnola all'isola di Gerba fermò l'avanzata spagnola per diversi anni.
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Nel novembre 1511 Ferdinando e Enrico VIII nella prospettiva di costituire la Lega Santa firmarono il Trattato di Westminster che stabiliva un patto di mutuo soccorso contro il nemico comune, la Francia.
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Ferdinando, re d'Aragona e reggente di Castiglia, venne a conoscenza del fatto che, nel 1512, Caterina di Navarra ed il marito, Giovanni d'Albret, a Blois, avevano siglato un patto col re di Francia, Luigi XII. Questo patto prevedeva una clausola segreta che vietava il passaggio delle truppe castigliane sul suolo navarrese. Ferdinando chiese il permesso di passaggio sul suolo navarrese per attaccare la Francia; ottenuto un rifiuto, dichiarò guerra a Caterina, il 25 luglio 1512 l'esercito castigliano entrava in Pamplona ed in capo a due mesi la Navarra a sud dei Pirenei era conquistata.
L'entrata delle truppe spagnole in Navarra era stata preceduta da una bolla di papa Giulio II, che scomunicava Caterina e Giovanni e li privava dei loro titoli e dei loro territori. Una seconda bolla del 18 gennaio 1513 confermava la scomunica e assegnava i territori a chiunque li avesse conquistati (cioè Ferdinando II).
Sembra che le intenzioni di Ferdinando non fossero di annettere la Navarra al regno di Spagna, ma finita la disputa con la Francia, di restituirla a Caterina, ed in quell'ottica propose un matrimonio tra il principe di Viana, Enrico II di Navarra, erede al trono di Navarra e una principessa di Spagna.
Caterina ed il marito non solo rifiutarono ma fecero arrestare l'ambasciatore spagnolo, che fu consegnato ai francesi.
Solo allora Ferdinando procedette all'annessione.
Di fatto il regno di Navarra era stato diviso in due parti:
-la Bassa Navarra, la parte del regno a nord dei Pirenei che rimase in possesso della regina Caterina e continuò ad essere legata alla Francia
-l'Alta Navarra, la parte del regno a sud dei Pirenei che fu annessa alla corona d'Aragona e il 23 marzo 1513, le cortes di Pamplona dichiararono l'annessione al regno d'Aragona e poi, nel 1515, le cortes castigliane, a Burgos, dichiararono l'Alta Navarra parte del regno castigliano, la nascente Spagna.
Comunque il regno di Navarra mantenne le sue leggi e le sue autonomie, almeno sino al XVIII secolo, nell'ambito del regno di Spagna.
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Ferdinando morì nel 1516, gli successe il nipote Carlo di Gand con il titolo di Carlo I di Spagna e in seguito Carlo V Imperatore del Sacro Romano Impero.
Attualmente Ferdinando è sepolto nella Cappella reale di Granada, un fastoso sepolcro che fu profanato durante l'Invasione Francese del 1800, nel centro della città, costruito dal nipote Carlo di Gand, re di Spagna con il titolo di Carlo I.
Nel sepolcro si trovano anche la moglie Isabella di Castiglia, la figlia Giovanna la Pazza con suo marito, Filippo il Bello, la figlia prediletta di Isabella, Isabella, regina del Portogallo col figlioletto Michele della Pace d'Aviz.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-91781062171343104172010-08-21T18:41:00.001+02:002010-08-21T19:26:25.741+02:00Isabella di Castiglia<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html"><img border="0" height="50" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgcaRippXfucch7Pc18NfurQ4nY8ewTre7UTIWugXPUuwtyobcxAbkoFIzDR3FpSikZnuHU5lGzOI2k02-_FGs8SDkfElKbw03232KHStt8priGS9m9-TLZ1LpQ0p1XB5n52Rg1Hs5t/s200/corona_alloro.gif" width="50" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Questa pagina fa parte dello speciale:</td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<span id="goog_1964396022"><span id="goog_1529281607"></span><span id="goog_1529281608"></span></span><span id="goog_1964396023"></span></div>
<a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html">La conquista spagnola delle Americhe</a></td></tr>
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5c/Isabel_la_Cat%C3%B3lica-2.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5c/Isabel_la_Cat%C3%B3lica-2.jpg" width="224" /></a></div>
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Quando i suoi genitori si sposarono il 17 agosto del 1447 a Madrigal de las Altas Torres, suo padre Giovanni II era vedovo di Maria d'Aragona, figlia del re Ferdinando I d'Aragona e da lei aveva avuto un figlio, Enrico, nato nel 1425.
Quando il padre era via, sua madre, la regina Isabella, faceva dormire i bambini con lei nello stesso letto. Era un'abitudine che teneva per evitare qualsiasi dubbio di adulterio.
Nel 1454 Giovanni II morì lasciando orfani Isabella e suo fratello Alfonso, rispettivamente di 3 anni e 1 anno. La morte del marito gettò sua madre, Isabella in un profondo stato di malinconia, tanto che decise di rinchiudersi nel castello di Arévalo, dove sarebbe rimasta per 42 anni, fino alla morte.
Al trono salì il fratellastro, Enrico IV, mentre suo fratello germano Alfonso, sempre nel 1454, ricevette il titolo di Principe delle Asturie, quello dell'erede al trono.
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Nel 1455 Enrico IV si sposò (in seconde nozze) con Giovanna del Portogallo, figlia del re del Portogallo Edoardo e di Eleonora d'Aragona (figlia del re d'Aragona Ferdinando I e di Eleonora d'Alburquerque). Da questa unione, nel 1462, nacque finalmente il legittimo erede al trono, una figlia: Giovanna.
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Una parte di nobili della corte che già chiamava il principe delle Asturie Alfonso XII, sfruttando molto abilmente la voce che Enrico IV fosse impotente, aveva messo in giro la diceria, molto probabilmente inventata, che la figlia di Giovanna del Portogallo fosse figlia non di Enrico IV, ma di uno dei migliori amici di Enrico, Beltrán de la Cueva, che in quegli anni aveva fatto una rapida carriera alla corte castigliana e, da allora, le fazioni contrarie al re Enrico IV cominciarono a denominare la figlia Giovanna, a cui il padre aveva dato il titolo di principessa della Asturie, col soprannome Beltraneja.
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Quando suo fratello Alfonso morì improvvisamente il 5 luglio del 1468 per cause sconosciute, Isabella venne designata erede al trono di Castiglia da Enrico IV in un trattato (Tratado de los Toros de Guisando) nel quale Isabella aveva accettato la clausola che avrebbe sposato il re del Portogallo Alfonso V, mentre Enrico di fatto riconosceva l'illegittimità della figlia Giovanna.
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Però i pretendenti alla mano di Isabella erano due: oltre ad Alfonso V vi era il cugino di Isabella Ferdinando, unico figlio maschio nato al duca di Peñafiel, re di Navarra e re della corona d'Aragona Giovanni II dalla sua seconda moglie Giovanna Enriquez, figlia dell'ammiraglio di Castiglia, signore di Medina de Rioseco e Conte di Melgar Federico Enriquez.
Le preferenze di Isabella andavano al secondo, così il 19 ottobre 1469, senza l'approvazione del fratellastro Enrico IV, Isabella e Ferdinando si sposarono segretamente.
Irritato dal fatto che il matrimonio venne celebrato senza il suo assenso, Enrico IV diseredò Isabella e giurò pubblicamente, assieme alla moglie, che Giovanna la Beltraneja era sua figlia legittima e la proclamò erede al trono, con la Cerimonia de la Val de Lozoya, un prato vicino a Buitrago.
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Questa decisione diede origine a una serie di conflitti tra coloro che sostenevano Giovanna e tra coloro che sostenevano Isabella. Alla morte improvvisa di Enrico IV si scatenò tra questi due partiti una vera e propria guerra di successione, finché Isabella il 13 dicembre 1474 fu proclamata regina di Castiglia e Ferdinando divenne re consorte con il nome di Ferdinando V di Castiglia, mentre la Beltraneja, che ugualmente reclamava la corona, era stata promessa ad Alfonso V del Portogallo.
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Immediatamente, il re del Portogallo, dichiarato re di Castiglia e León dai partigiani della moglie nonostante Isabella fosse già stata incoronata regina col marito, invase la Castiglia (estate del 1475), per difendere i diritti di sua moglie; lo scontro decisivo avvenne nei pressi di Toro, la città in cui si era insediata e dove teneva la corte Giovanna la Beltraneja.
Ferdinando aveva a disposizione un misero esercito che però la moglie riuscì ad aumentare, ottenendo aiuto dai nobili, dai conventi e dalle abbazie ed il 1º marzo 1476, nella battaglia di Toro, Ferdinando, comandante dell'esercito castigliano, mise in fuga Alfonso, che vedendo i suoi sostenitori in Castiglia diminuire si ritirò in Portogallo con la moglie, scortata dal figliastro Giovanni, erede al trono del Portogallo.
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La pace fu siglata ad Alcáçovas (Viana do Alentejo), il 4 settembre del 1479, dal figlio Giovanni, in quanto Alfonso V si era da tempo ritirato nel convento di Varatojo a Torres Vedras dove morì nel 1481, e alla sua morte anche Giovanna si ritirò in convento a Coimbra dove morì nel 1530.
Il trattato venne controfirmato a Toledo nel marzo del 1480 da Isabella e Ferdinando.
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L'insediamento sul trono di Isabella era avvenuto il 13 dicembre 1474 (due giorni dopo la morte del fratellastro Enrico) a Segovia; Ferdinando era assente, ma al suo ritorno reclamò i suoi diritti sulla corona di Castiglia e nel 1475, con il concordato di Segovia, si decideva che Isabella poteva esercitare il suo potere regale in Castiglia ma non in Aragona mentre Ferdinando, oltre ad esercitare il potere regale in Aragona, per il contratto di Matrimonio (capitulaciones), in Castiglia poteva amministrare la giustizia congiuntamente o separatamente; le ordinanze reali venivano firmate da entrambi; le monete recavano insieme le due effigi ed i sigilli reali portavano le armi delle due casate; infine Ferdinando si occupava della politica estera.
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Alla morte dello suocero Giovanni II di Aragona avvenuta il 20 gennaio 1479, il marito Ferdinando oltre che re di Sicilia divenne re di Aragona e, nello stesso anno, fu decretata l'unione de facto della Castiglia con la Corona d'Aragona, e fu applicato il contratto di matrimonio, per cui i due Stati, benché uniti, mantenevano governi separati.
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A partire dal 1481 Ferdinando si occupò della conquista del regno dei Nasridi di Granada, dove Ferdinando mise in mostra le sue doti di diplomazia e di attitudini militari, già sfoggiate nella guerra civile. La guerra fu un assedio e terminò nel 1492 con la capitolazione dell'ultimo ridotto musulmano della penisola iberica; il 2 gennaio 1492 Granada si arrese, dopo sei mesi di assedio, e Isabella vi entrò vittoriosa con il crocifisso in mano (come spesso viene rappresentata), completando così la Reconquista. La conquista di Granada riuscì a eliminare le contestazioni interne e fece guadagnare prestigio ai regni di Castiglia e Aragona agli occhi dei regni cristiani. Il regno di Granada fu unificato al regno di Castiglia, dando origine allo Stato Moderno nel 1492, quando i governi vennero congiunti. Insieme ai territori della penisola i Re Cattolici possedevano le Baleari, la Sicilia e la Sardegna.
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Per sottrarre il nuovo regno al feudalesimo arcaico che ancora vi dominava e consolidare la monarchia nel senso assolutista (che già aveva mostrato la propria forza in Francia con Filippo il Bello e poi con i Valois), i nuovi sovrani provvidero a riformare i rapporti con la nobiltà e il clero; lo strumento principale e più innovativo a questo scopo furono le Cortes, sorta di parlamenti nei quali erano rappresentati i nobili, il clero ed alcune città, che potevano proporre ai sovrani nuove leggi - la cui approvazione rimaneva comunque esclusivo diritto reale.
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Ma lo strumento principale di consolidamento del nuovo regno fu la religione cattolica, di cui i nuovi re di Castiglia e Aragona ben conoscevano la forza di coesione e la potenza di instrumentum regni: nonostante le resistenze del papato, l'Inquisizione e il clero furono posti dal 1478 sotto la giurisdizione reale (si evitava così che gran parte delle rendite del clero finissero a Roma e le si tratteneva a Toledo, la capitale del regno.
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Nel 1480, Isabella introdusse in Castiglia l'Inquisizione e quattro anni dopo Ferdinando la introdusse anche in Aragona.
Inoltre Ferdinando stabilì il principio della conformità religiosa, per cui fu decretata (decreto di espulsione degli Ebrei del 31 marzo del 1492) l'espulsione di tutti gli Ebrei che non accettavano di convertirsi al cristianesimo o salvo battesimo (salvo bautismo) e la conversione forzosa degli abitanti del regno di Granada, nel 1503, ai quali però la regina Isabella aveva garantito il diritto alla libertà religiosa al momento della capitolazione del regno di Granada.
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L'azione della "Santa" Inquisizione era diretta in particolar modo contro i Moriscos, cioè i musulmani rimasti e convertiti al cristianesimo, e soprattutto contro gli ebrei. Ciò portò alla dispersione degli ebrei sefarditi soprattutto nel bacino del Mediterraneo, in particolar modo nei territori dell'Impero Ottomano, dove trovarono una maggiore tolleranza religiosa. Molti continuavano a professare segretamente la loro religione, pur essendosi convertiti. Chi veniva scoperto era bruciato vivo sul rogo e i suoi beni erano confiscati dalla Corona, pratica che divenne piuttosto diffusa per finanziare le casse del Regno. Gli ebrei convertiti inoltre subivano in ogni caso discriminazioni sociali ed economiche: erano loro vietati particolari mestieri, venivano additati come marranos, in lingua spagnola maiali, e spesso si arrivò a segregarli in determinati quartieri-ghetto delle città, chiamati Juderias.
Alla caduta di Granada, il papa Innocenzo VIII conferì a Isabella ed al marito Ferdinando il titolo di "Maestà cattolica". In cambio, Isabella fece omaggio al successore spagnolo Alessandro VI Borgia del primo oro arrivato dalle Americhe, del quale fu rivestito il soffitto di Santa Maria Maggiore.
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La disputa con il Portogallo e inizio dello sfruttamento delle colonie
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Cristoforo Colombo aveva sottoposto il suo piano di circumnavigare la terra, per arrivare all'India al re del Portogallo Giovanni II, ma quest'ultimo aveva buoni motivi per ritenere che il progetto da lui seguito di doppiare l'Africa non avrebbe portato a risultati sicuri.
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Colombo si rivolse così ai Re Cattolici, guadagnandosi le simpatie di Isabella che, dopo diversi anni di attesa, accettò il progetto di Colombo assieme al marito e il navigatore partì in nome di Isabella e Ferdinando. I motivi dell'appoggio erano molti: in primo luogo, il bisogno di consolidare le finanze del regno unita alla speranza di trovare nuove ricchezze nelle lontane terre di cui si cominciava a favoleggiare; inoltre, il costo per l'impresa era relativamente contenuto, e non si poteva certo correre il rischio che il navigatore genovese si rivolgesse al re di Francia Carlo VIII, che avrebbe potuto soffiare un grosso affare ai coniugi spagnoli.
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La spedizione di Colombo, come si sa, ebbe fortuna e dopo la scoperta dell'America Isabella si preoccupò di sfruttarne le risorse, non senza impegnarsi a cristianizzare gli indigeni.
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Ma al ritorno di Colombo dopo il primo viaggio, il re del Portogallo Giovanni II ebbe modo di incontrare l'ammiraglio genovese, approdato prima a Madera e poi a Lisbona, dove era rimasto circa dieci giorni; il re ebbe il sospetto che, secondo il trattato di Toledo del 1480, le terre scoperte fossero nella zona di influenza del Portogallo, e quindi intendeva inviare in quelle terre, appena scoperte, delle caravelle.
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Ferdinando II di Aragona propose di risolvere la questione con un negoziato, ma, prima di iniziarlo, convinse papa Alessandro VI Borgia, spagnolo di nascita, a emettere una bolla (4 maggio 1493), secondo la quale tutte le terre a ovest e a sud di una linea tracciata a cento leghe dalle isole del Capo Verde alle Azzorre, sarebbero state della Spagna. Il 26 settembre, il papa emise una nuova bolla ancora più penalizzante per il Portogallo.
Giovanni II alla guerra preferì la trattativa, che portò al Trattato di Tordesillas (firmato a Tordesillas, in Castiglia, il 7 giugno 1494) che divise il mondo al di fuori dell'Europa in un duopolio esclusivo tra la Spagna ed il Portogallo. Il trattato venne ratificato dalla Spagna il 2 luglio, e dal Portogallo il 5 settembre 1494. Nella sua convinzione di dover cristianizzare il mondo, Isabella si impegnò attivamente a difesa degli Indios delle Antille che erano stati inviati come schiavi in Spagna nel 1496: diede ordine al suo inviato speciale, Francisco de Bobadilla, di riportarli in America e di destituire Colombo per alcuni suoi supposti abusi; l'ammiraglio fu arrestato, ma poi liberato con le scuse dei re cattolici.
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Ricoverata a Medina del Campo (Valladolid), per un cancro all'utero, Isabella morì il 26 novembre 1504 nel palazzo reale di Medina del Campo e sul trono di Castiglia le successe la figlia terzogenita Giovanna detta la Pazza, mentre la reggenza venne rivendicata sia dal marito Filippo il Bello che dal padre Ferdinando.
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Dapprima fu inumata a nella chiesa di San Francisco della Alhambra, il 18 dicembre del 1504, secondo il suo desiderio. Attualmente Isabella è sepolta nella Cappella reale di Granada, un fastoso sepolcro (che fu profanato durante l'Invasione Francese del 1800), nel centro della città, costruito dal nipote Carlo di Gand, re di Spagna con il titolo di Carlo I e in seguito Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V.
Nel sepolcro si trovano anche il marito Ferdinando II di Aragona, la figlia Giovanna la Pazza con suo marito, Filippo il Bello, la figlia prediletta di Isabella, Isabella, regina del Portogallo col figlioletto Michele della Pace d'Aviz.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-42391040421978465422010-08-21T18:29:00.001+02:002010-08-21T19:27:04.988+02:00Cristoforo Colombo<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html"><img border="0" height="50" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgcaRippXfucch7Pc18NfurQ4nY8ewTre7UTIWugXPUuwtyobcxAbkoFIzDR3FpSikZnuHU5lGzOI2k02-_FGs8SDkfElKbw03232KHStt8priGS9m9-TLZ1LpQ0p1XB5n52Rg1Hs5t/s200/corona_alloro.gif" width="50" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Questa pagina fa parte dello speciale:</td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<span id="goog_1964396022"><span id="goog_1529281607"></span><span id="goog_1529281608"></span></span><span id="goog_1964396023"></span></div>
<a href="http://garghispace.blogspot.com/2010/08/speciale-la-conquista-spagnola-delle.html">La conquista spagnola delle Americhe</a></td></tr>
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<a href="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/14/Ridolfo_Ghirlandaio_Columbus.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="198" src="http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/14/Ridolfo_Ghirlandaio_Columbus.jpg" width="200" /></a></div>
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Primogenito dei quattro figli (tre fratelli ed una sorella) di Domenico ("Dominicus Columbus quomdam Johannis") e Susanna Fontanarossa ("Sozana de Fontana Rubea"), poco si sa della sua vita fino al 1470 se non il fatto che, con ogni probabilità, nacque all'interno del territorio genovese.</div>
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In una lettera lui stesso afferma di aver iniziato a navigare all'età di quattordici anni. Quel che si sa per certo è che nel 1470 la famiglia del futuro navigatore si trasferì a Savona, città nella quale il padre aveva rilevato la gestione di una taverna. Dopo aver prestato servizio sotto Renato d'Angiò, nel 1473 Cristoforo iniziò l'apprendistato come agente commerciale per i traffici di merci gestiti dalle famiglie Centurione, Di Negro e Spinola, continuandola, per queste tre famiglie, almeno sino al 1473.
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Nel 1474 fu a Chio in Grecia e poi in Portogallo. Nel 1476 Colombo fu a Bristol, dopo aver fatto presumibilmente parte della flotta genovese, diretta in Inghilterra, che fu attaccata da navi francesi al largo del Capo Vincenzo. Poi si recò a Galway in Irlanda e nel 1477 raggiunse verosimilmente l'Islanda.
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Verso il 1479 Colombo si trasferì a Lisbona, continuando a commerciare per la sola famiglia Centurione, con un rapido ritorno in Liguria. In questo periodo sposò Filipa Moniz, figlia di Bartolomeo Perestrello, il Vecchio (genovese e governatore delle Azzorre), e di Isabel Moniz, dalla quale nel 1481 ebbe un figlio, Diego, e si crede che andò ad abitare nella casa della moglie a Porto Santo. Secondo altre fonti sarebbe rimasto a Lisbona a casa di lei. In ogni caso, poco tempo dopo si trasferì a Lisbona, dove il fratello Bartolomeo lavorava come cartografo come era d'uso tra i molti genovesi dell'epoca che dimoravano in quella città. Fu probabilmente in questo periodo della sua vita - tra il viaggio a Galway e in Islanda nel 1477, e il soggiorno a Madera ed il successivo a Lisbona nel 1479 - che nella mente di Cristoforo iniziò a prendere forma il disegno della rotta breve per le Indie.
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Basandosi sulle carte geografiche del suocero, sui racconti dei marinai e sui reperti (canne, legni ed altro) trovati al largo delle coste delle isole del Mare Oceano (l'Oceano Atlantico), Colombo cominciò a convincersi che al di là delle Azzorre dovesse esserci una terra e che questa non potesse essere altro che l'Asia.
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A Lisbona Colombo cominciò a documentarsi ed a leggere testi geografici, come la Historia rerum ubique gestarum di papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) stampata nel 1477, l'Imago mundi di Pierre d'Ailly (1480) e Il Milione di Marco Polo. Una notevole influenza sulla decisione poi presa da Colombo dovette esercitare una lettera che nel 1474 Paolo Toscanelli indirizzò ad un canonico di Lisbona, Fernão Martins de Reriz. Nella missiva, che è quasi certo che Colombo conoscesse, il fisico fiorentino riteneva percorribile una rotta verso ovest per raggiungere l'India.
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Dopo aver chiesto inutilmente al re Giovanni II la somma necessaria per il suo progetto, Colombo nel 1485, dopo la morte della moglie, si recò a Palos con il figlio. Dopo essere stato a Cordova ed a Sevilla, nel 1486 Colombo si presentò al cospetto di Ferdinando II de Aragón e di Isabel de Castilla, ai quali presentò il suo progetto di raggiungere per mare il Catai ed il Cipango. Ma una commissione riunita per vagliare le effettive possibilità di riuscita del viaggio bocciò la proposta.
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Nel 1488 Colombo ebbe un altro figlio, Fernando Colombo, da Beatriz Enríquez Arana, una donna di umili condizioni, genuina e discreta.
Negli anni seguenti Colombo cercò varie volte di farsi ascoltare dalla corte castigliana e decise di rivolgersi pure, tramite il fratello Bartolomeo, ai re d'Inghilterra e di Francia.
Nel 1492, col protrarsi dell'attesa, il navigatore era giunto oramai ai limiti della resistenza, e, dopo sette anni di soggiorno in Spagna, anche le sue risorse economiche si erano ridotte al punto da non essere quasi più in grado di provvedere alla sua famiglia.
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Tuttavia, proprio nel 1492, si verificò un evento che sbloccò improvvisamente la situazione di stallo in cui Colombo si trovava. In seguito all'unione delle corone della Castiglia e di Aragona, ed al termine della conquista di Granada cui partecipò sino al 1° gennaio 1492, Colombo, grazie all'intermediazione del duca di Medinaceli e del tesoriere di corte Luis de Santangel, raggiunse un accordo con Isabella soprattutto grazie al confessore di lei, il francescano Juan Pérez.
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Decisivo fu altresì il contributo del vescovo Alessandro Geraldini originario della città di Amelia, anche lui confessore della regina Isabella e amico personale di Colombo e del fratello Antonio; per sua insistenza, la regina si convinse definitivamente a consentire il viaggio del grande navigatore. Colombo avrebbe poi intitolato una delle isole del nuovo mondo a Graziosa, madre del Geraldini, e il prelato divenne anche il primo vescovo residenziale delle Americhe.
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Secondo il contratto (Capitolaciones), firmato il 17 aprile 1492 a Santa Fè, Colombo, in caso di riuscita del viaggio, avrebbe ottenuto il titolo di ammiraglio e la carica di Viceré e Governatore delle terre scoperte. La somma necessaria per l'armamento della flotta, pari a 2.000.000 di maravedí, sarebbe stata versata metà dalla corte e l'altra metà da Colombo, finanziato da alcuni banchieri genovesi, tra cui il Banco di San Giorgio ed il Berardi. Si trattava, in realtà, di una somma modesta anche per quei tempi. Si calcola, infatti, che quella che si sarebbe rivelata come una delle più importanti spedizioni della storia umana, fu finanziata con una spesa complessiva variabile fra gli attuali 20.000 e 60.000 euro.
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Furono così allestite tre caravelle, la Santa Maria (in realtà si trattava di una caracca), di 150 tonnellate, capitanata da Colombo, la Pinta di 140 t. e la Niña di 100 t., al comando di due armatori di Palos, Martin Alonso Pinzón e suo fratello Vicente Yáñez Pinzón. Il pilota della flotta era il cantabrico Juan de la Cosa, proprietario della Santa Maria.
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Primo viaggio per le Americhe
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La partenza avvenne il 3 agosto 1492 da Palos de la Frontera con un equipaggio complessivo di 120 uomini. Dopo uno scalo di circa un mese nelle Isole Canarie, a La Gomera, per rifornimenti e modifiche alla velatura, le tre navi ripresero il largo il 6 settembre. Spinte dagli alisei - i cui effetti Colombo dimostrò di intuire straordinariamente, uniformando al loro alitare la propria rotta - le caravelle navigarono per un mese senza che i marinai riuscissero a scorgere alcuna terra.
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Gli uomini dell'equipaggio avevano iniziato a preoccuparsi già pochi giorni dopo la partenza, temendo che il soffiare incessante dei venti verso ovest avrebbe reso impossibile il ritorno. Il 16 settembre le caravelle entrarono nel Mar dei Sargassi, e Colombo approfittò della evidenza di alghe affioranti sul pelo dell'acqua - un fenomeno caratteristico di questo mare - per sostenere che tali vegetali erano sicuramente indizi dell'esistenza di terre vicine (cosa in realtà non vera), e quindi tranquillizzare temporaneamente i suoi uomini.
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Col trascorrere dei giorni la tensione a bordo delle caravelle cresceva. Il 7 ottobre Colombo decise di virare verso sud-ovest, avendo visto alcuni uccelli dirigersi verso quella direzione. Ma il 10 ottobre scoppiò un ammutinamento: l'equipaggio intimò al comandante di virare immediatamente verso est, e tornare indietro. Colombo, forte delle sue conoscenze nautiche e dello studio della rotta che aveva compiuto nel corso del viaggio, ottenne un accordo: se entro tre giorni le vedette non avessero scorto alcuna terra, le caravelle sarebbero tornate indietro.
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L'11 ottobre un marinaio pescò in mare un fiore fresco; oramai si scorgevano di frequente ramoscelli e vegetali e soltanto la vicinanza di una terra emersa poteva giustificare questi ritrovamenti. La notte dell'11 ottobre - come poi riportò sul libro di bordo - Colombo si disse convinto d'avere intravisto nel buio, in lontananza, una luce, «como una candelilla que se levava y se adelantaba» (come una piccola candela che si levava e si agitava). Finalmente, alle due di notte del venerdì, 12 ottobre 1492, Rodrigo de Triana, a bordo della Pinta, avvistò la terra. Colombo decise di attendere il giorno; in questo modo le caravelle riuscirono a trovare un varco nella barriera corallina e a gettare l'ancora senza incidenti. All'alba Colombo sbarcò su un'isola, chiamata Guanahani dagli indigeni, che egli battezzò San Salvador.
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Colombo e la sua ciurma furono accolti con grande cortesia e condiscendenza dai Taino, la tribù abitante dell'isola. L'esplorazione dell'isola non diede i risultati sperati, in quanto Colombo non trovò le ricchezze descritte da Marco Polo. Ripreso il mare, la sua spedizione esplorò la costa nord-orientale di Cuba.
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La sera del 27 ottobre 1492, le caravelle di Colombo arrivano alla fonda di Cayo Bariay a Cuba, nell'attuale provincia di Holguín, il giorno successivo inviò il suo ammiraglio ad esplorare la terraferma. Nel diario di bordo di domenica 28 ottobre 1492 troviamo scritto: "Es la isla mas hermosa que ojos humanos hayan visto" ("È l'isola più bella che occhio umano abbia mai visto").
Successivamente esplorò quella settentrionale di Haiti, raggiunta il 5 dicembre e la chiamò Hispaniola. Qui la Santa Maria urtò uno scoglio e dovette essere abbandonata. Colombo fece costruire un forte, La Navidad, dove lasciò parte dell'equipaggio.
Il 2 gennaio 1493 Colombo riprese la rotta verso l'Europa. Dopo che una tempesta lo costrinse ad attraccare alle Azzorre, sull'isola di Santa Maria, dove i governatori locali cercarono inizialmente di trattenerlo con la forza. Riuscito a ripartire, Colombo arrivò a Restelo, nei pressi di Lisbona il 4 marzo.
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L'8 marzo Colombo venne invitato dal re alla corte portoghese, durante il viaggio si fermò per ordine della regina sua moglie, Leonora per visitarla ed informarla, l'11 marzo, al Convento de Santo António dos Capuchos, vicino di Nossa Senhora da Conceição dos Povos a Vila Franca de Xira.
Dopo essere stato ricevuto dal re Giovanni II del Portogallo a Vale do Paraíso, vicino Azambuja, il 10 marzo, Colombo discese il fiume Tago per far visita ai suoi vecchi amici di Santarém.
Successivamente, il 15 marzo 1493, giunse via mare a Palos, in Castiglia. Qui Colombo, che aveva portato con sé un po' di oro, tabacco e alcuni pappagalli da offrire ai sovrani quali segni tangibili delle potenzialità delle "isole dell'India oltre il Gange", condusse anche dieci indiani Taino che aveva rapito proprio fra quei suoi gentili ospiti che "professavano grande amore verso tutti".
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Colombo fu accolto come un eroe dai sovrani, che lo sollecitarono ad intraprendere un altro viaggio: la regina di Castiglia ed il re di Aragona credevano che egli fosse stato in Giappone.
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Secondo viaggio
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L'ammiraglio Colombo salpò per il suo secondo viaggio da Cadice il 25 settembre con 17 navi ed un equipaggio di circa 1200 uomini, tra i quali vi erano il figlio Diego, il fratello Giacomo e l'amico Michele da Cuneo, savonese, che ci ha lasciato un'importante relazione.
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Il 3 novembre la flotta raggiunse Dominica e veleggiò tra le piccole e le grandi Antille. Il 19 arrivarono a Porto Rico ed il 22 dello stesso mese Colombo tornò ad Hispaniola, dove scoprì che gli uomini dell'equipaggio che aveva lasciato erano stati uccisi.
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Dopo aver fondato un nuovo avamposto, Isabella, Colombo trascorse alcuni mesi nell'esplorazione dell'entroterra alla ricerca di oro. Poi nel 1494 lasciò Hispaniola e il 30 aprile giunse a Cuba e pochi giorni dopo in Giamaica. Tornato ad Hispaniola, Colombo, dopo aver inviato una nave carica di indigeni in Spagna, costrinse i nativi rimasti a cercare l'oro.
Alla fine del 1495 Colombo ripartì alla volta della Spagna, che raggiunse nella primavera del 1496.
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Terzo viaggio
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Dopo due anni trascorsi in Castiglia a convincere i reali della necessità di una nuova spedizione e a reperire la somma necessaria per il viaggio, Colombo riuscì ad armare 6 navi, con un equipaggio di circa 300 marinai.
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La flotta, partita il 30 maggio 1498, si diresse verso le isole di Capo Verde e di lì raggiunse Trinidad, il 31 luglio. Nell'agosto dello stesso anno Colombo esplorò il Golfo di Paria ed il delta dell'Orinoco. In questo terzo viaggio Colombo scoprì il continente americano vero e proprio, quando avvistò le coste orientali dell'attuale Venezuela nel Golfo di Paria (che battezzò "Golfo de la Ballena").
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Tornato a Santo Domingo, Colombo dovette fare i conti con i coloni in rivolta e gli indigeni decimati dalle malattie e dai lavori forzati. I sovrani cattolici, avvertiti dai reduci dei disordini sull'isola, inviarono nel 1500 Francisco de Bobadilla, per far luce sull'accaduto. Questi, resosi conto della situazione, arrestò Colombo ed i fratelli e li ricondusse in patria. All'arrivo Isabella la Cattolica fece liberare Colombo, che però dovette rinunciare al titolo di viceré.
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Quarto viaggio
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Nonostante tutto, i reali concessero a Colombo d'intraprendere un quarto viaggio, accompagnato dal fratello Bartolomeo e dal figlio tredicenne Fernando. Le quattro navi, salpate da Cadice il 9 maggio 1502, arrivarono a Santo Domingo il 29 giugno.
Qui il governatore vietò a Colombo l'attracco delle sue caravelle ed egli dopo essersi rifugiato in una baia vicino dove le navi restarono a galla nonostante una tempesta tropicale, ripartì verso l'America centrale continentale al fine di trovare il passaggio per le indie. La città del governatore era stata nel frattempo duramente colpita dalla tempesta tropicale che aveva affondato tutte le navi del governatore ad eccezione di una e aveva ucciso 500 coloni (forse si trattava di un uragano).
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Tra il luglio e l'ottobre di quell'anno Colombo costeggiò l'Honduras, il Nicaragua e la Costa Rica. Il 16 ottobre arrivò a Panama, dove si fermò per l'inverno. Qui fondò con 80 uomini una colonia, presso il Rio Belen che però fu abbandonata a causa dell'ostilità degli indigeni. Gli indigeni locali infatti erano abituati a combattere e impugnavano mazze in durissimo legno di palma con le quali in uno scontro uccisero uno spagnolo e ne ferirono altri sette.
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Il 15 aprile 1503 Colombo ripartì per Hispaniola, scoprì le Isole Cayman e le battezzò Las Tortugas a causa delle numerose tartarughe marine che vi erano presenti, ma durante il viaggio gli scafi furono attaccati da dei parassiti comuni in queste acque caraibiche che indebolirono la struttura delle tre navi rimaste e li costrinsero a naufragare sulla costa settentrionale della Giamaica. Le navi infatti avevano imbarcato acqua e la spedizione era giunta in Giamaica solo svuotandolo con le pompe ed i secchi di bordo. Poco dopo l'arrivo le navi affondarono. Colombo rimase sull'isola per circa un anno, aspettando i soccorsi richiesti tramite un capitano (l'unico che si offrì di percorrere i 160 km) diretto in canoa con due indigeni (di cui uno morì per un colpo di caldo durante il viaggio e fu gettato in acqua) verso Hispaniola dal governatore di Santo Domingo.
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Arrivò nell'attuale Haiti cinque giorni dopo, ma all'inizio il governatore non aiutò subito Colombo di cui era acerrimo nemico e anzi lo derise mandando una nave e facendola tornare indietro. Nel frattempo metà della ciurma si era ammutinata guidata da due fratelli e aveva rovinato i rapporti con gli indigeni giamaicani che si rifiutarono di consegnare a Colombo cibo. La fazione di Colombo allora ingaggiò un combattimento contro gli ammutinati uccidendo tutti meno che i due fratelli. Colombo riuscì poco dopo a prevedere un'eclissi lunare e mandò quindi a chiamare gli indigeni sostenendo che il suo dio era in collera con loro e avrebbe oscurato il cielo. La sera la luna divenne rossa e il giorno dopo gli indigeni ripresero a dare da mangiare ai superstiti.
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Il 29 giugno 1504 la nave concessagli arrivò e con essa Colombo e i 110 uomini sopravvissuti (su 140) salparono per Santo Domingo dove la maggior parte dei suoi uomini troppo esausti per attraversare l'Oceano Atlantico si fermò. Colombo dopo aver aspettato alcuni mesi prese con il figlio Fernando una nave diretta in Spagna, pagandosi di tasca propria il viaggio. Arrivò in Spagna il 7 novembre.
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La morte a Valladolid e le prime vicissitudini delle sue spoglie
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Alla fine del 1504 decise di non lasciare più la Spagna, pur in un ambiente a lui ostile. La regina Isabella, sua protettrice, nel frattempo era morta, mentre il re e la corte non comprendevano l'importanza delle sue scoperte, né accettarono il suo "Memorial des Agravios", un lungo memoriale sui torti ricevuti. Morì a Valladolid il 20 maggio 1506, quasi povero. Venne sepolto inizialmente nella chiesa di Valladolid, ma i suoi resti furono quindi inumati nella cripta di un monastero a Siviglia, dove venne poi sepolto anche suo figlio Diego Colombo, ma pressoché subito posti nella cattedrale della stessa Siviglia. Successivamente i loro resti, per espresso desiderio del grande ammiraglio in un codicillo testamentario segreto, di cui non c’è chiara traccia, nel 1544 sarebbero stati traslati nell’isola Hispaniola, già dai cartografi coloniali denominata come "isola di Santo Domingo". Ufficialmente si disse però che a essere traslati erano stati i resti del solo Diego. Nel 1877 il Nunzio Apostolico in Santo Domingo, durante alcuni lavori per la cattedrale, scoprì una cripta, evidentemente nascosta, dove vi erano oltre ai resti di Don Luis Colon, il nipote, una cassa di piombo, con dei resti umani; vi era una scritta che attribuiva questi resti al Primer Almirante y Virrey de las Indias, Don Cristobal Colon. Oggi quei resti sono stati trasportati ancora una volta e riposano al faro di Colon, voluto dal governo dominicano a perenne ricordo dello scopritore.
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Quando nel 1795 la Spagna si stava apprestando a consegnare l’isola alla Francia, i resti dei due Colombo furono portati dagli spagnoli all’Avana, dove rimasero sino al 1898. Con la vittoria degli Stati Uniti nella guerra ispano-americana, gli stessi spagnoli li trasferirono a Santo Domingo: le cui autorità peraltro, già nel 1877, avevano rivelato d’avere scoperto nella cattedrale una cassa con frammenti d’ossa e l’iscrizione: “Illustre Don Cristobal Colón” e sostennero che gli spagnoli si erano sbagliati e avevano portato all’Avana solamente i resti del figlio Diego. La Spagna da parte sua ha sempre definito risibili tali diatribe, affermando che i resti del grande navigatore sono sempre rimasti nella cattedrale di Siviglia.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-561492849699590362010-07-20T11:00:00.001+02:002010-07-20T11:02:27.642+02:00Isaac Newton<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://www.virtualmuseum.ca/Exhibitions/Annodomini/THEME_15/IMAGES/J991825.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="http://www.virtualmuseum.ca/Exhibitions/Annodomini/THEME_15/IMAGES/J991825.jpg" width="171" /></a></div>
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<i style="color: white;"><u>Grazie all'autrice di questo post, Chiara
Perata</u></i> </div>
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In Inghilterra si è affermata una notevole comunità scientifica, con Newton si può affermare che lo scettro del sapere passa dall’Italia all’Inghilterra.</div>
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Isaac Newton nasce a Woolsthorpe-by-Colsterworth il 25 dicembre del 1642 (anno in cui muore Galileo, alcuni storici della scienza vedono un ideale testimone di passaggio del sapere da Galileo ad Isaac). Non è di famiglia benestante, non conosce suo padre, muore tre mesi prima della nascita di Isaac. All’età di otto anni la madre si risposa e viene affidato dal padrino alla nonna materna. Questa situazione famigliare ha inciso sicuramente sul carattere chiuso di Isaac, non è un genio precoce, ma già da piccolo si manifesta il suo ingegno, infatti riempie la casa di strumenti e diagrammi.</div>
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Si iscrive all’università di Cambridge come studente povero e per tanto doveva svolgere lavori umili all’interno dell’istituto per pagarsi la retta. </div>
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Cambridge non era un gran college all’epoca ma era uno dei pochi che ammetteva ragazzi di umili origini al suo interno. </div>
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Si laurea nel 1695 il suo maestro, Isaac Barrow, ottimo studioso dell’ottica, va in pensione e lascia la sua cattedra di matematica al giovane Newton che nel frattempo si è dedicato allo studio di Cartesio.</div>
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Quello stesso anno l’Inghilterra è colpita dalla peste, il college viene chiuso e Isaac torna dalla nonna. Durante questo periodo mette insieme quella che sarà la sua scienza, costruisce il primo microscopio a riflessione, si tratta di uno strumento in sé piccolo ma con grandi potenzialità e capacità.</div>
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Newton invia lo strumento alla Royal Society (la più grande accademia delle scienze indipendente esistente in Europa). Ne applica una memoria per sostenere la sua teoria crepuscolare, applica il modello atomistico al sistema della luce, sostiene che milioni di atomi si muovono nello spazio.</div>
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Il suo grande rivale Robert Hooke, sostiene che i raggi luminosi si muovano con un moto ondulatorio nell’etere. La Royal Society si contrappone alle teorie del giovane Newton favorendo quelle di Hooke ed Isaac quindi rinuncia per il momento a pubblicare il suo lavoro. </div>
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Nel 1667 Newton smette di inviare memorie alla Royal Society e si dedica all’insegnamento, in questo periodo si dedica agli studi di alchimia, teologia e storia sacra ma non pubblica nulla. </div>
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Edmund Halley lo riporta sulla prima linea e lo convince a scrivere un libro sulla sua cosmologia dal titolo “<i>Philosophiae naturalis principia matematica</i>” in cui sostiene che i principi della filosofia naturale sono di ordine matematico. È un’opera di non facile lettura perché parte dai fatti sperimentali ricostruiti per giungere a una conclusione.</div>
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Uno dei suoi lavori più importanti in questi anni è lo studio dei logaritmi e del calcolo degli infinitesimali, ma non utilizza ancora la geometria euclidea per spiegare le sue teorie, si è convinto che i metodi più antichi siano più precisi di quelli contemporanei. Newton quindi non utilizza il calcolo infinitesimale per spiegare la gravità. L’opera è divisa in tre libri ed enuncia i principi degli assiomi, nel secondo libro tratta la dinamica dei fluidi e distrugge la metafisica cartesiana, nel terzo libro enuncia la teoria gravitazionale, è il primo scienziato a ragionare in termini di forze, Newton trova un’unica forza: la gravità. "<i>Due corpi, rispettivamente di massa m1 ed m2, si attraggono con una forza di intensità direttamente proporzionale al prodotto delle masse ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Tale forza ha la direzione parallela alla retta congiungente i baricentri dei corpi considerati.</i>" </div>
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La cosmologia gravitazionale è un campo vergine e lancia un guanto di sfida perché pare indimostrabile, lui ha utilizzato la forza di un’azione a distanza.</div>
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Nel 1686 l’opera esce a Londra e viene ampiamente discussa, ora Newton si trova al centro dell’attenzione scientifica. Riceve molte lettere da Hooke e dimostra di non essere capace di dialogare senza alterarsi.</div>
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I <i>Principia</i> fanno di lui il portavoce della frontiera più avanzata della filosofia naturale, ma lui non si vede così: secondo lui gli uomini possedevano già questa conoscenza, lui l’ha solo riportata alla luce. Newton si vede come il riscopritore delle leggi naturali che per ragioni storiche sono andate perdute. Newton è un uomo molto legato al passato e al sacro, se gli si chiede qual è la causa della gravità lui dà una risposta teologica a una domanda di carattere scientifico: Dio. </div>
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Nel 1689-90 diventa deputato per l’università di Cambridge, per i whigs (liberali), siede di fianco a Locke che rappresenta Oxford. Tra i due nasce un’amicizia che Newton romperà nel 1694 a causa di un esaurimento nervoso.</div>
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Nel 1703 muore Hooke e Newton si sente libero dai suoi fantasmi e pubblica un libro sull’ottica: la luce è un composto di colori. Nel 1704 pubblica “Ottics” e diventa il simbolo della scienza inglese, tra l’altro l’anno precedente è stato istituito della carica di presidente della Royal Society. Leibniz propone all’accademia il suo calcolo infinitesimale, ma Newton vi era arrivato molti anni prima e ostacolerà il rivale con ogni mezzo.</div>
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Newton sviluppò il calcolo indipendentemente da Leibniz che però usò una notazione più precisa. È certo che Newton scoprì il calcolo dieci anni prima di Leibniz, ma pubblicò la sua scoperta molto dopo. Newton sostenne di non aver pubblicato il suo lavoro per timore di essere deriso. Dal 1699 alcuni membri della Royal Society accusarono Leibniz di plagio, e iniziò una violenta contesa su chi avesse inventato il calcolo. Questa disputa amareggiò le vite di entrambi i contendenti fino alla morte di Leibniz nel 1716. Anche dopo la sua morte Newton continua a denigrare la memoria dell'avversario fino al punto che, secondo alcuni, sarebbe arrivato a compiacersi di avergli "spezzato il cuore". </div>
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Trasforma la Royal Society in un feudo personale, qualunque decisione deve avere il suo consenso e ciò costituisce un grosso limite.</div>
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Newton ha studiato storia della chiesa dal quarto secolo dopo Cristo e si è concentrato su una disputa tra Ario e Atanasio. Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 fu segretamente seguace di Ario, per lui Gesù era divino come qualità dell’animo ma non nel corpo, inoltre credendo in un solo dio, non accettava il dogma della trinità, non pubblicò mai nulla in merito.</div>
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Muore nel 1727 e viene sepolto nella cattedrale di Westmister, la sua tomba monumentale è ricca di simbolismo che racconta la sua importante vita e carriera. Ricordiamo ad esempio che oltre ai libri posti sotto il suo braccio che rappresentano la sua devozione allo studio, è rappresentata una mela, il simbolo per eccellenza degli studi sulla gravità. Fu il primo uomo di scienza a ricevere un funerale d’onore. </div>
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L’epitaffio sulla sua monumentale tomba recita una frase pronunciata da Alexander Pope, suo rivale in parlamento: “Si rallegrino i mortali perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano”.</div>
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Ma forse è più significativo il poemetto dedicatogli sempre da Pope: “La natura e le leggi della natura giocano nascoste nella notte; Dio disse: “che Newton sia!” e luce fu!”.</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-8849639698908911744.post-89994498695835187042010-07-19T19:34:00.000+02:002010-07-19T19:34:57.499+02:00Maori<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://digilander.libero.it/atawhai/rtibal%20maori.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://digilander.libero.it/atawhai/rtibal%20maori.jpg" width="249" /></a></div>
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I Maori discendono da popolazioni austronesiane provenienti dal sub-continente asiatico che, grazie ad abili tecniche di navigazione, penetrarono in Melanesia circa 4.000 anni or sono.
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La ragione per la quale gli antenati polinesiani dei Maori si sono lanciati a bordo delle loro canoe oceaniche, i waca, per lunghi viaggi colonizzatori resta, almeno in parte, un mistero. Quello che si sa è che la più grande delle loro imbarcazioni poteva trasportare fino a 250 persone oltre alle piante ed agli animali dei quali avrebbero avuto bisogno per iniziare una nuova vita.
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Le manifestazioni archeologiche di questa penetrazione in Oceania sono designate come il “Complesso Culturale Lapita”. Fra il 1.600 ed il 1.400 a.C., i portatori della ceramica lapita si diffusero in una regione che comprendeva le Fiji orientali, le Tonga, le Samoa e altre isole di più piccole dimensioni. Questa regione può essere considerata come la patria della cultura polinesiana che qui sviluppò i suoi caratteri peculiari. Infatti, a partire dal 500 a.C., si può archeologicamente distinguere una società polinesiana ancestrale dal precedente complesso culturale lapita.
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Da questa zona vennero in seguito popolate le isole Marchesi e della Società, gli arcipelaghi della Polinesia centro-orientale fino a giungere a Rapa Nui (l'isola di Pasqua), alle isole Hawaii e ad Ao-tea-roa (la terra della grande nuvola bianca) cioè la Nuova Zelanda.
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L'insediamento umano in Nuova Zelanda risale a circa sette secoli fa, quando gruppi di polinesiani, probabilmente in una serie di ondate successive, vi giunsero tra il 1000 e il 1300 d.C. Nei secoli successivi, essi svilupparono una cultura propria, fino a forgiare l'attuale identità del popolo maori. La popolazione era suddivisa in sottogruppi detti hapu, a volte alleati, a volte in lotta fra loro. In epoca successiva, un nucleo di maori lasciò la Nuova Zelanda alla volta delle isole Chatham, dando così vita ad un'altra nuova cultura nota come "moriori".
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La leggenda narra che il navigatore Kupe vi approdò dopo una lunga traversata a vela dall'isola di Hawaiki in Polinesia. Poiché nel momento dell'approdo una gigantesca nube bianca avvolgeva l'intero paese, Kupe chiamò quella terra Aotearoa - la terra della grande nube bianca - che ancora oggi è il nome maori della Nuova Zelanda. Secoli più tardi, quando la carestia colpì l'isola di Hawaiki, molti altri Maori intrapresero la rotta insegnata da Kupe e si stabilirono permanentemente sull'isola.
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L'attività bellica e la relativa organizzazione militare hanno contraddistinto in un certo senso la storia e la cultura maori; grazie ad esse tale popolazione riuscì a conquistare gran parte dell'arcipelago e a costruire veri e propri villaggi fortificati.
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La società maori tradizionale, ad economia di pesca-caccia-raccolta, seguiva uno schema rigidamente gerarchico ed era suddivisa in ampie famiglie, le whanau, facenti capo ad unità sociali chiamate hapu (clan), guidate dal kaumatua, capo anziano appartenente alle famiglie nobili, le rangatira.
Le hapu erano anche il gruppo di proprietà fondiaria primario e l'unico entro il quale il matrimonio era consigliato ed auspicato; esse rappresentavano l'unità territoriale cognatica: un individuo poteva appartenere a tutte le hapu dei suoi antenati, ma aveva la possibilità di risiedere solo in una per volta, cosa che comunque non gli faceva perdere i diritti verso le altre hapu.
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Il matrimonio non esisteva ed aveva piena legittimità la famiglia di fatto. La vita comunitaria si esprimeva intorno alle marae, costituite dalla casa del capo, la sala per le riunioni (meeting house) e la piazza centrale. La marae è ancora oggi un luogo giuridico-politico di notevole importanza: all'interno di essa si esplicano, infatti, le attività comunitarie più importanti quali le celebrazioni per le nascite, i matrimoni, le morti, i riti d'iniziazione, i culti, la discussione dei problemi del gruppo sociale, le assemblee dei capi[4]. Le marae fondamentalmente "incarnavano la legittimità dei diritti fondiari esercitati dai gruppi sociali
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I primi europei a visitare l'arcipelago furono gli olandesi della spedizione guidata da Abel Tasman nel 1642. Molti membri dell'equipaggio vennero uccisi dai maori e l'esito della spedizione fu tenuto segreto per evitare eventuali insediamenti della rivale Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Gli europei non fecero ritorno sulle isole fino all'arrivo dell'esploratore britannico James Cook, che visitò queste terre durante il suo viaggio del 1768-71. Cook sbarcò in Nuova Zelanda nel 1769 e mappò gran parte delle coste. Dopo la spedizione di Cook, molte altre navi europee e americane sbarcarono sulle isole. Gli europei erano soliti commerciare con i nativi, cedendo cibo europeo, armi e utensili in metallo in cambio di acqua fresca e cibo locale. L'introduzione della patata e del moschetto ebbe un notevole impatto sulla società maori. In particolare, l'uso dei moschetti modificò i rapporti di forza tra le varie tribù, portando alle cosiddette "guerre del moschetto". Inoltre, a partire dagli inizi del XIX secolo, diverse missioni cristiane si stabilirono nel paese, convertendo gran parte dei maori.
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Preoccupato dalle mire espansionistiche francesi e dal modo disordinato con cui i bianchi stavano colonizzando le nuove terre, il governo britannico decise di inviare in Nuova Zelanda William Hobson, al fine di reclamare la sovranità britannica e stipulare un trattato con i nativi. Fu così che dal 1788 al 1840 la Nuova Zelanda fece formalmente parte del Nuovo Galles del Sud. La vera svolta fu determinata dal Trattato di Waitangi, stipulato nella Baia delle Isole il 6 febbraio 1840. Malgrado le discordie e i dubbi che ancora oggi si hanno sulle versioni in lingua maori e in inglese, tale trattato è considerato l'atto costitutivo della nazione neozelandese nonché una garanzia dei diritti dei maori. In particolare, Hobson scelse inizialmente Okiato come capitale della nuova colonia, per poi trasferirsi ad Auckland nel 1841.
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A partire dal 1840 consistenti ondate di coloni europei giunsero in Nuova Zelanda. I maori, inizialmente, si mostrarono desiderosi di commerciare con i bianchi (da loro chiamati pakeha) e, proprio grazie a questo tipo di attività, diverse tribù riuscirono ad arricchirsi. La situazione cominciò però a peggiorare quando, di fronte alla crescita degli insediamenti dei bianchi (stimolata dalla scoperta dell'oro, avvenuta nel 1861), i maori cominciarono a temere di perdere il controllo della loro terra. Tali contrasti portarono alle cosiddette guerre maori, combattute tra gli anni '60 e '70 dell'Ottocento e che causarono ai maori la perdita della gran parte delle loro terre.
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Come si orientavano tra gli arcipelaghi
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I polinesiani si orientavano in mare grazie ad un complesso sistema di indizi che utilizzava una varietà di segnali e simboli naturali.
Erano soliti portare con loro i maiali, i quali dotati di un potente olfatto, avvertivano tenui tracce di profumi “terrestri” nell'aria anche a 40 miglia di distanza da un'isola; osservavano il volo dei grandi uccelli marini, come gli albatros, i quali non si allontanano mai a più di 40 miglia dalla costa; inoltre i polinesiani in viaggio imbarcavano, come i Vichinghi, alcuni uccelli. Gli uccelli venivano liberati ad uno ad uno, e se non ritornavano all'imbarcazione, i piloti prendevano la direzione indicata dal loro volo.</div>
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Studiavano le leggere modificazioni delle onde, delle correnti e dei venti, ma anche le nuvole lontane offrivano ai viaggiatori un tenue indizio di terra emersa, poiché le nuvole stazionano più facilmente sugli atolli che non sul mare aperto. La laguna di un atollo, infatti, è più calda del mare aperto, quindi l'aria si riscalda e richiama le nuvole.
Una volta avvistata la nuvola, occorreva osservare se aveva sfumature verdastre, questo perché le nuvole riflettono il colore del mare, e l'acqua delle lagune è più verde di quella circostante.
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Infine studiavano le posizioni delle stelle. In tutto il Pacifico il cielo veniva rappresentato come una cupola, o come una serie di cupole sovrapposte l'una all'altra. Si assegnavano nomi a stelle e gruppi di stelle specifici e le posizioni ed i moti delle costellazioni maggiori erano ben noti alla maggior parte delle persone. I giovani apprendisti navigatori imparavano però una versione più dettagliata e formale del cielo in speciali “scuole” dirette da maestri piloti che mescolavano la teoria con l'esperienza pratica. Nelle Isole Gilbert, ad esempio, le disposizioni delle travi del tetto negli “edifici di addestramento” rappresentavano le stelle, le costellazioni e le divisioni del cielo.
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Questi popoli scoprirono presto che l'altezza della Stella Polare al di sopra dell'orizzonte settentrionale era uguale alla latitudine del luogo in cui ci si trovava. In altre parole, quando la Stella Polare si trovava a 10° al di sopra dell'orizzonte nord, l'osservatore si trovava a 10° di latitudine nord.
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Essi imparavano a memoria le posizioni di una varietà di stelle, le quali sono sospese al di sopra alle varie isole. Quando una certa stella passava al di sopra del loro capo, questi comprendevano quale fosse la loro posizione, cioè un osservatore che osserva che una stella particolare passa direttamente al di sopra della sua testa, sa che la sua latitudine è uguale a quella della latitudine celeste della stella. Così, se un pilota vedeva allo zenit Hokule'a (Arturo), sapeva di trovarsi alla latitudine delle Isole Hawaii, mentre se passava direttamente sotto Sirio, sapeva di trovarsi alla stessa latitudine di Tahiti e delle Fiji.
Molto più spesso i polinesiani utilizzavano le stelle Fanakenga, le stelle all'orizzonte, che si usavano come bussole per seguire una rotta. I punti di levata e di tramonto indicavano direzioni generali sull'orizzonte.
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La mitologia
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Nella religione dei Maori, Taaroa (l'intimo dell'essere interiore) rappresenta l'essere supremo, il capostipite di tutte le divinità, il padrone dell'universo ed il suo nome può essere solo sussurrato. Dalla sua unione con Feii-Feii- Maiterai, derivano la notte ed il crepuscolo, la luce del giorno (entità maschile, Rangi) e la terra (entità femminile, Papa).
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In seguito regnarono le tenebre perché Rangi, il Cielo, era strettamente unito a Papa, la Terra. I figli, sebbene fossero divenuti molto numerosi, non conoscevano la differenza tra luce e tenebre poiché erano rimasti nascosti nel seno dei propri genitori. Così si consultarono e decisero di separarli, ma nonostante gli sforzi non ci riuscirono finché non provò Tane-mahuta, il dio degli alberi, che facendo puntello fra di loro, sollevò il Cielo sopra la Terra. Così il popolo uscì e divenne visibile.</div>
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I figli rappresentano i dodici dei della natura di grado più elevato, noti complessivamente come Atua. Di questi fanno parte Tangaroa, dominatore del mare e dei pesci e capostipite dei capi; Tane-mahuta, il signore dei boschi, degli alberi e degli insetti; Tu, colui che è instabile, signore della guerra; Rongo, il dio della pace e delle piante coltivate; Haumia, signore delle piante selvatiche; Tawhiri, divinità del vento e delle forze della natura.
Le divinità locali come Hina, dea della Luna, dell'aria e del mare e Atea, dea dello spazio, costituiscono gli Aku. Taaroa si unì anche con la dea dell'aria Ohina e diede la vita alle nuvole rosse, all'arcobaleno e al chiaro di Luna.
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Tutti gli elementi, compreso l'uomo, sono fratelli e quindi possono essere invocati in aiuto. Caratteristico è il rispetto nei confronti di tutto ciò che è considerato tabù (in Maori “tapu”) ovvero dotato di forza misteriosa e sovrumana.</div>
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<span style="color: #e69138;">Il tatuaggio</span> </div>
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Mentre
i tattoo polinesiani venivano usati principalmente per indicare lo
status
famigliare o sociale, quelli dei Maori assunsero i simboli di un'arte
unica e molto<br />
<span class="ske02">raffinata. Questi costituiscono un insieme artistico di linee e
spirali combinate. Con uno strumento simile ad un scalpello i Maori praticavano
delle piccole incisioni sulla pelle, che poi riempivano con pigmentazioni
colorate. Con questa tecnica i Moko sembravano in rilievo, i solchi
"tridimensionali" sulla pelle sembravano più intagli che tatuaggi. Con eccezione degli
schiavi tutti gli uomini erano tatuati in viso, e anche in altre parti
del corpo.
Un viso tatuato elegantemente era motivo di onore e orgoglio per un
guerriero,
che appariva temibile davanti al nemico e attraente a gli occhi di una
donna.<br /><br />
In modo meno minuzioso anche le donne erano tatuate. Le labbra venivano evidenziate e il mento delle volte era tatuato, qualche linea e qualche
spirale era presente, appunto, sul mento e sulla fronte. I disegni contenevano una serie di elementi tradizionali, ciascuno con un proprio nome. Questi componenti variavano a seconda del tatuatore e quindi, sotto un attento esame, nessun tatuaggio era uguale ad un altro. Una capacità sorprendente dei capi tribù Maori, e che erano in grado di
riprodurre a memoria i tatuaggi che avevano in viso e di usarli per
firmare, pur non conoscendo lo specchio !. Queste "firme tribali" sono
presenti nei contratti conclusi tra Maori e Inglesi. Per eseguire i tatuaggi i Maori usavano dei piccoli pezzi d'osso, metallo o conchiglia
che venivano intinti in un pigmento colorato e quindi infilati nella
carne per mezzo di un piccolo martello.</span><br />
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Per riprodurre le linee che
caratterizzavano il Moko era neccesario che lo strumento penetrasse
profondamente sottopelle. Poteva capitare che il tatuatore dovesse
percuotere ripetutamente perchè l'incisione non riusciva in una volta
sola: il dolore era intenso, consistenti le perdite di sangue, ma a un
guerriero valoroso non era consentito lamentarsi ne tremare durante
l'esecuzione del tatuaggio. Il tatuaggio al viso o Ta Moko come anche
gli altri tatuaggi veniva eseguito in assoluto silenzio e isolamento da
specialisti uomini -Tobungata-moko. Prima di iniziare, il tatuatore
studiava le caratteristiche facciali e la conformazione delle ossa
della persona da tatuare. I Tobungata-moko non lavoravano
solo in una tribù o in un villaggio o
in una regione, anche se le loro opere sembrano appartenere a ben
determinate e precise regioni preistoriche. Come detto il tatuaggio caratteristico tra i Maori era il moko, ma
anche il resto del corpo viene tatuato, con una tecnica diversa, i
tatuaggi sul corpo vengono eseguiti secondo modalità tradizionali (così
come accadeva anche in Oceania):si usava un utensile a forma di
pettine (documenti testimoniano l'uso del rosso e del blu, che
affiancano l'uso più comune del nero).
</div>Andrea M.http://www.blogger.com/profile/03273250258221099360noreply@blogger.com